“Christmas in the Heart” album di Bob Dylan: quando si vestì da Babbo Natale
Una caratteristica comune ai fan di Bob Dylan duri e puri (quale è – si sarà capito da questi ultimi articoli per “Oubliette” – chi scrive) è quella di seguirlo sempre e comunque nelle sue avventure, anche quando si rivelino sfortunate o catastrofiche.
Questo non significa non saper riconoscere la cattiva qualità di talune di quelle avventure, ma gli appassionati del cantautore di Duluth credo ne amino anche l’estemporaneità creativa, l’imprevedibilità, gli umori altalenanti, come pure la poliedricità talvolta improvvisata – tutte cose che non sempre funzionano a dovere.
Un esempio classico sono i concerti del Nostro: si va ad ascoltarli non sapendo come gli girerà l’umore della serata, a seconda del quale l’esibizione potrebbe essere tremendamente sciatta o magistrale ed entusiasmante. Con l’età il cantautore si è un po’ “stabilizzato”, ma notoriamente gli arrangiamenti delle sue canzoni continuano a variare quasi da concerto a concerto, ed è una classica sfida tra fan il riconoscere per primi quale canzone si celi sotto il nuovo travestimento (talvolta lo si capisce solo dalle parole).
Durante i suoi anni ruggenti fioccavano aneddoti divertenti sugli eccessi dell’estemporaneità di Dylan: uno dei suoi musicisti, ad esempio, raccontò che in un concerto improvvisamente Dylan attaccò una canzone che la band non aveva mai provato e che nessuno di loro conosceva; i sidemen provarono quindi ad andargli dietro, soprattutto guardando la posizione delle sue mani sulla tastiera della chitarra per capirne gli accordi; ma, a quanto pare, Dylan stava usando una accordatura alternativa, che loro non riuscirono a intuire, finendo col perdere ogni speranza e lasciandolo così proseguire da solo.
Una delle “avventure” più insolite e sconcertanti è stata l’album Christmas in the Heart, pubblicato dalla Columbia il 13 ottobre del 2009. Sì, avete capito bene: un disco di canzoni natalizie, da Must Be Santa a Little Drummer Boy, fino ad arrivare addirittura ad Adeste Fideles.
Insomma, Dylan ci aveva abituato alle sorprese e alle svolte impreviste, ma un disco di canzoni per Natale sembrava davvero fuori da ogni grazia di Dio (è il caso di dire).
Dylan veniva da tre dischi eccellenti (Time Out of Mind; Love and Theft; Modern Times) e pochi mesi prima di Christmas in the Heart era uscito Together Through Life, sempre con materiale originale. È vero che prima ancora aveva già pubblicato due album di cover (Good As I Been to You e World Gone Wrong) – addirittura solo voce, chitarra e armonica – ma erano passati più di 15 anni, e nessuno poteva ancora figurarsi che fosse già in atto quella ricognizione sulle tradizioni musicali americane che avrebbe poi portato il Nostro, negli anni Duemiladieci, alla trilogia di cover dal repertorio di Frank Sinatra e dall’American Songbook.
Non si sa esattamente se all’origine di Christmas in the Heart ci sia stata una pura e semplice iniziativa di Dylan, o se l’occasione fosse legata a una raccolta fondi per beneficenza, fatto sta che tutte le royalties del disco furono (e tuttora sono) devolute a tre organizzazioni benefiche: Feeding America, Crisis e il World Food Programme dell’ONU[1]. Dylan si spese anche a livello mediatico – cosa rara per lui – per incoraggiare donazioni a questi programmi.
Quanto all’accoglienza del disco Christmas in the Heart, lo scetticismo iniziale lasciò ben presto spazio a una generale reazione favorevole. Quando il giornalista Bill Flanagan, in un’intervista pubblicata su “Street News Service”, chiese a Dylan cosa pensasse dei critici che avevano bollato il disco come un’interpretazione ironica delle canzoni tradizionali natalizie, il cantautore rispose: “Critici come quelli vedono tutto dall’esterno. Non sono sicuramente i fan o il pubblico a cui mi rivolgo. Non hanno una comprensione viscerale di me e del mio lavoro, di cosa posso e non posso fare, della portata di tutto ciò. Ancora oggi non sanno cosa pensare di me.”
Effettivamente il dubbio espresso da quei critici non era del tutto privo di fondamento: l’album si apre con campanellini e un coro soave stile anni Cinquanta che introducono Here Comes Santa Claus, cantata da Dylan con una voce che più che Babbo Natale ricorda l’orco delle fiabe.
Man mano che si va avanti, però, si intuisce che il Nostro semplicemente non ha voluto rinunciare alla vocalità che lo caratterizzava in quegli anni, soprattutto nei blues, senza addolcirla (come pure era in grado di fare nelle ballads dei dischi su citati): una scelta deliberata, che più di una volta fa affiorare un sorriso[2], ma che però sortisce anche risultati sorprendenti.
Come in Do You Hear What I Hear?, la seconda traccia dell’album che, grazie anche all’arrangiamento – la produzione del disco è di Dylan stesso, con il consueto pseudonimo Jack Frost – diventa una canzone di Dylan (la stessa cosa accade con Have Yourself a Merry Little Christmas); nella successiva Winter Wonderland, d’altro canto, è palpabile quanto Dylan si diverta a cantarla.
I due “picchi” del disco sono forse costituiti da O’ Come All Ye Faithful (Adeste Fideles) e Must Be Santa, anche se per motivi opposti.
La prima è cantata dal Nostro dapprima in un improbabilissimo latino con pronuncia anglofona (più che altro è evidente un certo disagio nello scandire le parole), poi nella traduzione inglese; tutta la canzone sembra un po’ “compitata”; la coda infine è eseguita assieme a un coro femminile, come sempre, soavissimo. È un monumento al kitsch, che per contrasto si potrebbe accoppiare alla celebre versione di Pavarotti, a mo’ di zenit e nadir.
La scatenata versione di Must Be Santa è stata invece anche oggetto di un video, pubblicato un mese dopo l’uscita del disco, con la regia di Nash Edgerton, autore di geniali cortometraggi e videoclip spesso intrisi di humour nero (consiglio Lucky, Spider, e anche un altro video musicale realizzato per Dylan qualche anno dopo: Duquesne Whistle)[3]. Qui abbiamo Dylan, con un’assurda parrucca bionda, che canta (piuttosto asincrono, come spesso gli capita nei playback) in una festa natalizia che si trasforma in una rissa. Tra autoironia e riuscita del connubio tra immagini e musica, il video è molto divertente.
Alla fin fine, qualsiasi cosa si pensi di questo album, il Nostro pare insomma che “ci abbia creduto” davvero, per quanto la sua voce sembrasse completamente miscast per questo repertorio, e alcune tracce siano effettivamente non brillantissime. D’altro canto, è forse indicativo che Dylan non abbia mai eseguito nessuna di queste canzoni nei suoi concerti[4].
Nell’intervista di Bill Flanagan citata prima, fu chiesto a Dylan perché avesse deciso di interpretare quel repertorio in quella maniera così “diretta” [straightforward]. Dylan rispose: “Non c’era altro modo di farle. Queste canzoni sono parte della mia vita, proprio come le canzoni folk. Devi cantarle in maniera franca [straight].”
E forse il senso dell’operazione era tutto qui.
Written by Sandro Naglia
Note
[1] Feeding America è un’organizzazione senza scopo di lucro, con sede negli Stati Uniti, che tramite una rete di oltre 200 banche alimentari nutre oltre 46 milioni di persone tramite mense popolari e rifugi. Crisis è l’ente di beneficenza nazionale del Regno Unito per le persone senza fissa dimora: offre servizi di istruzione, occupazione e alloggi. Il World Food Programme è un’organizzazione internazionale all’interno delle Nazioni Unite che fornisce assistenza alimentare in tutto il mondo.
[2] Anche se forse il maggior sorriso affiora proprio nell’unica canzone in cui la voce di Dylan effettivamente si addolcisce: Little Drummer Boy.
[3] Nash Edgerton (Sydney, Australia, 1973) è anche attore e, soprattutto, stuntman. Ha ricevuto moltissimi premi per i suoi lavori; nel 2011 il suo Bear è stato candidato alla Palma d’Oro per il miglior cortometraggio al Festival di Cannes.
[4] Cfr. Sito Bob Dylan