“Ultimo quadro d’amore” di Larry Tremblay: Francis Bacon, il piacere dalla sofferenza
Nel 1963 Francis Bacon è all’apice della carriera; come già la Tate Gallery, il Museo Guggenheim di New York ne ospita una retrospettiva. Alla fine dello stesso anno, il pittore dublinese incontra George Dyer; ventinove anni, bello e maudit, ladro dell’East London. Bacon lo vuole come modello, diventeranno amanti; la relazione burrascosa avrà un epilogo tragico. Il trittico In memory of George Dyer è un atto d’amore postumo; è anche il compimento di un lungo processo creativo.
Lo scrittore canadese Larry Tremblay trasfigura la storia artistica e sentimentale che lega Bacon a Dyer; il romanzo Ultimo quadro d’amore (Bordeaux edizioni, 2024, pp. 141, trad. di Paolo Bellomo) è liberamente ispirato all’opera del pittore e ad alcuni episodi della sua vita. È una sorta di epicedio affidato alla voce di Bacon; tra introspezione e memoria, questi si rivolge a George ma è se stesso che interroga.
Dorme nell’atelier, è sporco e macchiato; l’esplosione di un vetro in frantumi lo sveglia. Nel buio sente il ladro avvicinarsi; lo vede puntare la torcia sulle tele. Sa che valgono una fortuna perché c’è la sua firma?
L’intruso dirige il fascio di luce su di lui; Francis Bacon è come un capriolo accecato dai fari di un’auto. Lo slancio; lo scontro; la lotta. Il ladro colpisce la fronte dell’altro; il patto di sangue è suggellato. L’incontro.
Nel groviglio dei corpi, ogni confine svanisce; in quel momento nessuno dei due esiste. Al risveglio, il ladro è còlto dall’ansia; ma non ha nulla da temere. Francis lo rassicura; non avvertirà la polizia. Come pittore, esulta; ha trovato il suo modello. Come uomo, avverte il peso di quell’intrusione; avrà un significato fulminante nella sua vita. Bacon accenna un gesto con la mano; osa toccare il volto del ladro, come per saggiare la qualità di un tessuto. Respinto con violenza, cade; l’altro gli sputa addosso, poi sparisce.
Francis lavora per tutta la giornata; una gioia bramosa lo arde come febbre. All’alba distrugge la tela; la cosa da dipingere non è quella, non ancora. Rivedrà l’intruso; lo sa, perché quello sputo ha valore di promessa. Accade un mese dopo, in un bar di Soho; lo trova seduto a un tavolo in compagnia di una donna.
Il locale è grigio di fumo; ma quell’uomo irradia luce. Francis Bacon vede solo George Dyer. Pianta in asso gli amici e si siede accanto a lui; gli appoggia una mano sulla coscia, ne sente il calore. La donna parla; George è immobile, chiuso in un impenetrabile silenzio. Un improvviso malessere costringe Francis a uscire dal bar; sulla strada di casa sente dei passi alle sue spalle. L’eccitazione gli morde la pancia; ne è sicuro, è lui. Arrivato alla porta dell’atelier, lo aspetta; George esita prima di entrare. Qualche bicchiere di whisky; nessun sorriso, nessun ringraziamento.
Cosa aveva sperato Dyer quella notte? Di rubare soldi? Certo; nonostante gli abiti eleganti è ignorante e volgare. Non sa niente di arte; niente dell’artista che è Francis. Picchiami, è strana la richiesta del pittore. Picchiarlo? L’altro non comprende; il suo volto esprime lo stupore di un bambino. Francis sarà la rovina di George, è inevitabile; è un sacrificio necessario perché possa dipingere ciò che ha nel sangue fin dall’infanzia.
Chi è George Dyer? È un teppista; ma prima, è stato un orfano spedito da una famiglia adottiva all’altra. È stato un bambino maltrattato, sfruttato, abusato; qualche volta amato. Le cicatrici sono trofei, gli anni di carcere un punto d’onore. Si vanta di essere sempre a caccia di donne; a suo dire le avventure non si contano. Esagera; Francis lo ha capito.
George ha bisogno di affermare la propria virilità, di convincersi che la loro relazione non esiste; che quella prima notte è stata solo un sogno. Si rifugia ostinatamente nel suo corpo di uomo; più vi si nasconde, più la speranza di Bacon prende forma. Intravede la cosa che lo ossessiona come pittore; se insisterà nella perversione potrà toccarla, metterla su tela. George accetta di posare, seduto su uno sgabello in mezzo al caos dell’atelier; solo il disordine può partorire i dipinti di Bacon.
L’opera non è concepita come un ritratto; renderà visibile la cosa che è dentro George, la chiuderà in gabbia una volta per tutte. Difficile comprimerne la traboccante vitalità entro i limiti del colore; gli spruzzi sono modellati come fango, per dare forma all’informe.
La gestazione non è compiuta; Francis ancora non sa come guardare George. Contempla la tela in divenire, non è mai soddisfatto; vede solo macchie, morfemi di un imbarazzante fallimento. Abbandona il dipinto; con la fierezza del maestro, ché non si piange certo addosso, reclama attenzione.
Picchiami; di nuovo. Di nuovo l’altro si mostra sorpreso; il suo sguardo è eloquente. Bacon è solo un poveretto; non merita nemmeno uno schiaffo. Ma Francis sa che George lo farà, lo picchierà a sangue; accadrà con naturalezza, come una effusione malata tra amanti. Il momento arriva. Cosa scatena la violenza? La rabbia; quella che nasce dalla delusione dell’abbandono. Bacon era partito per Roma, senza avvisare Dyer; non gli aveva dato sue notizie per tutta la durata del soggiorno. Al ritorno, uno champagne di ricongiungimento nell’atelier; poi, repentino, George lo colpisce in faccia. Un altro pugno alla pancia; poi ancora in faccia.
Cosa significa quel bagliore tremolante negli occhi di Dyer? Sorpresa o sollievo? È un buon inizio; continua, George. Ottimo lavoro, George; ora vai. Bacon lancia un getto di pittura sulla tela; è la bocca, ed è tante altre cose. Continua a dipingere, con colore e polvere; forse sta per dare forma all’ossessione che lo insegue da quella prima notte. Non dipinge più George a figura intera; il vuoto ingoia l’inutile, fa emergere l’essenziale.
La faccia; svuotata di certezze, colmata di domande. Deve ammetterlo, Bacon. Da un po’ di tempo non sopporta la presenza di Dyer nell’atelier; lo distrae, disorienta i suoi gesti. La colpa è di quel corpo traboccante, virilità affogata nell’alcool e nella droga; nessun freno né limite. George ha preso a picchiarlo con un furore tale che potrebbe ucciderlo; pesta duro per troppo amore. Ama e soffre. Adesso quelle botte fanno male a Francis; perché non è questo che voleva, non ha bisogno di essere amato.
Caccia George dall’atelier, per mesi non ha più notizie; lo cerca con lo sguardo, per strada, nei bar, sollevato e deluso di non imbattersi in lui. Qualche tempo dopo, dei poliziotti gli piombano in casa; George gli ha teso una trappola. Quel brutto tiro potrebbe avere conseguenze disastrose sulla carriera di Bacon; è appena stato invitato a New York, per una mostra prestigiosa. George rimane vittima del suo stesso inganno; la sua disfatta segna il riavvicinamento della coppia, suggellato da una sbronza insieme. Per un capriccio della testa ‒ o del cuore ‒, Francis lo porta con sé a New York; lo presenta come assistente. Al vernissage interpreta il ruolo del “più grande pittore britannico vivente”; si trova davanti al trittico in cui ha dipinto se stesso insieme a George.
È stato un atto di coraggio o di debolezza? Ogni tela mostra la stessa scena, vista da un angolo diverso; due corpi nudi che lottano su un materasso. Lo vede; George è già ubriaco in mezzo a quella gente raffinata. Francis si apre un varco tra la folla; lo abbraccia, sotto gli occhi di tutti.
Un giovane pittore insiste per incontrare Bacon; si dichiara uno dei suoi più grandi ammiratori. Alex non è il suo tipo, anzi lo infastidisce; troppe domande venate di adulazione. Pecca di presunzione, ha ambizione da vendere; il punto debole è proprio il talento. Francis è solito evitare ragazzi come lui, belli e brillanti; questa volta no. Lo invita in camera; sa che George li ha seguiti, che ha perfino origliato. A Londra, lo perseguita la tenerezza di quella notte; è un prepotente pensiero intrusivo.
E George? Raccoglie la sfida, eccede; accetta di umiliarsi oltre la decenza. Francis è invischiato in un groviglio di crudeltà, vergogna e pietà; erge un muro. Non basta la distanza emotiva, ne crea una fisica; relega George in una casa nel sud della città. Per rivedere Alex sferra un colpo vincente; grazie alla sua influenza, riesce a includerne i dipinti una mostra alla Tate Gallery.
Il giovane pittore si insedia nel letto e nella vita di Bacon; ha capito che gli è diventato indispensabile. La stampa britannica riserva una tiepida accoglienza ai tre quadri di Alex; la cocente delusione lo precipita nell’apatia. Preoccupato, Francis organizza un viaggio a Venezia; l’incanto della laguna sembra far bene ad Alex, gli restituisce l’entusiasmo. Anche Bacon gioisce; è sicuro di aver trovato il compagno della sua vita, l’amante, il figlio che non può avere. Fa progetti; lo nominerà suo erede, si spingerà fino a adottarlo.
Lo porta a Tangeri; ammaliato dalla magia della città, Alex dipinge con frenesia. La vita di Bacon non è mai stata così serena; un’idea prende forma, un evento unico nel mondo dell’arte contemporanea.
Una sorta di matrimonio; per Alex sarebbe la suprema consacrazione, per Francis è un pegno d’amore. La luce livida del giorno spazza via il sogno; rivela le falle di una storia fondata sulla menzogna. Bacon è devastato; come se non bastasse, lo attacca una malattia aggressiva. Viene operato; sembra che, insieme al tessuto, sia stata asportata anche la prostrazione. Torna a essere l’uomo che era; riprende a dipingere.
Il giorno in cui George esce di prigione, Francis è lì ad aspettarlo; ognuno torna al proprio posto. Dyer sullo sgabello; Bacon davanti alla tela, con il pennello in mano. Dipinge fino a sfinirsi; giorno e notte, come se fosse una questione di vita o di morte. Stritolato tra le spire della dipendenza, George sembra non avere scampo; Bacon lo mette alle strette. O andrà in cura di disintossicazione o morirà per strada; tertium non datur.
La reazione è di una violenza inaudita; la furia distruttiva di George si abbatte sull’atelier. Giura con voce rotta, se ne va; di lui restano polvere danzante e macerie. Francis si danna l’anima; odi et amo.
Di ritorno da Venezia, lo attende una notizia grandiosa; il Grand Palais di Parigi intende organizzare una retrospettiva delle sue opere. Solo Picasso, da vivo, ha goduto di tale privilegio; non esiste consacrazione più grande per un pittore. L’entusiasmo è alle stelle; all’euforia segue l’angoscia. Quella retrospettiva monumentale scaverà la sua tomba; Bacon esita a lungo prima di dare il consenso. Quattro mesi prima dell’inaugurazione della mostra, è ricoverato d’urgenza; i giornali lo dichiarano agonizzante.
Il personale dell’ospedale ha ricevuto precise istruzioni; il paziente non vuole vedere nessuno. Il divieto non impedisce a George di fare irruzione in camera; ha letto gli articoli che parlano della retrospettiva. Desidera ardentemente viverla al suo fianco; Bacon accetta che lo segua a Parigi. Ma pone una condizione; deve disintossicarsi.
Ottobre 1971. Alla vigilia dell’evento, George lo raggiunge in albergo; è smagrito ma sobrio. Alloggiano in due camere separate; oberato di impegni, Francis non ha tempo per occuparsi di lui. Non sopporta la sua gentilezza, le sue domande; lo infastidisce il modo maldestro con cui gli esprime l’amore. Si vergogna di lui; questa la dura accusa di George. Sarà bene che torni a Londra, lì non può reggere; suggerisce Francis. L’altro afferma il contrario, giura; pur di restare con lui, farà tutto quello che vorrà. Bacon insiste; prenda il primo aereo per Londra. George fa per andarsene; torna brusco sui propri passi. Sta per sferrare un pugno; liberatorio per entrambi. Francis lo aspetta a occhi chiusi; gli arriva un bacio. La sera successiva è a un ricevimento; un uomo deve parlargli con urgenza. È accaduto qualcosa in albergo; la stampa darà la notizia del triste incidente solo alcuni giorni dopo. Come Oreste, Francis è perseguitato dalle Erinni; instancabili, implacabili gli ricordano la colpa. Ha abbandonato alla sua sorte l’uomo che amava; ha peccato di codardia. Confiteor; mai alcuna compassione né slancio di bontà verso George Dyer.
Leggere Ultimo quadro d’amore è come camminare a piedi nudi su schegge di vetro; quella di Tremblay è una prosa sanguigna, carnale. Il corpo, la carne; presenze ossessive nella vita e nell’opera di Bacon. Il corpo è terra di mezzo; le due attività, artistica e sessuale convergono in quel centro.
“Avevo sempre dipinto carne: mi ero accanito a far straripare dal corpo umano la sua parte di animalità, a esibire lo spasmo della sua sessualità intralciata. […] Avevo messo in scena l’assurdità della condizione umana, la sua disperazione, la sua crudeltà, e l’assenza di una qualsivoglia eternità salvifica.”
Bacon nasce due volte. Viene al mondo dal grembo della madre; viene messo al mondo dallo sguardo del padre. Quella repulsione è forza creatrice; lo cristallizza in un’immagine piena di sporcizia, non priva di qualche misero piacere. Il suo corpo di bambino riceveva staffilate; quella carne ancora non distingueva il dolore dal piacere. Li confondeva, li masticava; li ha vomitati in un grumo altro di esistenza. In quel lembo ‒ o limbo ‒ non del tutto umano, Francis ha imparato a sopravvivere; si è costretto a trarre piacere dalla sofferenza. Nella relazione con George, si replica il moto perpetuo della sua vita; l’oscillazione perenne tra quei due opposti.
Written by Tiziana Topa
Bibliografia
Larry Tremblay, Ultimo quadro d’amore, Bordeaux edizioni, 2024
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