I migliori 40 libri letti nell’ultimo anno
Questo articolo nasce da uno dei bizzarri “diari” che talvolta mi vien voglia di tenere.

In questo caso “I migliori 40 libri letti nell’ultimo anno”: annotare le mie letture per un anno esatto, per vedere quali percorsi durante quel lasso di tempo si sarebbero sviluppati in parallelo a quel che andavo vivendo.
Spero quindi che mi si perdoneranno alcuni riferimenti di carattere autobiografico che compaiono qua e là, anche se in vista della pubblicazione su “Oubliette” ‒ il “diario” era nato senza alcuna ambizione di sortita pubblica ‒ ho rivisto e selezionato il materiale, cercando di eliminare i passaggi più personali e meno interessanti.
Ho deciso tuttavia di mantenere le “valutazioni” ai vari libri letti: talvolta il mio giudizio non è positivo, ma si tratta di testi che forse potrebbero interessare ad altri lettori, e ho quindi deciso di includerli in questa lista. Diciamo che, seguendo a suo modo una tradizione di “Oubliette”, questo articolo vorrebbe essere un’esca per la curiosità degli amanti della lettura…
I migliori 40 libri letti nell’ultimo anno
Paul Auster: Invisibile (Invisible, 2009)
Traduzione di Massimo Bocchiola; Torino, Einaudi, 2009.
Cominciato il 21 settembre 2023, terminato il 9 ottobre.
Valutazione personale: 8/10.
Tom Siegfried: Il numero dei cieli (The Number of the Heavens. History of the Multiverse and the Quest to Understand the Cosmos, 2019)
Traduzione di Andrea Migliori; Torino, Bollati Boringhieri, 2020.
Cominciato il 9 ottobre, terminato il 1° novembre.
Valutazione personale: 5/10.
Da profano, le ipotesi (ma anche la necessità) di un multiverso mi appaiono alquanto pretestuose ‒ a parità di attuale non-dimostrabilità sperimentale, mi affascina e trovo molto più plausibile ad esempio la gravità quantistica a loop. Questo libro, dopo un inizio promettente, si trasforma ben presto in una rassegna un po’ pedante (e anche, talvolta, molto superficiale) dei filosofi e scienziati che nel corso dei secoli hanno proposto modelli teorici per la struttura del cosmo. Il problema è come l’autore sovente inciampi in una confusione terminologica (ma anche concettuale) tra mondo, cosmo e universo: con l’idea (contemporanea) del “multiverso” in testa, Siegfried mi pare travisi completamente, ad esempio, la concezione di “molteplici mondi” dei filosofi greci e romani, come pure l’enunciazione di infinito di Giordano Bruno (e questo anche se nell’ultimo capitolo del libro vengono ricapitolate ‒ scusate il calembour ‒ le varie accezioni storiche del termine multiverso e dei suoi presunti sinonimi). Le cose vanno meglio quando si arriva alle teorie novecentesche e di questi ultimi decenni sul multiverso propriamente detto. Anche nella parte dedicata ai filosofi e teologi medievali, in realtà, vi sono passaggi interessanti ‒ almeno per me che ho una conoscenza molto superficiale della filosofia medievale, che pure mi affascina ‒ legati a figure che effettivamente si posero il problema di una possibile esistenza di altri universi. Mi colpisce in particolare Roberto Grossatesta (1175-1253), scienziato e teologo inglese che cercò di conciliare la cosmologia aristotelico-tolemaica con quella cristiana, con alcune intuizioni che sembrano anticipare l’idea odierna di Big Bang e l’importanza fondamentale della radiazione luminosa.
Antonio Manzini: ELP
Palermo, Sellerio, 2023.
Cominciato il 10 ottobre, terminato il 18 ottobre.
Valutazione personale: 6/10.
I libri di Manzini sono sempre godibili, e negli anni la sua scrittura ‒ che all’inizio risentiva di qualche tono vagamente dilettantistico ‒ è sembrata molto maturare (frutto forse di un buon lavoro con gli editor?). Continuano tuttavia a darmi fastidio certe descrizioni e metafore un po’ stantie presenti anche in questo libro («L’aria era fresca, le stelle sembravano saltare via dalle coste delle montagne come pulci dal dorso di un enorme cane addormentato»…). Anche questa nuova puntata della saga del vicequestore Rocco Schiavone si fa leggere, ma non è tra le migliori: l’ho trovata meno abile nell’intreccio, e anche un po’ dispersiva. Molto strana però l’allusione, presente nel secondo capitolo, a Keith Emerson che «ha 70 anni» ‒ Emerson è morto nel 2016, ed era nato nel 1944: relitto di una versione, o di un inizio di scrittura del romanzo, risalente a una decina di anni fa? Questo potrebbe spiegare le disuguaglianze che lo pervadono a livello stilistico… (e, viste anche le molteplici storie che si intrecciano nella trama, a volte un po’ forzatamente, fa sorgere in realtà il sospetto che sia stato elaborato partendo da abbozzi di libri diversi cuciti assieme).
Tito Lucrezio Caro: Della natura delle cose (De rerum natura, I sec. a.C.)
Traduzione di Alessandro Marchetti; Napoli, Società Editrice della Biblioteca Latina-Italiana, 1861 (1717, prima edizione).
Cominciato il 19 ottobre, terminato il 24 gennaio 2024.
Valutazione personale: 7,5/10.
È stata la lettura de Il numero dei cieli a farmi venir voglia di leggere integralmente il poema di Lucrezio, che avevo studiato superficialmente al liceo. L’elegante (pur se talvolta ridondante e farraginosa) versione in endecasillabi del matematico, astronomo e poeta Alessandro Marchetti (1633-1714), che riesce a preservare egregiamente i concetti del testo originale, è stata la prima traduzione in italiano del poema, pubblicata postuma a Londra nel 1717 anche se già conosciuta in precedenza in copie manoscritte. A mio parere tradurre Lucrezio in metrica ha senso, data la musicalità dei suoi esametri, e vi si confà anche l’italiano tardobarocco, considerando gli arcaismi e le ricercatezze del linguaggio del poeta latino (a sua volta certo non conciso nelle parti didascaliche). Penso di non dir nulla di originale affermando che la descrizione della peste di Atene che conclude il poema è un capolavoro di drammaticità.
David Mamet: A Life in the Theatre
London-New York-Hollywood-Toronto, Samuel French, 1977.
Cominciato il 24 ottobre, terminato il 25 ottobre.
Valutazione personale: 7/10.
Molti anni fa ne avevo visto la messa in scena italiana con Glauco Mauri e Roberto Sturno e la regia di Nanni Garella.
David Byrne: How Music Works
New York, Three Rivers Press, 2017 (2012, prima edizione).
Cominciato il 27 ottobre, terminato il 26 febbraio 2024.
Valutazione personale: 8/10.
Stimolante credo sia la parola giusta per definire questo libro. In molte occasioni i punti di vista sotto i quali viene esaminato il fare musica sono sorprendenti ed estremamente acuti. Il tutto con l’eleganza e l’ironia sorniona che caratterizzano Byrne anche come performer.
«We don’t make music ‒ it makes us. Which is maybe the point of this whole book.»[1]
Michael Frayn: Copenhagen
London, Methuen, 2009 (1998, prima edizione).
Cominciato il 7 novembre, terminato il 10 novembre.
Valutazione personale: 8/10.
Anche di questa play avevo visto anni fa una bella messa in scena italiana con Umberto Orsini, Giuliana Lojodice e Massimo Popolizio, e la regia di Mauro Avogadro. Devo dire che, come per il poema di Lucrezio, anche qui il desiderio di leggere questo testo ‒ incentrato su un misterioso incontro tra Niels Bohr e Werner Heisenberg avvenuto a Copenhagen nel 1941 ‒ mi è stato ispirato dal libro di Tom Siegfried.
Antonio Manzini: Riusciranno i nostri eroi a trovare l’amico misteriosamente scomparso in Sud America?
Palermo, Sellerio, 2023.
Cominciato il 12 novembre, terminato il 14 novembre.
Valutazione personale: 6,5/10.
Uscito pochi giorni fa, a soli cinque mesi di distanza da ELP, questo romanzo breve ‒ o forse meglio: racconto lungo, il cui titolo ovviamente ricalca quello di un celebre film di Ettore Scola degli anni Sessanta ‒ dà l’idea di essere il “vero” nuovo capitolo della saga-Schiavone. È, dal punto di vista stilistico, chiaramente più evoluto del libro precedente, più sobrio, e più in linea con i lavori recenti di Manzini.
Werner Herzog: Ognuno per sé e Dio contro tutti (Jeder für sich. Erinnerungen, 2022)
Traduzione di Nicoletta Giacon; Milano, Feltrinelli, 2023.
Cominciato il 14 novembre, terminato il 16 dicembre.
Valutazione personale: 8/10.
«Immerso in un universo senza eguali, sopra, sotto, ovunque, in cui tutti i suoni mi toglievano il respiro, improvvisamente mi ritrovai in uno stupore inimmaginabile. Ero sicuro di aver afferrato in quel momento tutto quello che dovevo sapere. Il mio destino mi era chiaro, così come mi era chiaro che dopo una notte come quella sarebbe stato impossibile invecchiare.»
È stato un libro di grande ispirazione e anche consolazione in un momento psicologico strano, in cui sentivo ansia di libertà. Magnifico.
Thornton Wilder: The Long Christmas Dinner
London-New York-Hollywood-Toronto, Samuel French, 1960 (1931).
Letto il 22 novembre.
Valutazione personale: 8/10.
Yann Andréa: Questo amore (Cet Amour-là, 1999)
Traduzione di Lamberto Santuccio; Milano, Fve Editori, 2023.
Cominciato il 24 novembre, terminato il 28 novembre.
Valutazione personale: 8/10.
Estremo e struggente. La scrittura come vita, la scrittura come eccesso.
«Ogni volta è sempre il primo, grande libro. Dice: è finita, credo che dopo questo libro non potrò più scrivere altro. È finita. È una cosa terribile ma allo stesso tempo mi sbarazzerò di questo supplizio. E inevitabilmente, ogni volta, come una meravigliosa disgrazia, ricomincia, torna a scrivere.»
Heiner Müller: La macchina Amleto (Die Hamletmaschine, 1977)
Traduzione di Karl Menschengen; [?], Maldoror Press, 2012.
Letto il 7 dicembre.
Valutazione personale: 8/10.
Un testo potente di sole nove pagine, che rimodella un Amleto “post-monologo” (oltre che postmoderno) quale simbolo del confronto tra intellettuali e Potere (il testo fu scritto nella Germania Est comunista, con la quale l’autore ebbe un rapporto molto contrastato e sostanzialmente di amore-odio). Non so quanto possa essere plausibile che Heiner Müller conoscesse gli Amleti di Carmelo Bene; più probabile il contrario, e forse non è un caso che uno spettacolo del 1989 dell’attore/regista/autore salentino si intitolasse Pentesilea la macchina attoriale – Attorialità della macchina (l’opera di Heiner Müller era stata proposta per la prima volta in Italia nel 1988 dalla compagnia “I Magazzini” di Federico Tiezzi e Sandro Lombardi). Anche nella differenza profonda delle poetiche, vi sono, tra i due autori, alcuni punti in comune dal punto di vista della scrittura scenica, nonché nel meccanismo di estraniamento e distanza dell’attore dal personaggio. Dell’opera esiste anche una bella versione radiofonica (che ho potuto ascoltare) realizzata con la supervisione dell’autore nel 1990, e poi edita in CD, con Blixa Bargeld degli Einstürzende Neubauten come protagonista.
«Il fondale è una statua. Rappresenta, ingrandito cento volte, un uomo che ha fatto la Storia. Pietrificazione d’una speranza. Il nome può variare. La speranza non si è realizzata. Il monumento giace per terra, abbattuto tre anni dopo il funerale di Stato dell’uomo di potere, odiato e venerato dai suoi successori.»
«Il mio posto, se questo dramma avesse ancora luogo, sarebbe su entrambi i fronti, sulla linea tra i due fronti. Me ne sto nel puzzo di sudore della folla e getto pietre contro poliziotti, soldati, carri armati, vetri blindati. Guardo attraverso la finestra col vetro blindato la folla che avanza e sento il sudore della mia paura. Soffocando i conati di vomito, scuoto il pugno contro di me che sto dietro la porta a vetri. Sento la morsa della paura, del disprezzo, e nella massa che avanza vedo me stesso, con la bava alla bocca, scuotere il pugno contro di me. Appendo per i piedi l’uniforme della mia carne.»
Saffo: Frammenti (Fragmenta, VII-VI sec. a.C.)
Traduzione di Gennaro Tedeschi; Trieste, EUT, 2015.
Cominciato il 13 dicembre, terminato il 19 dicembre.
Valutazione personale: 9,50/10.
Volume filologicamente accuratissimo; la traduzione in prosa è precisa, ma ovviamente non sempre del tutto evocativa.
Antologia Palatina: Tutte le poesie d’amore (Anthología diafóron epigrammáton, IX-X secolo d.C.)
Traduzione di Filippo Maria Pontani; Torino, Einaudi, 2000.
Cominciato il 19 dicembre, terminato l’8 gennaio 2024.
Valutazione personale: 7/10.
Sia per Saffo che per l’Antologia Palatina le mie letture risalivano agli anni del liceo (i Lirici Greci e il Fiore dell’Antologia Palatina tradotti da Salvatore Quasimodo, i Lirici anche nella versione di Filippo Maria Pontani, oltre a qualche traduzione fatta a scuola ‒ anni dopo pubblicai anche una mia versione di Pari agli dèi… di Saffo su una rivista). Compilata a Bisanzio verso la metà del X secolo, ampliando una perduta antologia epigrammatica precedente redatta da Costantino Cefala, l’Antologia Palatina raccoglie in 15 libri brevi testi poetici ‒ soprattutto di età ellenistica ‒ composti tra il IV secolo a. C. e la tarda epoca bizantina. Questo volume, a cura di Guido Davico Bonino, raccoglie gli epigrammi di carattere amoroso ed erotico presenti nell’opera (il V e il XII libro sono inclusi integralmente) nelle traduzioni edite in precedenza, tra il 1978 e il 1981, da Pontani (il quale, bisogna dire, non aveva esattamente il dono della poesia, come avevo potuto già all’epoca notare nella sua traduzione dei Lirici Greci…). Spesso questi epigrammi non fanno che replicare all’infinito topoi letterari legati al genere, ampiamente diffusi in età classica ed ellenistica anche tra i poeti latini, e che arriveranno ad influenzare secoli dopo anche autori come Kavafis o Pessoa. Divertenti gli epigrammi più “spinti” di Rufino ‒ autore vissuto tra la seconda metà del I secolo d.C. e la prima del II o, secondo altri, tra il III e IV secolo: «Io, proprio io sono stato chiamato a giudicare tre culi:/ loro m’avevano scelto e mi mostrarono il loro nudo splendore…»; «Rodope, Melite e Rodoclea contesero/ chi delle tre aveva la fica più bella,/ e mi scelsero a giudice: come le dee famose,/ stettero davanti a me, nude, stillando nettare. (…)/ Ma io, sapendo quello che passò Paride per la sua scelta,/ mi affrettai ad incoronare tutt’e tre le divine.» Ancora Rufino: «Hai gli occhi di Era, Melite, e le mani di Atena,/ il seno di Afrodite e le caviglie di Teti./ Beato chi ti guarda, tre volte di più chi ti ascolta,/ un semidio chi ti ama, un dio chi ti possiede.» Belle anche alcune composizioni di Paolo Silenziario, come pure di Agazia Scolastico (in particolare V, 302), entrambi vissuti nel VI secolo d.C.; Macedonio di Tessalonica, anche lui del VI sec., mi pare infine il più raffinato e romantico tra i poeti antologizzati. Nel XII libro si trovano, tra gli altri, gli epigrammi di Stratone di Sardi (II sec. d.C.) dalla sua Moûsa paidiké, una delle varie antologie confluite a loro volta in quella di Cefala. Stratone fu autore di culto, nella prima metà del Novecento, per molti scrittori omosessuali, come ad esempio Roger Peyrefitte; letti oggi, tuttavia, i suoi epigrammi risultano alquanto stantìi (ma il libro si conclude con questo suo componimento: «Forse qualcuno in futuro, ascoltando questi miei scherzi,/ penserà che siano mie tutte queste pene d’amore;/ ma io offro versi all’uno e all’altro fra quanti amano/ i bei ragazzi, giacché un dio mi ha infuso quest’arte»).
Edith Wharton: La casa della gioia (The House of Mirth, 1905)
Traduzione di Magda Indiveri; Santarcangelo di Romagna, Rusconi, 2020.
Cominciato il 22 dicembre, terminato il 21 gennaio 2024.
Valutazione personale: 8,50/10.
«Se non si partecipava alla serie di appuntamenti mondani della stagione, si finiva per vagare senza meta nel vuoto dell’inesistenza sociale.»
Il romanzo, con un’obiettività spietata, racconta il fallimento della scalata all’alta società newyorkese degli inizi del Novecento da parte di una ragazza non più giovanissima ‒ proveniente da una famiglia della cosiddetta “aristocrazia del denaro”, ora decaduta ‒ armata solamente della sua ambizione e di una straordinaria bellezza. Il gioco al massacro all’interno di regole sociali non scritte ma che devono essere attentamente interpretate, in un ambiente che infine stritolerà la protagonista ‒ interiormente combattuta tra il proprio esteriore arrivismo e una base caratteriale di eticità ‒ è descritto in maniera più algida, e anzi talvolta anche partecipe, rispetto allo stile corrosivo dell’amico e mentore della Wharton, Henry James, che pure frequentò e stigmatizzò quella società. La scrittura è più piana di quella, a volte tortuosa, dell’illustre collega, ma altrettanto abile nel penetrare nei recessi mentali e nei processi psicologici dei protagonisti. Questa traduzione italiana, tuttavia, non suona sempre adamantina.
Lirici greci (VII-IV sec. a.C.)
Traduzione di Salvatore Quasimodo; Milano, Mondadori, 1985 (1940, prima edizione).
Cominciato il 26 dicembre, terminato il 28 dicembre.
Valutazione personale: 10/10.
Una rilettura. «Quando parliamo della tradizione o anche di fine della tradizione rischiamo sempre una sorta di rigidità delle memorie, dei modelli, dei comportamenti. In realtà in un orizzonte in cui la poesia è vista nella sua interna disposizione di processi e relazioni, il significato dei Lirici greci fu anche quello di avvertire che il passato non sta mai fermo. Sollecitato, si rinnova con ciò che lo sollecita» (Luciano Anceschi, 1978).
Tra gli autori al di fuori del Canone Alessandrino che Quasimodo include nella sua antologia, notevole Erinna, da alcuni considerata contemporanea di Saffo, ma forse vissuta invece nel IV sec. a.C., con lo splendido frammento di threnos e i due epigrammi funebri per la compagna Bauci, morta nel giorno delle nozze, tramandati dall’Antologia Palatina. Come pure Praxilla, vissuta nel V sec. a.C., che alcuni secoli dopo fu inclusa ‒ assieme ad Erinna ‒ nel canone delle nove donne “dalla divina favella” in un epigramma di Antipatro di Tessalonica, anch’esso presente nell’Antologia Palatina.
Aristofane: Rane (Bátrachoi, 405 a.C.)
Traduzione di Raffaele Cantarella; Torino, Einaudi, 1975 (1972, prima edizione).
Cominciato il 1° gennaio 2024, terminato il 3 gennaio.
Valutazione personale: 7,50/10.
Continuando la rivisitazione dei classici. Aristofane lo conosco poco: mai tradotto al liceo; questo Rane letto frettolosamente e superficialmente durante il corso di Letteratura Poetica e Drammatica al Conservatorio tanti anni fa; l’unica messinscena vista a teatro: Gli uccelli della Compagnia Lombardi-Tiezzi, di cui ho un ricordo piuttosto vago… Queste riletture più che rivisitazioni sono di fatto delle vere e proprie riappropriazioni.
Carlo Rovelli: Buchi bianchi. Dentro l’orizzonte
Milano, Adelphi, 2023.
Cominciato il 4 gennaio, terminato il 7 gennaio.
Valutazione personale: 6/10.
Ho molto amato i libri di Rovelli, in particolare L’ordine del tempo, e le ipotesi sulla struttura della realtà descritte dalla gravità quantistica a loop mi affascinano molto. Tuttavia ‒ come avevo già notato in Helgoland ‒ mi sembra che il fisico attualmente si lanci in speculazioni teoriche sempre più spericolate, con spiegazioni che mi paiono sempre più fumose. Non metto in dubbio (non ne avrei i mezzi) che a livello puramente matematico i conti possano tornare ‒ anche se lo stesso autore a volte mostra cautela ‒ però mi chiedo quanto sia plausibile portare alle estreme conseguenze, presentandole come vere, teorie che ancora attendono una conferma sperimentale di base. Il libro è piacevole da leggere, ma rimango molto perplesso.
Bacchilide: I giovani o Teseo (Dithúrambos 17, Epinikos 5, 475-476 a.C.)
Traduzione di Giulia Forni; Milano, Marcos y Marcos, 1984.
Letto il 5 gennaio.
Valutazione personale: 8/10.
Un’altra rilettura: una elegante plaquette che include il Ditirambo XVII e l’Epinicio V di questo autore incluso nel Canone Alessandrino tra i nove poeti lirici per eccellenza, ma non presente né nell’antologia di Quasimodo né in quella di Pontani. Contemporaneo e rivale di Pindaro, la critica moderna quasi all’unanimità attribuisce a quest’ultimo maggiore originalità e altezza lirica, mentre Bacchilide era apprezzato dagli antichi soprattutto per la grazia dei suoi versi e per una maggiore fluidità e trasparenza. «Di contro all’altisonante e spesso impervio poetare di Pindaro, i versi di Bacchilide scorrono fluenti e piani, quasi continuando il linguaggio e l’andamento epico tradizionale, ma in cui s’insinua tuttavia una mesta nota di malinconia. (…) Pur consapevole del valore profetico e oracolare della poesia, la sua voce s’attenua in sfumature intime di sofferenza e nostalgia. (…) La poesia pare tramata su un gioco continuo di chiaroscuri, in uno scintillio velato di ombre. L’apparente piana discorsività dei versi è movimentata dal lieve e raffinato contrasto che regola anche la scelta delle parole» (Giulia Forni). Questa traduzione mi appare un po’ fastidiosamente aulica nel Ditirambo, mentre è molto elegante nell’Epinicio; in ogni caso non sono assolutamente più in grado di entrare in questi testi nella loro lingua originale.
Jim Baggott: Massa (Mass. The Quest to Understand Matter from Greek Atoms to Quantum Fields, 2017)
Traduzione di Franco Ligabue; Milano, Adelphi, 2019.
Cominciato il 13 gennaio, terminato il 5 febbraio.
Valutazione personale: 8/10.
Un bel libro divulgativo, più avanzato rispetto ad altri che ho letto, ma grazie al quale credo di aver iniziato a intuire qualche barlume di elettrodinamica e di cromodinamica quantistiche, riuscendo inoltre a “seguire” persino qualche equazione (per quanto la teoria dei campi mi risulti ancora piuttosto ostica). Molto utile il Glossario posto alla fine del testo. Peccato per alcuni refusi (almeno in quest’edizione italiana), qualcuno dei quali imperdonabile date le specificità del testo ‒ p. 56, ad esempio: «Per l’idrogeno molecolare (O2) a temperatura ambiente…»
(P. S.: Terminando il libro, a quattro mesi e mezzo dall’inizio di questo “diario”, mi rendo conto di come ‒ al solito, quasi inconsciamente ‒ i miei interessi di lettore, in determinati periodi, finiscano per focalizzarsi sempre su linee precise: in questo caso, al di là dei consueti romanzi, soprattutto la rilettura di classici greci e latini, testi divulgativi di fisica, teatro…)
Éric-Emmanuel Schmitt: Variations énigmatiques
Paris, Éditions Albin Michel, 1996.
Cominciato il 13 febbraio, terminato il 14 febbraio.
Valutazione personale: 8/10.
Rincorrevo questo testo da anni; avrei tanto voluto vederne la messinscena italiana con Glauco Mauri e Roberto Sturno (di cui dovrebbe esistere anche una versione televisiva, irreperibile), che peraltro credo Mauri avesse intenzione di riproporre in questa stagione, ma il progetto è stato ovviamente annullato per la morte di Sturno lo scorso settembre… Interessante che la commedia parta con premesse non molto lontane da Sleuth di Anthony Shaffer, prendendo poi però tutt’altra direzione.
«La caresse est un malentendu entre une solitude qui voudrait s’approcher et une solitude qui voudrait être approchée… mais ça ne marche pas… et plus l’on s’excite, plus l’on recule… on croit que l’on caresse un corps, on avive une blessure…»[2]
Alice Munro: Hateship, Friendship, Courtship, Loveship, Marriage
Toronto, McClelland & Stewart, 2001.
Cominciato il 17 febbraio, terminato il 16 marzo.
Valutazione personale: 8/10.
Così, tanto per curiosità: il mio amico Michele Porzio mi ha raccontato che una volta suo padre Domenico, fra le altre cose traduttore italiano di Jorge Luis Borges, si mise a scorrere assieme allo stesso Borges l’elenco dei vincitori del Premio Nobel per la Letteratura, scoprendo che, tra tutti e due, conoscevano ben pochi dei nomi sulla lista. I vecchietti dell’Accademia di Svezia sono piuttosto noti per assegnare il prestigioso premio a scrittori talvolta abbastanza sconosciuti non solo al grande pubblico ma anche all’ambiente letterario stesso. È vero che molti vincitori del Nobel sono poi diventati famosi (e letti) proprio per averlo vinto; ed è infine da aggiungere che ‒ almeno nella mia esperienza ‒ raramente si tratta di autori deludenti. Claude Simon, nel suo bel Discorso di Stoccolma, spiegò esaurientemente i meccanismi e i parametri che regolano il processo di attribuzione del Nobel, giustificando così ‒ con modestia e sottile ironia ‒ l’averlo vinto “a nome del Nouveau Roman” pur non essendone l’esponente più conosciuto. E poi ogni tanto gli arzilli vecchietti svedesi si tolgono lo sfizio di far basire il mondo letterario con assegnazioni a sorpresa, tipo quelle a Dario Fo o a Bob Dylan (in quest’ultimo caso ‒ particolarmente “scandaloso” ‒ molti ignorano che il cantautore americano era stato già in precedenza più volte candidato). Per quanto mi riguarda, ho appena scoperto che dei 120 autori insigniti del Premio fino a oggi, ho letto qualcosa di 45 di loro ‒ includendovi la Munro che mi ha folgorato con questi racconti ‒ ma potrei dire di conoscerne bene la produzione solo in poco più di una ventina di casi.
David Ives: All in the Timing. Six One-Act Comedies
New York, Dramatists Play Service, 1994.
Letto il 12 marzo.
Valutazione personale: 8/10.
Ho scoperto David Ives l’anno passato grazie al delizioso (e geniale) Sure Thing, che apre questa raccolta di atti unici scritti tra il 1987 e il 1993. Ives (nato a Chicago nel 1950) è un autore direi sconosciuto al pubblico italiano, forse perché molti suoi testi giocano ‒ in maniera piacevolmente surreale ‒ con la lingua inglese, con citazioni dai classici della letteratura angloamericana e con riferimenti alla cultura popolare statunitense, quindi una traduzione funzionerebbe fino a un certo punto: si dovrebbe forse pensare a un adattamento, che sarebbe comunque molto difficoltoso. Me lo godo in originale, anche se sarebbe bello trovare il modo di portare sulla scena italiana almeno Sure Thing, forse il testo più “adattabile” tra quelli inclusi in questo volume.
Javier Marías: Tomás Nevinson (Id., 2021)
Traduzione di Maria Nicola; Torino, Einaudi, 2022.
Cominciato il 20 marzo, terminato il 29 aprile.
Valutazione personale: 8,50/10.
David Ives: Lives of the Saints. Nine One-Act Plays
New York, Dramatists Play Service, 2015.
Cominciato il 4 aprile, terminato il 10 aprile.
Valutazione personale: 8/10.
Un’altra raccolta di atti unici, scritti tra il 1999 e il 2015 (Soap Opera è una delle cose più folli che io abbia mai letto! Life Signs mi ha fatto ridere fino alle lacrime).
Gaio Valerio Catullo: Le poesie (Carmina, I sec. a.C.)
Traduzione di Mario Ramous; Milano, Garzanti, 1975.
Cominciato l’11 aprile, terminato il 19 aprile.
Valutazione personale: 9,50/10.
Rispetto ai classici letti (o riletti) nei mesi scorsi, l’opera di Catullo la conoscevo più approfonditamente, tuttavia non avevo mai letto il Liber integralmente (anche perché da molte raccolte vengono regolarmente espunti i componimenti più osceni, che ribaltano l’immagine esclusivamente “romantica” di Catullo spesso spacciata nei programmi scolastici). Ho trovato ottima questa traduzione di Mario Ramous, capace di rendere i diversi registri stilistici dalle nugae ai carmina docta (anche gli epitalami non li conoscevo: bellissimi).
P.S.: Mi sono reso conto che il Lamento d’Arianna di Ottavio Rinuccini, messo in musica da Monteverdi, è chiaramente ispirato a vari passaggi del Carme 64.
Robert Sellers: Bad Boy Drive
London, Preface Publishing, 2009.
Cominciato il 15 aprile, terminato il 6 maggio.
Valutazione personale: 7,5/10.
Il sottotitolo di questo libro è The Wild Life and Fast Times of Marlon Brando, Dennis Hopper, Warren Beatty, and Jack Nicholson: aneddotico e divertente, narra le biografie e le carriere dei quattro celebri attori soprattutto attraverso i loro eccessi. Talvolta si scade in pettegolezzi di bassa lega, ci sono un po’ di cadute di tono qua e là con qualche volgarità gratuita… però imperdibile per chi, come me, ami quegli attori.
Albert Camus: Caligula
Paris, Gallimard, 1993 (1958, prima edizione).
Cominciato il 6 maggio, terminato l’11 maggio.
Valutazione personale: 8/10.
Il primo interprete di Caligola fu Gérard Philipe, un attore che ammiro molto, perfetto per questo tipo di teatro dove la parola è azione, più dell’azione stessa. Nulla di più lontano dal berciante Franco Branciaroli di cui ho un vago ricordo (e non sarà un caso) in una versione televisiva dei primi anni Ottanta. Peccato invece non avere quasi documentazione del Caligola che segnò l’esordio teatrale di Carmelo Bene (nel 1959, con la regia di Alberto Ruggiero): il lato esistenzialista coniugato col retaggio decadentista della vita come opera d’arte si confaceva perfettamente all’attore salentino, che avrebbe poi sviluppato a sua volta un particolare teatro di parola/azione. Il che forse può spiegare almeno in parte un mistero che avvolse quella produzione: Camus aveva per molti anni negato i diritti di rappresentazione del suo dramma (anche a Laurence Olivier), secondo alcuni perché deluso dall’interpretazione di Gérard Philipe, che secondo lo scrittore avrebbe snaturato il personaggio, tradendo il significato del dramma; secondo altri, dopo aver assistito a un allestimento del giovane Strehler nel 1946. Bene e Ruggiero riuscirono a incontrare Camus a Venezia, e in qualche modo si creò una tale alchimia tra il Premio Nobel di recente nomina e il giovanissimo e allora totalmente sconosciuto attore, che lo scrittore gli concesse gratuitamente i diritti di rappresentazione dell’opera (Bene ne diede poi una seconda versione, con la propria regia, nel 1961).
«Sujet: la mort. (…) Il y a longtemps que j’ai fait ma composition sur ce sujet. (…) À ma façon, je la récite tous les jours. (…) C’est l’unique composition que j’aie faite. Mais aussi, elle donne la preuve que je suis le seul artiste que Rome ait connu, le seul, tu entends, Cherea, qui mette en accord sa pensée et ses actes. (…) Les autres créent par défaut de pouvoir. Moi, je n’ai pas besoin d’une oeuvre: je vis.»[3]
Gianrico Carofiglio: La misura del tempo
Torino, Einaudi, 2019.
Cominciato il 12 maggio, terminato il 16 maggio.
Valutazione personale: 8/10.
Sono stato un fan della prima ora dei romanzi con l’avvocato Guerrieri. Poi, alla lunga, la reiterazione sempre dei medesimi temi: il passato che ritorna (tema in realtà a me molto caro), le meditazioni di nostalgia/rimpianto/disillusione (che pure mi coinvolgevano per una mia certa “affinità generazionale”), e infine il linguaggio che sempre più andava aggrovigliandosi nel tecnico-legale avevano finito per stancarmi. Erano quindi una decina d’anni che non frequentavo Carofiglio, e leggo con ritardo questo romanzo, che invece mi pare molto equilibrato e molto ben scritto. Decisamente bello.
«A pensarci bene, i cambiamenti si producono solo nei momenti in cui incontri davvero un’altra persona. Di solito sono attimi, tempi minimi, ma con una importanza decisiva nelle nostre autobiografie. Quasi mai ne siamo consapevoli. Anche se ricordiamo quei momenti per la loro perfezione, non capiamo quanto siano importanti per il nostro cambiamento. Pensiamo che sia il tempo, lentamente e ostinatamente, a cambiarci. Invece il tempo in sé non cambia nulla, al massimo invecchia. Le persone incapaci di incontrare davvero gli altri, come Lorenza, non cambiano.»
Bob Dylan: The Nobel Lecture
New York, Simon & Schuster, 2017.
Letto il 20 maggio.
Valutazione personale: 7,5/10.
Mi era venuta voglia di rileggere questo bizzarro discorso di accettazione del Premio Nobel da quando, un paio di mesi fa, avevo scritto qualcosa in questo diario sul prestigioso riconoscimento dell’Accademia di Svezia. E questa è probabilmente la lecture meno accademica che abbia mai avuto luogo a Stoccolma (peraltro Dylan, impegnato nel suo consueto Never Ending Tour, non presenziò alla cerimonia ufficiale di premiazione, mandando al suo posto Patti Smith, e incontrò poi gli accademici svedesi diversi mesi dopo in una situazione più ufficiosa). Dylan ripercorre qui le radici della sua attività cantautoriale cominciando col chiedersi cosa i suoi testi abbiano a che fare con l’idea di Letteratura, e invitando in conclusione a non scinderli dalla loro messa in musica. Ma tra le fonti di ispirazione e di influenza sulla sua attività creativa ‒ tra un Buddy Holly e un Leadbelly ‒ affiorano ovviamente anche testi letterari (Dylan, si sa, è sempre stato un lettore onnivoro e voracissimo), e il Nostro si sofferma in particolare su tre di essi, per lui fondanti: l’Odissea, Moby Dick e ‒ alquanto sorprendentemente ‒ Niente di nuovo sul fronte occidentale. I tre classici vengono letteralmente “rivissuti” nella narrazione dylaniana che ripropone in qualche modo, con affascinante naïveté, l’imprinting che essi avevano provocato in lui. È una sorta di excursus da cantastorie che debba raccontarli a un pubblico che non ne abbia mai sentito parlare: un cunto immaginifico, tra l’epica e il beat.
Petronio Arbitro: Il Satiricon (Satyricon, I sec. d.C.)
Traduzione di Antonio Marzullo e Mario Bonaria; Bologna, Zanichelli, 1979 (1962, prima edizione).
Cominciato il 23 maggio, terminato il 10 giugno.
Valutazione personale: 10/10.
Rileggo dopo decenni questa eccellente e divertente traduzione del capolavoro latino.
Jean Clouzet – Jacques Vassal: Jacques Brel
Paris, Éditions Seghers, 1988.
Cominciato il 23 maggio, terminato il 1° giugno.
Valutazione personale: 7/10.
Ancora una rilettura. Jacques Brel è stato una figura fondamentale nella mia adolescenza, e uno dei motivi per cui ho imparato il francese: si potrebbe anzi dire che io l’abbia imparato proprio sulle sue canzoni, oltre che sulle poesie di Jacques Prévert. Questa monografia è composta di due volumi. Il primo è la riedizione di un libro pubblicato nel 1964: l’autore, Jean Clouzet, avrebbe voluto, anni dopo, integrarlo con una seconda parte, ma la ritrosia di Brel, ormai ritiratosi alle Isole Marchesi, non rese possibile il progetto. Dopo la morte di Clouzet (peraltro avvenuta poche settimane dopo quella dello stesso Brel), l’idea di completare l’opera fu portata avanti da Jacques Vassal. Il primo volume ha un carattere di studio critico ‒ era stato concepito per la prestigiosa collana “Poètes d’Aujourd’hui” ‒ il cui maggiore sforzo risiedeva nel far accettare nel novero della poesia propriamente detta anche i testi per musica di Brel (e di altri chansonniers dell’epoca). Brel, da parte sua, pare fosse il primo a essere restio di fronte a tanto onore, ma quel che è strano è semmai come Clouzet, nella sua trattazione, trascurasse del tutto antecedenti storici che vanno dagli aèdi greci ai trovatori provenzali, fino ai poeti romantici, come Wilhelm Müller, che venivano messi in musica da Schubert e da altri autori di Lieder. Capisco in ogni caso che negli anni Sessanta la canzone d’autore venisse ancora relegata in una casella diversa da quella della poesia tout court e avesse quindi bisogno di una difesa accademica: come abbiamo visto, ci vorranno ancora più di cinquant’anni prima di vedere il Nobel assegnato a un menestrello. Devo dire tuttavia che le disquisizioni ermeneutiche di Clouzet sulla poetica di Brel risultano invecchiate piuttosto male. Preferisco di gran lunga il secondo volume, curato da Jacques Vassal, molto meno pretenzioso.
(J. C.: Avez-vous l’impression d’avoir comblé en partie le fossé qui existe entre ce qu’on voudrait faire et ce que l’on fait réellement ou bien croyez-vous, au contraire, qu’il s’élargisse progressivement?
J.B.: «Je pense qu’il s’élargit non pas par absence de réalisation de projets déjà existants, mais par apparition de nouveaux désirs. Parallèlement à ce que l’on tente pour combler le fossé, on le creuse également un peu plus sans s’en rendre compte. Cela dit, je crois que mon fossé, tel qu’il existait il y a dix ans, est maintenant entièrement comblé. Mais, malheureusement, il est probable que, jusqu’à ma mort, j’aurai toujours dix ans de retard!»)
«J’ai trop d’orgueil pour être vaniteux.»[4]
Friedrich Dürrenmatt: La panne (Die Panne, Eine noch mögliche Geschichte, 1956)
Traduzione di Eugenio Bernardi; Torino, Einaudi, 1972.
Cominciato il 2 giugno, terminato il 3 giugno.
Valutazione personale: 8,50/10.
Tantissimi anni fa avevo visto un bel film di Ettore Scola, con Alberto Sordi protagonista, tratto da questo racconto: La più bella serata della mia vita. Il film tuttavia non poteva riprodurre la profondità dei dilemmi etici rappresentati da Dürrenmatt, e trasformava inoltre il finale, sostanzialmente edulcorandolo.
Gianrico Carofiglio: La disciplina di Penelope
Milano, Mondadori, 2021.
Cominciato l’11 giugno, terminato il 13 giugno.
Valutazione personale: 8/10.
Un bel giallo, molto ben scritto. Solo il finale un pochino debole (avevo anche intuito il colpevole, e in genere non sono particolarmente abile in questo).
Luca Beatrice: Le vite
Venezia, Marsilio, 2023.
Cominciato il 14 giugno, terminato il 27 giugno.
Valutazione personale: 8/10.
Ammiro molto Luca Beatrice come critico d’arte ‒ anche se spesso non condivido i suoi gusti ‒ per la sua straordinaria capacità di mettere a fuoco da un punto di vista storiografico i decenni recenti, coniugandone la cultura “alta” con quella “bassa” (ammesso che questa distinzione abbia ancora un senso). In questo libro il racconto personale, autobiografico, che si intreccia ai ritratti dei vari artisti, curatori e personaggi del mondo dell’arte italiana dal secondo dopoguerra ad oggi, è molto riuscito. C’è qualche “sbavatura” invero un po’ imperdonabile (“Klein” anziché “Kline” citando gli Espressionisti Astratti americani; la Sfera Grande di Pesaro attribuita a Giò anziché ad Arnaldo Pomodoro…); una sottile ironia in alcuni ritratti (Pistoletto…) e qualche perfidia (Francesco Bonami…); aperti e onesti tributi di riconoscenza; talvolta un’ombra di piaggeria (Vittorio Sgarbi…) ‒ ma è un bel libro, e un ottimo prontuario.
Martin Amis: La zona d’interesse (The Zone of Interest, 2014)
Traduzione di Maurizia Balmelli; Torino, Einaudi, 2015.
Cominciato il 6 luglio, terminato il 30 luglio.
Valutazione personale: 8/10.
Incredibile come il film di Jonathan Glazer uscito l’anno passato e vincitore agli Oscar come miglior film internazionale – assieme a tanti altri premi – sia riuscito a cogliere il senso profondo di questo romanzo con un’articolazione della trama completamente diversa…
Stefan Zweig: Novella degli scacchi (Schachnovelle, 1943)
Traduzione di Simona Martini Vigezzi; Milano Garzanti, 1982.
Cominciato il 1° agosto, terminato il 9 agosto.
Valutazione personale: 10/10.
Avevo cominciato a leggerlo in tedesco, ma mi sono dovuto arrendere al periodare estremamente complesso di Zweig. Trovo che la monomania dei due scacchisti protagonisti sia quasi una filiazione dal Peter Kien di Auto da fé di Canetti (pubblicato nel 1935, e in cui veniva citato l’allora campione del mondo di scacchi José Raúl Capablanca), prefigurando d’altra parte futuri personaggi letterari come Utz di Bruce Chatwin, o alcune figure dei romanzi di Thomas Bernhard. Sicuramente, poi, questa Novella degli scacchi ha avuto influenza su La variante di Lüneburg di Paolo Maurensig.
Luciano Canfora: Prima lezione di storia greca
Roma-Bari, Laterza, 2000.
Cominciato il 15 agosto, terminato il 17 agosto.
Valutazione personale: 8/10.
Estremamente interessante, pur con qualche eccesso nell’impostazione marxista dell’analisi storico-sociologica. Ma il “discorso sul metodo” storiografico è molto lucido.
Eugene O’Neill: Lunga giornata verso la notte (Long Day’s Journey into Night, 1956)
Traduzione di Bruno Fonzi; Torino, Einaudi, 1977 (1962, prima edizione).
Cominciato il 23 agosto, terminato il 2 settembre.
Valutazione personale: 10/10.
Ecco un altro testo che conoscevo solamente tramite una bella versione, in questo caso televisiva, vista molti anni fa, con Laurence Olivier protagonista.
Dolores Hitchens: La gatta ha dato l’allarme (The Alarm of the Black Cat, 1942)
Traduzione di Chiara Rizzuto; Palermo, Sellerio, 2024.
Cominciato il 3 settembre, terminato il 17 settembre.
Valutazione personale: 7,5/10.
Dunque quest’anno da lettore si concluderà con questo bel giallo, divertente, ben scritto…
Written by Sandro Naglia
Note
[1] «Noi non facciamo musica ‒ è la musica a fare noi. Il che è forse il vero punto di questo intero libro.»
[2] «La carezza è un malinteso tra una solitudine che vorrebbe avvicinarsi e una solitudine che vorrebbe essere avvicinata… ma questo non funziona… e più ci eccitiamo, più indietreggiamo… crediamo di accarezzare un corpo, ravviviamo una ferita…»
[3] «Soggetto: la morte. (…) È passato molto tempo da quando ho scritto la mia composizione su questo argomento. (…) A mio modo, la recito tutti i giorni. (…) È l’unica composizione che io abbia creato. Ma dimostra anche che sono l’unico artista che Roma abbia conosciuto, il solo ‒ capisci, Cherea? ‒ che metta in accordo i suoi pensieri e le sue azioni. (…) Gli altri creano per mancanza di potere. Io ‒ non ho bisogno di un’opera: io vivo.»
[4] (J. C.: Ha l’impressione di aver parzialmente colmato il divario che esiste tra ciò che si vorrebbe fare e ciò che si fa effettivamente o crede, al contrario, che esso si stia gradualmente allargando?
J.B.: «Penso che si allarghi non per la mancata realizzazione di progetti già esistenti, ma per l’apparizione di nuovi desideri. Mentre cerchiamo di colmare il divario, lo stiamo anche allargando un po’ di più senza rendercene conto. Detto questo, credo che il mio divario, quale esisteva dieci anni fa, sia ora completamente colmato. Ma purtroppo è probabile che, fino alla mia morte, sarò sempre in ritardo di dieci anni!»)
«Ho troppo orgoglio per essere vanitoso.»