Contest letterario di poesia e racconto breve “Versi di Sardegna Terza Edizione”
Regolamento del Contest “Versi di Sardegna Terza Edizione”
1.Il Contest letterario gratuito di poesia e racconto breve “Versi di Sardegna Terza Edizione” è promosso da Oubliette Magazine, dagli autori e dalle autrici dell’antologia e dalla casa editrice Edizioni DrawUp. La partecipazione al contest letterario è riservata ai maggiori di 16 anni.
La partecipazione al Contest è gratuita.
Tema libero.
2. Articolato in due sezioni:
A. Poesia (limite 100 versi)
B. Racconto breve (limite 1000 parole)
3. Per la sezione A si partecipa inserendo la propria poesia sotto forma di commento sotto questo stesso bando (a fine pagina) indicando nome, cognome, dichiarazione di accettazione del regolamento. Si può partecipare con poesie edite ed inedite.
Le opere senza nome, cognome, e dichiarazione di accettazione del regolamento NON saranno pubblicate perché squalificate. Inoltre NON si partecipa via e-mail ma nel modo sopra indicato.
Importante: cliccare su Non sono un robot, è un sistema Captcha che ci protegge dallo spam. Per convalidare la partecipazione bisogna cliccare sulla casella.
Per la sezione B si partecipa inserendo il proprio racconto sotto forma di commento sotto questo stesso bando (a fine pagina) indicando nome, cognome, dichiarazione di accettazione del regolamento. Si può partecipare con racconti editi ed inediti.
Le opere senza nome, cognome, e dichiarazione di accettazione del regolamento NON saranno pubblicate perché squalificate. Inoltre NON si partecipa via e-mail ma nel modo sopra indicato.
Importante: cliccare su Non sono un robot, è un sistema Captcha che ci protegge dallo spam. Per convalidare la partecipazione bisogna cliccare sulla casella.
Ogni concorrente può partecipare ad entrambe le sezioni con una sola opera.
4. Premio:
N° 1 copia del libro “Versi di Sardegna Terza Edizione” con le raccolte di Franco Carta, Maricà, Ilse Atzori, Italo Cappai, Teresa Argiolas, Rita Nappi, Leandro Porcedda, Margherita Muscas, Fabio Masala, Andreina Manca, Annalisa Atzeni, Francesco Cau, Maria Filomena Orgiu, Samuel Fernando Pezzolato, Manuela Orrù, edito nel 2024 dalla casa editrice Edizioni DrawUp.
Saranno premiati i primi due classificati per entrambe le sezioni.
5. La scadenza per l’invio delle opere, come commento sotto questo stesso bando, è fissata per il 15 settembre 2024 a mezzanotte.
6. Il giudizio della giuria è insindacabile ed inappellabile. La giuria è composta da:
Alessia Mocci (Editor in chief)
Carolina Colombi (Scrittrice e collaboratrice Oubliette)
Manuela Orrù (Scrittrice e collaboratrice Oubliette)
Samuel Fernando Pezzolato (Poeta)
Franco Carta (Poeta e scrittore)
Maricà (Poetessa e scrittrice)
Fabio Masala (Poeta)
7. Il contest non si assume alcuna responsabilità su eventuali plagi, dati non veritieri, violazione della privacy.
8. Si esortano i concorrenti per un invio sollecito senza attendere gli ultimi giorni utili, onde facilitare le operazioni di coordinamento. La collaborazione in tal senso sarà sentitamente apprezzata.
9. La segreteria è a disposizione per ogni informazione e delucidazione per e-mail: oubliettemagazine@hotmail.it indicando nell’oggetto “Info Contest” (NON si partecipa via e-mail ma direttamente sotto il bando), in alternativa all’email si può comunicare attraverso la pagina fan di Facebook.
10. È possibile seguire l’andamento del Contest ricevendo via e-mail tutte le notifiche con le nuove partecipanti al Contest Letterario; troverete nella sezione dei commenti la possibilità di farlo facilmente mettendo la spunta in “Avvertimi via e-mail in caso di risposte al mio commento”.
11. La partecipazione al Contest implica l’accettazione incondizionata del presente regolamento e l’autorizzazione al trattamento dei dati personali ai soli fini istituzionali (Gdpr 679/2016). Il mancato rispetto delle norme sopra descritte comporta l’esclusione dal concorso.
Buona partecipazione!
TRA ORDINE E DISORDINE
(Scorci di Sardegna)
Stai lì,
tra la piana d’Arborea
(Veneta, verde visione
d’una misurante ragione)
e la contorta geologia
che si fa duna rossa roccia,
arco di bianco calcare
sul d’azzurro e turchese macchiato mare.
Acqua senza marea,
incuneato Marceddì.
(sezione A, accetto il regolamento)
Sono vento e mare
Non mi chiami per nome.
Non odo il suono della
tua voce che mi chiama.
Sento solo silenzio.
Odo solo la voce
del mare e la quiete.
E il silenzio penetra
le viscere dell’anima
e io capisco di essere
solingo. Un forestiero.
In romitaggio in questa
vita. Son vento e mare.
Alessio Romanini Sez.A Accetto il regolamento
BAGNO UBALDO (VIAREGGIO)
“Ricordo di un’estate”
Ormai sono giunto all’età di cinquant’anni, e l’estate sono tutte uguali, monotone, senza grandi emozioni. Passo il tempo a riflettere sulla vita. Qualche volta raggiungo il mare, ma quando è meno affollato. Amo il mare, lui mi sussurra al cuore con il lento movimento delle onde e lo sciabordare così dolce. E l’acre odore del salmastro apre ricordi racchiusi nello scrigno del petto. E mentre gridano i gabbiani, la mia mente viene rapita dal passato; su tutti un frammento di un estate di molti anni fa, quando avevo dodici anni e andavo al “Bagno Ubaldo” sulla Terrazza della Repubblica della città di Viareggio. Oggi quel bagno non esiste più. O vero, ha cambiato nome e un po’ la struttura, ma i ricordi che ho nascosto sotto i milioni di granelli di sabbia sono ancora lì ad attendere il mio ritorno. Un giorno di aprile, quando le strutture balneari non erano ancora pronte ad accogliere la stagione estiva, sono tornato lì dove giace il mio “Bagno Ubaldo”; dove le sue spoglie hanno preso un altro nome, ma non i ricordi che sono stati vissuti dalla mia tenera età. Raggiunta la battigia, mi sono seduto su un tronco d’albero portato dalle mareggiate invernali e con lo sguardo rivolto al mare ho socchiuso gli occhi e un ricordo è balzato al cuore.
Era una delle tante estati. Era finita la scuola e cominciava la stagione estiva al mare. Abitavo a Piano di Mommio, un paesino nell’interno poco distante dalla città di Viareggio.
Mia mamma lavorava alle poste di Firenze, quindi non poteva portare me e mio fratello al mare; quindi ci portava mia zia con i miei cugini al Bagno Ubaldo, l’ultimo stabilimento di
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Viareggio situato sulla Terrazza della Repubblica. Questa non sarebbe stata la solita estate.
Tutto era cominciato come sempre, i saluti ai titolari dello stabilimento balneare che ci avevano visto crescere in tutti questi anni, il solito ombrellone, i soliti amici; ma poco distante dal nostro ombrellone c’erano dei nuovi bagnanti di Milano. Erano una coppia di anziani industriali con la nipote che aveva la mia età. Era bellissima! Con i suoi lunghi capelli biondi come raggi solari, gli occhi castani e il corpo modellato come argilla. La pelle morbida e dorata. Tumide labbra e un sorriso splendente. Mi colpì subito la sua bellezza…sembrava una dea e qualcosa nel mio sterno si muoveva; era una sensazione nuova, un’emozione che non avevo ancora mai provato: era l’amore.
Ogni giorno raggiungere il Bagno Ubaldo era una vera emozione.
C’era lei, sdraiata sul lettino a dorare la pelle, oppure all’ombra a leggere un libro. Poi sembrava una sirena quando si tuffava delicatamente tra le diafane onde del mare o si immergeva nel barbaglio. Il mio cuore era rapito dalla sua bellezza. Ero troppo timido per rompere il ghiaccio. Non avrei mai e poi mai avuto il coraggio di chiedere il suo nome. Però ogni giorno il mio sguardo si posava su di lei come un piccolo pettirosso sopra un fragile ramoscello. Tanto che lei si accorse del mio interesse. Un giorno, mentre ero a fare il bagno con mio fratello i cugini e gli amici; c’era anche lei poco distante da noi. E fu lei a rompere il silenzio chiedendomi se sapevo che ore fossero. Lo aveva fatto perché si era accorta che ogni giorno la guardavo rapito dalla sua angelica bellezza. Da quel giorno siamo diventati amici, ed
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ogni giorno di quell’estate l’ho passato con lei, lì sulla spiaggia del Bagno Ubaldo. Spesso andavo anche al suo ombrellone; avevo conosciuto i suoi nonni, persone squisite e molto gentili. Lei mi raccontava della sua vita a Milano ed io restavo incantato ad ascoltare le sue dolci labbra mentre parlava. Era così intelligente e dolce. Nella sua giovane età era già una donna sensibile e molto attraente. Non aveva pregiudizi su di me, che provenivo da una famiglia modesta di operai. Sentivo anche che ricambiava il sentimento che provavo per lei, ma io ero troppo timido per potergli dire: “Ti amo!”
Come “tutte le cose belle prima o poi finiscono”… purtroppo l’estate era giunta al suo termine. Era settembre e presto le scuole avrebbero riaperto. Lei doveva tornare a Milano. Ci salutammo con un caloroso abbraccio e la promessa che ci saremmo rivisti l’anno successivo. Mi rimasero solo tre ricordi di lei: una foto, il suo dolce nome: Silvia Turati e l’amore che arse nel mio cuore per due anni senza averla rivista mai più.
L’anno successivo la cercai in ogni ombrellone ma niente. Chiesi notizie ai titolari del Bagno Ubaldo, ma risposero che quell’anno i signori Fumagalli (i nonni di Silvia) non avevano prenotato per la nuova stagione estiva. Ingenuamente non avevo pensato a chiedere il numero di telefono di Silvia e quindi in tutta la mia vita non rividi quell’angelo che mi fece innamorare sulle spiagge di Viareggio al Bagno Ubaldo.
Nel mio cuore è rimasto solamente quel bellissimo: “Ricordo di un’estate”.
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Alessio Romanini Sez.B Accetto il regolamento
Ondivaga
agg. [dal lat. tardo undivăgus, comp. di unda «onda» e vagus «vagante»
Prima un calice, poi un blazer di rose
a quest’ora della sera
dovresti bere
il più bel vizio
ridere – sotto le luci a binario
lustrini e incoscienza
imbrattati di amarene
restituendo al fondale pesci di zagara
le scarpe sono più rosse al cigolio
degli ormeggi
nell’abbaglio seduci – corallo e ruggine
assolvi le ombre al faro
vedi già senza parlare
idiomi di rettitudine
farsi saltare
un eco di vertebre di sole
Sara Cancellara
Accetto il regolamento, sez. a
Se cerco di capirla razionalmente boh (le scarpe diventano più rosse al cigolio degli ormeggi), ma evoca qualcosa di profondo. Grazie!
Ilse Atzori
Accetto il regolamento sez, A
Volteggiano
Volteggiano avvolte
da scialli intessuti con fili d’oro
Impalpabili ad essere umano
Volteggiano leggiadre
da telaio in telaio
Tessuti preziosi
di filati leggeri
Cantando nenie
Nel silenzio della notte
Le note si odono
fino al paese
Cullando sogni
di giovine donne
Alcune affascinate
dalla melodia
Tra sogno e realtà
Al sorgere del sole
La nenia svanisce
Le donne prendono
possesso
dei telai nelle case
Con mani sapienti
Disegnano storie
Disegnano Janas
Raccontano magie
Con fili donati
Da notti incantate
Affascinante, magico affresco. Grazie!
Linda Motti accetto il regolamento
Sez b
E
se partiamo e se partiamo…lontano da questa favola infinita nata da una voglia magica tanto tempo fa e se piangiamo come si piange su un’onda infranta contro lo scoglio su un lume fioco un fuoco acceso una tragedia d ‘amore e sangue, uno sciabordio su sabbie mobili e mi hai rubato l’anima, mi hai rapito il cuore
un sogno insano che mi fa fuggire il vento danza nei campi vuoti una lepre corre un cerbiatto appare dalla boscaglia e non sono più non son più io veleggio fra le nebbie che dissolvono al chiaror dell’alba e se cederemo, se capiremo forse la pioggia pagherà il pegno sopra lo stupore io confidai in quelle amare stelle
PAURA
P ace
A more
U nita’
R iconciliazione
A ccoglienza
Motti Linda, sez. a accetto il regolamento
Inquietante
CINZIA PANUCCIO
SEZIONE A Accetto il regolamento
FRAGILITA’ DA REGINA
Sono una debole fragile labile
chiusa nel mio universo impenetrabile.
Non vedo orizzonti, cieli azzurri,
né mari sconfinati,
ma polsi da grosse catene legati.
Pezzi di cartone i miei giacigli
scendono le lacrime
mentre mi graffia la schiena con i suoi artigli.
C’è un odore acre nella mia stanza,
sono solo una bambina
sul mio corpo ancora acerbo
lui canta ed inizia la mattanza.
Oddio odio
le bruciature delle sigarette
quelle ferite sempre aperte,
e quelle cicatrici maledette.
Sono un marchio, che non va più via
la chiamo ancora vita
ma è una lunga agonia.
Non ho scelto di viver prigioniera,
ho provato a scappare mille volte
niente da fare lui è troppo forte.
Mi ha rapito per la strada, sedata
senza pietà alcuna, violentata.
Ho seppellito nel tempo
come un cadavere i miei orrori,
sicura che mai potessero venir fuori,
una maschera di cera, così dura,
che mi proteggesse ogni via di fuga.
Un palcoscenico dove ogni giorno,
per sopravvivere fingevo
di esser una regina
era quella la mia endorfina.
Nel mio castello
il mio aguzzino ruba tutti i sogni
e lentamente spezza le mie ossa,
è contento
il dolore che provo
è puro eccitamento.
Son diventata il suo giocattolo rotto
la sua bambola di pezza
mentre lui è uno squallido orco.
Passano gli anni
non li conto più̀
dentro queste mura
ridotta in schiavitù̀.
Ma un giorno la porta si apre,
in divisa, un volto sorridente,
mi taglia le catene
mi riporta tra la gente. Sento le sirene,
vedo il cielo colorato respiro mi hanno liberato.
Ora è lui in catene,
la gente gli urla contro
parole oscene,
iene inferocite
e persone perbene.
Piango tremo e guardo,
davanti una donna,
è mia madre
mi sembra una madonna.
Questa è la mia storia
raccontata in poche righe,
un inno alla vita
perché́ al dolore si sopravvive,
ho resistito, pregato tanto,
ho vinto la mia guerra
contro proiettili di sperma.
La verità̀…non mi sono mai arresa Dio è stato
la mia luce sempre accesa,
placherà̀ in futuro anche quell’odio
che ora come un fulmine mi acceca.
Passata è la bufera.
Conversione cromatica
L’enorme cartello troneggia di fronte a un albero, nel centro di una città senza nome, una città che forse non esiste ‐ chi lo sa! Ha senso più la geografia? E’ una qualunque delle città tutte uguali, con cui la terra si ripara e si dispera. Nell’ora perenne, anoressica, d’un giorno qualsiasi, d’un anno identico a quello che c’era e a quello che pensi poi ci sarà. Ma pensi? Pensi ancora? Davvero?
Lo sfondo grigio‐nero‐piombo, quasi fango cotto male dal sole morto, ha dentro trame di colore, di pure stelle, di chiaro.
Vive d’incanto, ora, qui, davanti a te. L’avevi perso dentro le alte mura, intorno al nulla che pervade. Ritorna spazio converso e crepita lo stato amorfo.
accetto il regolamento sez. b
Accetto il regolamento sez. A -Ronchi Donatella
Come un foglio di carta strappato,
Piccoli coriandoli di un vecchio biglietto consumato,
Trasportato da un vortice di vento,
Danza in giochi d aria
Come in un balletto classico
Alla fine del racconto.
Viaggia la musica
Mentre fievoli lacrime
Si appoggiano su un tutù
Di tulle sbiadito.
Corre l illusione,
Mentre il cigno morente
Reclina il capo allargando le ali
E tra le sue piume
Si appoggiano lievi
I piccoli coriandoli
Trasportati dal vento.
L’ultima immagine
Ormai ero giunto a quella svolta della mia vita in cui tutto mi sembrava insignificante, le persone a me care mi avevano abbandonato, le amicizie si erano rarefatte e dileguate, sperimentavo quello speciale stato dell’anima in cui ciò che prima mi dava calore e consentiva l’espandersi del mio essere vitale si scioglieva come neve al sole.
L’ispirazione che mi aveva sorretto nella mia vita d’artista e mi suggeriva temi e tonalità, consegnandomi inerme all’impero delle emozioni, si era ridotta al lumicino.
Le mie tele parlavano per me: si susseguivano con monotona ossessione, sempre lo stesso sguardo assente, chiuso al richiamo del mondo, preferivo isolarmi tra le mura della casa e ritraevo gli interni. Talvolta solo muri, indagati tra le pieghe della calce, oppure impropriamente illuminati dal fascio di luce che trapelava da un’anta della persiana, rimasta socchiusa per distrazione. Talaltra piani inclinati che creavano strane geometrie, giochi perversi di vuoti e di pieni.
La calura estiva quel pomeriggio non mi dava tregua. Avevo abbandonato la lettura e, per una specie di regola del contrappasso, più ero alla ricerca di pensieri profondi e più mi concentravo sui dettagli, sugli aspetti minuti. Di quella lettera a Lucilio, sul suicidio, a me colpiva il numero, settanta. Settanta volte sette pensavo e mi sembrava un ammonimento, forse un anelito verso l’eternità.
Sapevo di essere giunto a meta, mi sentivo impegnato a pianificare la mia uscita dal mondo. Con un ultimo residuale moto di ubris mi rifiutavo all’idea che l’Altissimo disponesse per me. Eppure mi ero accostato con umiltà a quelle pagine, spogliavo il gesto, che mi prefiguravo in futuro, di ogni unicità, tutto era già stato scritto prima e meglio di ora.
Mi riscossi alzandomi, intenzionato a raggiungere il bagno nel quale avrei rintracciato il rasoio che usavo in alternativa a quello elettrico. Durante il percorso, la persiana aveva le ante accostate, d’istinto mi affannai a richiuderla, mi lasciai convincere da quei moti involontari che l’abitudine ti rende cari. Lo sguardo si soffermò sull’aia. Il sole alto nel cielo mi ferì con l’usuale baldanza. Quante volte avevo ritratto quello spaccato di natura operosa, il forcone abbandonato in appoggio al tronco dell’albero, i covoni non ancora ultimati, il barroccio con sopra gli utensili agrari o qualche coccio mal ridotto e, disteso alle sue ruote, chissà quale umile contadinello accovacciato per la sosta con il suo cappello di paglia.
Un senso di rincrescimento e di nostalgia mi pervase, ma fu questione di pochi attimi. Ricacciai la tentazione della tristezza, così non mi fermai a riflettere su quanto e come gli ultimi anni mi avessero cambiato. Non avrei saputo sostenere il senso di colpa per quell’isolamento caparbio che aveva marcato la mia distanza dal mondo.
Spostatomi nella cucina, vi trasportai il cavalletto.
Mi muovevo a scatti, un’ansia mi spingeva a comporre l’immagine, l’ultima immagine che avrei ritratto. Il tavolaccio mal squadrato in semplice legno di castagno attrasse la mia attenzione e ci simpatizzai. Lo posizionai di traverso. Qualcosa tuttavia mi disturbava. Mi affrettai verso la piattaia e, aperto uno dei cassetti che divideva l’alzata dalla parte inferiore del mobile, con ansia rimestai all’interno e distolsi lo straccio cencioso di un grigio ceruleo che un tempo era stato modellato a comporre la camicia maschile. Sebbene di modeste dimensioni, fu sufficiente a ricoprire nella sua interezza il piano del tavolo, anzi con un lembo spiegazzato e rialzato la stoffa accolse i residui del pasto frugale: gli acini d’uva sgranati dal raspo, i pomi di un rosso acceso, unico accenno alla passione vitale, la brocca di rame, rifulgente: come la coppa, ricolma a metà di sola acqua, in esse si specchiava la fiammella stentata del cero che ero riuscito a recuperare, nascosto in qualche anfratto della casa. Mi accomodai per terra, la tavolozza e i colori accostati sul tappeto a portata di mano. Trassi un lungo sospiro prima di rimirare la natura morta. Presto mi risvegliai dal torpore che mi aveva colto di sorpresa e mi misi all’opera, di buona lena. Mi piacque pensare che la fiammella scandiva il tempo che mi rimaneva. Dipingevo con la mano sinistra e non era la prima volta. Nella mano destra stringevo il rasoio. Meglio utilizzare questa seconda che nell’ultimo gesto, senza tremare, sarebbe riuscita vittoriosa.
Chiara Sardelli
Accetto i regolamento Sezione B
Grandioso nella sua matericità, fino al tragico finale. Riletto, mi è piaciuto ancora di più
Reclamiamo per tutto !
Reclamiamo per tutto … non va mai bene nulla …
siamo diventati difficili …
e si che faceva caldo anche una volta …
quando eravamo tutti giovani e belli …
coloro che hanno lavorato nei campi a zappare …
a raccogliere cornetti bassi …
chi ha lavorato nei vigneti
a tagliare il fieno a falce e a falcetto …
chi ha lavorato sui cantieri …
sotto al sole … sotto l’acqua …
con acqua, neve, vento, grandine …
con il caldo … con il freddo … con il gelo …
e non c’era nulla da dire … si lavorava e basta !
Oggi invece … chissà perché non va più bene nulla !
Vogliamo il caldo d’inverno e il fresco d’estate …
che gente incontentabile !
Uhei però …
come si sta bene nel mio Paradiso al mare !
Accetto il regolamento, sez. a
Cosa farei
se non avessi il mare
a riempirmi
i vuoti dell’anima?
Se le sue lacrime
non confondessero le mie,
gocce salate
a baciarmi le labbra?
© Daniela Giorgini – Sezione A Poesia – Accetto il regolamento
UNA DEFLAGRAZIONE di Gianfranco Isetta
Una deflagrazione
improvvisa del battito.
Scuote i rami, scompiglia
il bosco che s’interroga.
Crescono le ali in cielo
scrutando per capire.
C’è silenzio ora intorno.
Forse nulla è accaduto
solo il fremito breve
di un affanno di cuore
che s’è infranto sull’orlo
di un ventricolo atteso
dopo un ampio vagare.
sez. a accetto il regolamento
Ho imparato a rifiorire, a ricominciare da capo
e a prendermi cura di me stessa.
A rinnovarmi, a progredire e a progettare nuove avventure,
a cambiare pelle, a trasformarmi
e a farmi tutt’uno con il cielo.
Ho imparato a seguire le traiettorie della luce
e a vivere, con pienezza, ciò che merita
di essere salvato.
A non dissolvermi come un arcobaleno
ma a mettere radici per non sentirmi più impotente
e in balia degli eventi
e a fare tesoro dei miei sogni.
A offrire alla mia vita, e alla mia anima,
un senso, un appiglio.
A non temere il tempo
e a sfidare ciò che mi è estraneo.
Ma soprattutto ho imparato ad avere nuovi occhi
capaci di stupirsi, di lasciarsi urtare
e colpire dalla bellezza.
Floriana Porta – sez A – Accetto il regolamento
Poesia tratta dal libro “Siamo fatte di carta” (Ventura Edizioni, 2024)
COME IN UNA CAMPANA DI VETRO
Ti prende a tradimento,
facendoti presto sentire
come sotto una campana
di rude vetro trasparente,
tutto ti giunge ovattato
lontano ed indistinto,
privo di ogni emozione,
ogni interesse è sparito,
il cibo è senza sapore,
nel mentre l’aria ti manca,
le mani stanche sul vetro
mimano il tuo distacco
dalla vita reale e sociale,
vorresti piano scomparire,
senza il minimo rumore,
provando enorme sollievo,
sì,questo turpe pensiero
si chiama male di vivere,
e ti aggrappi alla speranza
che si rompa la campana.
sez. a accetto il regolamento
ASPETTANDO IL SONNO
Ok,spengo la luce e mi consegno nelle braccia di Morfeo,ma pag. 1
qualcosa non va, perché non c’è verso che prenda sonno,è
sempre così quando vado a letto dopo le due di notte.
C’è qualcosa che mi angoscia,non so spiegarmi perché, ma
è lì in agguato da qualche parte negli interstizi dei miei neuroni.
All’improvviso mi sovviene che ho visto il TG della notte, e una
notizia mi ha colpito, la solita fuga di gas che ha nella notte
ucciso nel sonno una giovane coppia.
E’ un attimo e sono in piedi, vado a controllare se ho chiuso
il gas, tutto a posto naturalmente,poi mi sovviene che ho
una cucina antifuga di gas,presa quando l’ Alzheimer ha
intaccato il cervello di mio papà,e si temeva facesse saltare
per aria la villetta dimenticandosi il rubinetto aperto.
Mi fosse venuto in mente prima avrei evitato di alzarmi,certo che
di notte vengono mille pensieri o mille ossessioni,aspetto il sonno
come un assaggiatore di cibo di un dittatore aspetta la pensione.
Ma niente,non viene,invece si affaccia alla mia mente un pensiero,
avrò chiuso l’acqua in bagno?, perché se era aperto il rubinetto
della cucina me ne sarei accorto quando ho controllato il gas.
Ciabatte e pedalare, ok è chiuso,neanche l’avessi serrato con la
chiave inglese,a volte vorrei davvero trovare il rubinetto aperto,
così almeno non avrei fatto il viaggio a vuoto,ma poi penso che
sarebbe stato peggio,avrebbe alimentato ancora di più le mie
insalubri ossessioni.
Mi domando perché non ho mai pensieri profondi, filosofici,o
confuciani,insomma da far invidia al Dalai Lama,invece che
questi banali dubbi,insomma perché è meglio aspettare Godot
che un mondo dei sogni in ritardo.
Rispondere a domande del tipo:”hai paura della morte?”
da sveglio risponderei:”della morte di chi?”,oppure altra domanda
ancora più tosta:” ci si reincarna dopo morti?”,sempre di giorno
risponderei:”sì se sei molto magro metti su più carne.”
Di notte invece mi viene in mente che devo correre all’ingresso pag.2
per controllare se ho chiuso casa,dovessero per caso tornare
ancora i ladri che mi hanno spazzolato l’appartamento ad ottobre.
Controllo,ho dato un sacco di mandate alla porta,anche la mandata
affanculo a me stesso,perché non mi sono ricordato di aver
chiuso?e così forte che l’appartamento ora sembra sottovuoto?
Mi infilo sotto le lenzuola,aspettando sempre Morfeo che con
me è non è mai puntuale,segno mentalmente che dovrei regalargli
un orologio il prossimo Natale.
Neanche dieci minuti e mi ricordo che i ladri,quando mi sono entrati
in casa,erano passati dal balcone grazie ala tapparella alzata, morale?,
mi alzo per vedere se la serranda è tutta giù,verifico che in effetti lo è,
mannaggia,sta cosa sta cominciando a farsi ridicola.
Mi rimetto a dormire, anzi a tentare di dormire, perché ogni tanto
Tac…mi viene un dubbio, e mi tocca alzarmi di nuovo.
Ad un certo punto vedo la luce, avrò lasciato una lampadina accesa?,
noooo, è la luce del giorno che filtra dalla tapparella, mi tocca alzarmi
davvero adesso, e non per una ossessione, ma per andare a lavorare,
che è sempre stata la insana malattia di mio padre, da me non condivisa.
Mentre do del tu al the, penso:”ho davvero passato la notte in un su
aspettando di crollare per il sonno?
La prova del nove l’avrei pesandomi, se ho perso qualche etto allora
il letto l’ho visto poco, mi trattengo dal farlo perché non vorrei sembrare
un tipo ossessivo.
Il sogno se c’è stato è alle spalle,ma qualcosa di positivo c’è, mi è
venuta l’idea per questo racconto,insomma è stato un sogno che ha
lasciato il segno.
Il segno?ora capisco,la devo smettere di vedere i film di Zorro
prima di andare a dormire,se no la prossima volta invece che Morfeo
aspetterò un bel TSO.
sez. b accetto il regolamento
GIORNI
Metamorfosi dei giorni,
mutazioni del tempo.
Nessuna certezza,
risposte sbagliate
alle stesse domande.
L’amore un miraggio
sull’oasi della paura.
Dare forma ai giorni
nel calco di benigni pensieri,
ma azioni fallaci impastano
le vite come argilla
che si induriscono
nei forni del momento
col vento caldo delle stagioni.
Mercanzia venduta bene
come pezzi d’artigianato.
Nel mercato comune
la folla si accalca
su bancarelle ricolme
e i mercanti d’incanto
meravigliano le schiere.
Si acquistano giorni,
si negoziano vite.
Diventiamo prodotto,
proposte di scambio.
Un bene prezioso l’esistenza
venduto a costoso prezzo
con conio di scadente fattezza.
Achille SCHIAVONE
sez. a, accetto il regolamento
UN OVALE, IL CIELO
“Bugiardi tutti
scriviamo dell’oscurità
e le nostre pagine
senza eccezione alcuna
si leggono alla luce.”
Andréas Kentzòs: “Alla luce”
Davvero, il cielo, trattiene gli angeli?
S’aggrappano a ciò che possono: strati e cumuli,
aerei, piogge inaspettate, ali di cormorano,
tramonti improvvisi, cime aguzze di montagne.
A me verrebbe da dire che quello sfortunato,
che s’ostina ruotarmi sopra guardingo,
prima o poi si schianterà invano.
Ma il cielo gli offre sempre un appiglio,
appena la nuvola si disfa, l’airone atterra:
le luci stridule della notte, le vitree stelle,
e i sogni degli uomini che vi si custodiscono,
lo scarlatto tondo della luna che accoglie
le preghiere e le lacrime, i silenzi miseri.
Sto col naso all’insù, non so più se per vagheggiare
una stella cadente o farmi avvolgere dalle ali
del mio angelo ostinato, in quest’ovale di cielo.
-Accetto il regolamento del contest- sez. a
UN ALTRO DOMANI
Un filo invisibile
tra passato e presente
collega il futuro
a un tempo che fu
vissuto da avi,
storie arcaiche
reminiscenze di vite
raccolte e raccontate,
una sottile connessione
che vibra nell’anima
verso ignote realtà
travolgono legami di sangue
e non,
custodite nell’ Es.
E’ possibile cambiare il destino?
Forse si!..Si può se si vuole!
Scelte non sempre giuste
a volte azzeccate
sono ìl marchio della unicità
di ciascuno,
orizzonti lontani
verso cieli inesplorati
attendono il volo,
trame oscure e fitte si diradano
snodano l’enigma
e rivelano verità sconosciute,
senza più influenze
e suggestioni ataviche.
Forse un giorno capiremo tutto questo
e scopriremo l’arcano
ma ora un altro domani è qui
e attende…
Antonella Vara- accetto il regolamento sez A
Da grande
O il benzinaio o l’insegnante.
Hai presente quando ricordi il momento in cui si è verificato qualcosa di importante, il luogo in cui ti trovavi, i colori e gli odori che ti pervadevano, ma non riesci a collocarlo in un tempo preciso? Quell’episodio è davvero capitato e ne conservi la luce del sole filtrata dalle finestre, il tepore primaverile, il vocìo, chiaro e indistinto al tempo stesso, delle persone intorno, ma non lo puoi collocare in un giorno, non in un anno e nemmeno in un periodo della tua vita. L’unica cosa di cui sei certo è che è accaduto diversi anni fa, non troppi da dimenticarne il perimetro, non troppo pochi da inquadrarlo in un preciso contorno temporale. Una cosa però la puoi dire: che è successa da piccolo, che è un’espressione precisa e generica al tempo stesso, perché da un lato è un discrimine tra presente e passato, dall’altro non ti dice quando hai smesso di essere piccolo ed è cominciata la seconda fase della tua vita. Quella da grande.
La domanda era chiara. L’avevi ricopiata, e dovevi rispondere, in un tempo preciso, non troppo breve, ma pur sempre circoscritto. Gli altri grondavano di preoccupato sudore, apparecchiavano il loro banchetto delle più numerose e variopinte penne che si potesse, come se i colori e la quantità degli strumenti fornissero soluzioni per i problemi, risposte per le domande e sapienza per l’inettitudine. Io non ho mai patito le scadenze imperative, perché non le consideravo tali, né in quanto scadenze né tanto meno in quanto imperative. Ricordo che quando dovevo svolgere i compiti per le vacanze, e mi riducevo all’ultimo momento utile, i miei insistevano, fin dal primo giorno: “Lorenzo, sbrigati a farli, che ti togli il pensiero”, a cui, con candida sincerità, rispondevo: “Ma io il pensiero non ce l’ho …”
Con il tempo ho affinato la mia vocazione. Nel corso degli anni non si è mai verificato che ci fosse un giorno in cui non fossi impreparato almeno in una materia: come minimo su un argomento dovevo esserlo, e ho rispettato questo impegno morale assunto con me stesso. Erano un paio i quotidiani buchi neri della mia conoscenza a farmi da compagni di banco nelle mie giornate scolastiche, comunque vissute con olimpica tranquillità. Non mi limitavo a lacune su periodi di storia: erano voragini di complete epoche. Ancora oggi credo nella validità dell’ insegnamento di Vico: a fronte di comprovati corsi e ricorsi, perché studiare ogni fase della Storia? Sarebbero sprechi di tempo del cui risparmio, modestamente, ho fatto un imperativo categorico ed ecologico.
O il benzinaio o l’insegnante. Cosa avrei voluto fare? Lavori che ammaliavano quel bambino di tanti anni fa. Li consideravo mestieri, tanto apparentemente diversi, quanto affini tra loro.
Ricordo la maestra Imma, alla fine di aprile, dopo le vacanze di Pasqua. Era caldo fuori e il giardino della scuola sapeva di girotondi, di grilli e di scambio di figurine. Al rientro in classe, sulla lavagna era scritto: “Cosa farai da grande?”. Ci disse di copiare la domanda su un foglio protocollo staccato dal nostro quaderno, con la penna rossa, poi più giù Svolgimento, dopo averlo piegato, per lasciare posto alle correzioni.
Non c’è domanda che non ti venga posta più spesso di quella. Me la facevano gli amici in estate, i nonni la domenica e la mia fidanzata, Alessandra, all’uscita di scuola. Solo a lei e ai suoi occhi neri davo la risposta che sentivo più sincera: “Tuo marito”. A tutti gli altri rispondevo sempre: “O il benzinaio o l’insegnante”. Ma che dovevo dire? Ma non riuscite davvero a vedere quante cose in comune abbiano? Però c’è da precisare una cosa: io non volevo essere il benzinaio che ti riempie il serbatoio quando tu gli dai trentamila lire, non l’insegnante che ti spiega la differenza tra le Alpi e gli Appennini quando glielo chiedi. No.
Io voglio sorridere all’automobilista che arriva con la freccia inserita che sta ad indicare che sta venendo a fare rifornimento. Io gli indico l’esatto posizionamento della sua autovettura, per il controllo della pressione e per la pulizia del vetro di dietro, che per fare manovra mica puoi avere il lunotto sporco! Poi mi avvicino, gli riconsegno le chiavi e gli dico: Buon viaggio.
Io voglio entrare in classe vedendo il sorriso dei miei alunni ed uscirne con loro che guardano il mio. Voglio smussare gli angoli alla mia esistenza fingendo che sia la loro, e se un giorno scopriranno il senso nella differenza tra verbi attivi e passivi, nell’eterna pietà di Ettore per Priamo e nell’infinità dei dolci naufragi, non avranno bisogno degli auguri di buon viaggio.
Non ricordo se tutto questo l’ho scritto in quel tema, di tempo ne è passato troppo. Ricordo però che, dopo averlo consegnato, ebbi la sensazione di aver superato un intoppo, come il ciclista che scavalla la collina e, soddisfatto e stanco, guarda per un po’, solo per un po’, prima la salita fatta e poi il percorso in discesa che lo aspetta.
“Alice, sei sveglia?!”
“Ma lasciala stare, lo sai che ha i suoi tempi”.
“Alessandra, non avallare questa indolenza di tua figlia! Se non le stiamo addosso e non insistiamo, chissà che ci diventa da grande!”
“Non darti pena, Lorenzo, anche nostra figlia troverà la sua strada, prima o poi e con…”
“E con i suoi tempi! Sì, sì, lo so, tanto è già inutile combattere con te, figurati pure con la tua alleata! Sarebbe proficuo, per tutti, se riuscissi a ricordare la stregoneria con cui mi hai estorto quel sì… Va bè, ora devo scappare pure io, che devo sostituire Lo Bianco in 2 B, che scocciatura!”.
Alessandra accompagna me e il mio sorriso con il suo. Sa benissimo, da molto tempo, fin da piccola, che non mi pesa entrare a scuola un’ora prima.
Mi guarda, con la luce dei suoi occhi neri. Sento il suo buon viaggio, pensato a bassa voce, che mi fa strada.
sez. b accetto il regolamento
SOLILOQUIO DI EFIX
(Come canne al vento – omaggio per il 150° anniversario della nascita di Grazia Deledda)
C’era entrato in punta di piedi il silenzio
ed era un mormorio di canne genuflesse
in un’urna di vento
quasi la pronuncia di Dio in una eco
che scava alvei negli occhi di una tanca di cielo.
Di queste pietre vivrà l’uomo
e della luce china come una ferita
sugli avambracci nudi delle tempie
in questa solitudine che mi siede accanto
e mi danza sul cuore un ballo tondo.
C’è che oggi l’anima ha una nenia in più,
un sussulto di grafite, una calligrafia di ali
ferma come un periodo sospeso, una piuma
che esita e scolpisce una rara dolcezza
sulla corteccia delle labbra come
il contorno indefinito del sole
sull’epidermide nuda dell’erba.
Sezione A – Accetto il regolamento
IL CUORE
il cuore è un muscolo, non è costituito da cellule lisce come tutti gli organi dominati dal sistema nervoso autonomo, ma da cellule striate particolari, più simili alle cellule muscolari normali che alla muscolatura liscia. Simone era un medico e lo sapeva bene, faceva il cardiologo. I suoi studi classici lo portavano a pensare che queste cellule in minima parte potessero avere una volontà propria, ogni piccola cellula poteva essere attratta da altro che non fosse solamente il ritmo sinusale e la contrazione atrio ventricolare. Forse l’idea ancestrale del cuore come centralina del sentimento derivava proprio da questa bizzarria anatomica, forse tutte quelle cellule la pensavano un po’ come volevano loro e si regolarizzavano al ritmo di una sola altra persona al mondo. Platone ne aveva parlato nel suo simposio, lui stesso non era d’accordo, era sempre stato convinto che in una vita come quella moderna il cuore non avrebbe mai potuto entrare in risonanza con un’unica persona, che con sette miliardi di altre persone a questo mondo e con altrettante cellule cardiache le idee se non si potevano considerare confuse almeno plurime si. Platone era convinto che l’altra metà della mela fosse una solamente perché nel mondo conosciuto all’epoca del quinto secolo avanti cristo le persone potevano entrare a contatto con un numero ristretto di altre persone, il Boeing 747 non era stato ancora inventato e spostarsi da uno stato all’altro era molto più complesso e lungo. La maggior parte delle persone rimaneva in un raggio massimo di qualche decina di chilometri da dove venivano concepiti. Pensava a questo mentre l’infermiera gli innestava l’accesso alla vena sul dorso della sua mano. L’altra metà della mela…. L’altra metà della mela…. L’altra metà della mela…. Continuava a ripetere come un mantra lottando contro l’annebbiamento della vista. Si rendeva conto anche in stato ipossico della sua situazione, era della generazione in cui le mamme e le nonne insistevano sempre perché i figlio o i nipoti si cambiassero le mutande tutti i giorni proprio nel caso avessero dovuto essere trasportati in pronto soccorso e in quel momento continuava a pensare all’altra metà della mela e non a quando si fosse cambiato le mutande l’ultima volta. A lui l’altra metà della mela era successa, era capitata tra capo e collo all’università, Silvia la donna che sarebbe diventata sua moglie successivamente. La sua metà della mela lo completava ed era sempre stata al suo fianco e anche lui in modo reciproco era stato il suo supporto, il suo compagno di vita, sempre fedele, sempre attento. Erano ventisette anni che stavano insieme, ventisette anni di felicità, di ordinarietà, di intimità e di tran tran rassicurante. Odiava gli aghi, aveva socchiuso gli occhi mentre gli applicavano l’accesso venoso, il tutto sembrava avvenire in un’atmosfera dilatata, il tempo rallentato, i suoni ovattati come provenienti da distante, le immagini sconnesse dai suoni. Normalmente se si cammina nel traffico ed un auto suona il clacson girandoci d’improvviso il nostro cervello riesce a capire quale delle auto abbia attivato l’avvisatore acustico. Ora lui sentiva tutto distorto, come se l’immagine fosse distinta dal suono, come nel doppiaggio di un film di bruce lee, come se il clacson fosse suonato nel traffico di Napoli. L’altra metà della mela…. L’altra metà della mela… Lo spostavano sulla barella e lo stavano spingendo velocemente facendolo uscire dalla stanza d’albergo, spingendolo lungo il corridoio verso la reception dove all’uscita l’ambulanza lo aspettava con il motore acceso e le porte aperte. Mentre scivolavano dietro di lui i neon del corridoio ripensò alla sua vita, mettendo una spunta a tutte le cose che aveva fatto per la sua salute. Aveva smesso di fumare Aveva sempre fatto un po’ di sport Aveva sempre mangiato bene, attento alla dieta Così mentre sentiva le ruote della barella sbattere ritmicamente sulle giunzioni della corsia di moquette del corridoio, si sentiva rincuorato di aver messo tutte le spunte alla lista di cose da fare per la salute del cinquantenne medio. Silvia ci teneva che si tenesse in forma, Silvia gli aveva detto che non era più un ragazzino, Silvia dopo ventisette anni di convivenza e due figli gli continuava a dire che metteva troppo sale nelle pietanze, Silvia insisteva da sempre che doveva andare a letto presto, Silvia non voleva andare a cena fuori perché il glutammato era una brutta bestia e veniva usato a sproposito anche nei ristoranti di un certo livello, figurarsi nelle bettole dove voleva andare sempre lui. Silvia si era rifiutata di permettergli di fare il corso da sommelier che lui voleva tanto fare, l’alcol non entrava nella loro casa, Silvia gli diceva sempre che il vino e gli alcolici in generale erano la maggior causa di infarto negli uomini della sua età. L’altra metà della mela….. l’altra metà della mela…. L’altra metà della mela…. Che poi Silvia non aveva studiato medicina, lo avesse fatto sarebbe stata molto più tollerante con tutte quelle cose, avrebbe capito che il corpo funziona per una motivazione tutta sua e che vi sono molti più modi per non funzionare che per funzionare. Avrebbe capito come medico che era impossibile arginare il mare, che era impossibile far godere a tutti un’ottima salute, un giorno funzioni ed il giorno dopo no, punto. Purtroppo Silvia era laureata in statistica, una fredda studiosa di probabilità e tutte le statistiche della salute l’attiravano come il miele attira le api. L’altra metà della mela…. L’altra metà della mela… l’altra metà della mela… Sette miliardi di persone, come palline impazzite degli esperimenti sull’entropia, vagano velocemente sulla superficie terracquea del nostro pianeta, sette miliardi di persone cozzano una con l’altra, rimbalzano, prendono direzioni distinte, al giorno d’oggi non poteva, non doveva esserci solo un’altra metà della mela, magari al suo posto si poteva trovare una metà d’ananas, una metà di frutto della passione o di melograno. Le porte dell’ambulanza si richiusero, lo spazio era angusto, l’infermiera era indaffarata su di lui, il medico di turno lo scuoteva chiedendogli che giorno fosse ma lui non aveva voglia di rispondergli, era indaffarato a cercare di controllare la saliva che gli usciva da un lato della bocca, come se il suo muscolo buccinatore fosse diventato incontinente. L’altra metà della mela…. L’altra metà della mela…. L’altra metà della mela…. A lui era capitata Silvia…. Ma da un po’, dopo il divieto al sale, all’alcol, agli obblighi di allenamenti estenuanti e al divieto di fumare di Silvia era comparsa un’altra metà di mela o fragola o mango o quello che era. Natasha era la nuova infermiera straniera del suo reparto, era simpatica, molto simpatica, giovane, le piaceva la carne rossa e la carbonara, i cannoli siciliani ed il babà. Le aveva raccontato la sua storia e lei lo aveva invitato in una pausa pranzo a casa sua e gli aveva cucinato una fiorentina alla griglia fenomenale con una bottiglia di Chianti che aveva mandato in risonanza le cellule striate del suo cuore con quelle degli occhi algidi di lei e soprattutto con i seni di cellule striate, Simone avrebbe potuto giurarlo, che catturavano l’attenzione di lui medico abituato a interagire con il mediastino delle persone. I suoi desmosomi e le sue cellule comunicanti vibravano alla vista del fondoschiena di lei. Buttati! si era detto e si era buttato. L’altra metà della mela… l’altra metà della mela… l’altra metà della mela… L’altra metà di frutto indefinito gli aveva salvato la vita, dopo che aveva ingerito la famosa pillola blu per non far brutta figura con l’amazzone straniera, si era sentito male, Natasha gli era saltata sopra alla gabbia toracica completamente nuda, aveva chiamato i soccorsi e gli aveva salvato la vita… L’altra metà della mela…. L’altra metà della mela… Natasha all’arrivo dei soccorsi era nuda avvolta in un lenzuolo con la chioma bionda platino sciolta sulle spalle, il mascara colato ai lati degli occhi e pur mantenendo una calma apparente, era sotto shock. L’ambulanza ondeggiava nel traffico, quel medico insisteva scuotendolo e chiedendogli che anno fosse mentre la bava continuava a colargli all’angolo inferiore della bocca… “Millenovecentoottantadue, campioni del mondo!” Riuscì a rispondere Simone prima di cadere nell’incoscienza.
accetto il regolamento, sez B
Davvero un bel racconto, grazie!
Come un relitto
lasciarsi portare,
lasciarsi
condurre dal mare…
Offrire le membra
allo scalpello del vento
usciti dall’acqua,
usciti dal centro…
sez. A – Accetto il regolamento
SONO QUI!
Sono qui,
che ammiro il sole
il sole estivo che fa felice il cuore.
Tutti corrono al mare,
hanno tanta voglia di nuotare.
Io sono qui,
sdraiata sul divano,
col cuore che piange
e guarda il sole da lontano.
Tutto mi sembra scuro,
come la mia tristezza senza futuro.
Sono sola,
senza nessuno attorno,
che apatia, che malinconia,
mi perdo nel dolore su questa via.
Son sicura però,
che fra poco andrà tutto a meraviglia,
il sole splenderà,
ed anche per me ci sarà la tranquillità!
– accetto il regolamento, sezione A
Titolo: Gente di Shardana
Autore: mp47pasquino by Pasquale Rea Martino
Giungi allo sguardo altera
verde smeraldo, tua scogliera
coste di mare terso e sabbia fine
ricca di storia, Nuraghi e di rovine
tra picchi di rocce e flora,
tra passato, storia e gente che Ti onora!
Dispensi spiagge e cale da sogno
la tua costa frastagliata è pregna
di sabbia chiara di Sardegna,
invasa quando il caldo lascia il segno…
Nei verni bui ritorna pace e sete ai vespri
la faida a volte che si fa cocente,
il luogo tanto amato patisce l’abbandono…
a te popolo gentile che ci fai dono
forte dei custodi del tempo, tra plausi e lustri
stirpe di genti antiche e il suolo ch’è ridente .
Granitiche le rocce
le colline con gli arbusti,
le pasture
le frastagliate coste che con risacche
e bianche schiume ti lambisce.
Gente dalla storia fiera
di un passato battagliera
non dona gloria e vanto a gente
che da sempre spera
gente dignitosa e vera,
d’onore e orgoglio…
gente di Shardana.
accetto il regolamento, sezione a
Come una goccia …
Grida nella notte
Cuori agitati
Portano via i sorrisi
Sui visi delle persone
Come una volata di vento
La vita si perde
Come una goccia di pioggia
Caduta che subito
Si asciuga al sole
Antonio Pittau
Accetto il regolamento, sez. a
Canzone per l’uomo
Medita l’uomo lungo gli impervi sentieri
dei campi addormentati al mattino.
Il sole sta per vincere le nubi mattutine
ed il pensiero dell’uomo va
forse oltre la campagna deserta,
tra cui soltanto si muovono le rane
nei fossi ed i suoi passi
accompagnati da un’ombra falsa
che piano si dissolve.
E dove si posano i suoi passi
rimane il segno dell’uomo
tra l’erba ancora umida di rugiada,
tanto umida che se vi posi le tue mani
te ne impregni come quando asciughi
il volto intriso di lacrime di pianto.
L’uomo si addormenta sul prato dei sogni,
il suo stesso cuore sogna
di fronte a quell’immensità dolce,
e la sua ombra vestita
nel sogno come un padre
va quieta in quel firmamento lontano
ove sopporta la sofferenza
e le tristezze nell’amore:
l’amore per quel prato
di voci perdute, di desideri infuocati.
Il respiro dell’uomo è calmo nel sonno,
il corpo assopito è tutt’uno con la terra
ed un passero credendolo
parte del suo mondo
vi si posa a cinguettare incidendo
la dolce canzone per l’uomo.
L’uomo forse non aspetta più nulla,
attende che la sua ombra ritorni
ed allora sarà guarita la sua ferita
che nessuno può vedere, ma
che lo consuma a poco a poco
come la fiamma consuma la candela
posta a lottare contro l’oscurità
che si ostina a nascondere le cose.
Le cose di cui l’uomo ha bisogno
per sentirsi libero dalla notte nera,
libero in eterno da quell’ombra:
l’ombra di uno spirito morto da tempo
ed errante in quel prato di sogni.
Ma vivono le parole dell’uomo
che non vogliono essere un modo di vivere
ma una vita da vivere
o forse fanno anch’esse parte del sogno,
un sogno di molti, come quel carro
mai visto in un fosco mattino.
Acceto il regolamento-Sezione A
Tu rubi il mio cuore
Tu rubi il mio cuore,
io inalo dolore,
e quel tuo bacio che non mi hai dato,
e quel sorriso di cui mi hai privato,
son lame taglienti, son Furie irridenti,
son fiamme che l’anima bruciano ardenti.
E nel momento che infanghi il mio amore,
(e’ solo un istante di crude parole)
si spezza per sempre il mio cuore.
© Serena Pusceddu
Dichiaro di accettare il regolamento. sez a
Ed io t’aspetto
Ti guardo parlare
e poi muover le mani
che non dicesti esser mie
fin quando stringerle
fitte alle mie note
non ti parse vero
Non sento cosa dici
ma aspetto la tua bocca
su di me
che di me
ancor si nutre
Immagino il bello
Pensavo fossi un deserto
e dunque la mia sabbia invece sei oasi
che trovo sempre e sola
a dissetare ogni fervore
Che sia terra o che sia mare sai come splendere
come finire
Per poi ricominciare
A scartare le lontane e ormai svanite
rossastre terre
da mostri di paura arse
Al confine dell’universo
Al confine della storia
Cambieremo le stagioni, io e te.
accetto il regolamento, sez. a
Odissee nei dintorni
“Nulla è stato aggiunto e nulla è stato tolto, o imperturbabile, perfetto, intangibile mondo.” (Czesław Miłosz- Ditirambo, Berkeley 1965)
“Terra di sterminio, terra d’odio \ Nessuna parola potrà purificarti” (C. Miłosz – da Spirito della Storia, in Trattato poetico 1956)
Le viuzze di campagna – tutte a onde,
lungo le anse dei fossi tra gli argini
dove s’andava un tempo coi carretti
trainati da animali (ed ora in auto
che cariano l’asfalto in crolli e squarci) –
son così belle rispetto ai non-luoghi
autostradali (sempre tutti dritti,
squadrati: rettilinei tra due punti
che annullano lo spazio e solo illudono
di scavalcar pure il tempo appiattendolo
in binari irreali, uguali e avulsi
dal contesto/paesaggio sempre vario
che spesso anzi violentano e devastano –
come anche la metastasi architèrror
che dilaga da anni ormai ovunque,
gente che si pre-tumula ‘contenta’
in questi bunker/manicomi grigi,
ché mica ci son spigoli in natura
e nei corpi viventi perciò morbidi
ed accoglienti come abbracci e grembi…)
proprio perché percorrerle è una sorta
di massaggio e messaggio musicale
che riarmonizza la mente coi sensi,
canzoni che c’incantano viandando
in esse a risuonar con l’infinito:
quasi frequenze trasmesse con l’acqua
lungo la terra, a farci stare bene
tra le curve del mondo per carezze –
come i fulmini, ponti lungo l’aria
a saldare col fuoco il cielo al suolo
dove mettiamo casa insieme ai cari
con cui condividiamo il pane e il cuore…
(Accetto il regolamento. Sez. A.)
Le indagini del Commissario Carmelo Puzzanghera
Il Commissario Carmelo Puzzanghera sentiva ancora gli effetti di una modesta sbornia. Era stato la notte precedente in casa del collega Aurilio Galliani per festeggiare la di lui promozione a questore. Lui invece aspettava ancora quella che era diventata una tardiva promozione ma, anche se sperava, non sarebbe giunta tanto presto. In paradiso i santi erano in disaccordo e davano credito alle istanze di certe autorità che volevano un Puzzanghera ibernato ancora per qualche anno. Il commissario aveva risolto dei casi, ma solo perché gli indagati avevano acconsentito a confessare tutto, pur di non ascoltare quell’uomo dal forte accento meridionale che li angosciava con le ripetute domande, senza smettere di fumare. Sapevano che avrebbero trovato persone comprensive all’interno di una cella e speravano ardentemente di vedere il sole solo nel cortile del carcere durante l’ora d’aria.
Carmelo Puzzanghera strinse gli occhi per il forte mal di testa e finì di bere la quinta tazza di caffè, nero e forte come piaceva a lui.
Efisio Serra attendeva ordini da un bel po’, ma non voleva far incazzare quell’uomo che sembrava distrutto. Rigirava tra le mani una denuncia di scomparsa presentata dalla signora Annabella Moretti. Suo marito, l’ingegnere Osvaldo Moretti, era assente da casa da tre giorni e non aveva dato notizie di sè. La donna attendeva di essere ricevuta dal commissario, dopo che era stata consigliata di rivolgersi a Puzzanghera quale esperto nel ritrovamento di persone scomparse. Il commissario Anselmo Scanagatti nel suo ufficio rideva a crepapelle al pensiero che la donna non avrebbe ritrovato il consorte, grazie a Carmelo Puzzanghera. Il commissario aprì gli occhi e intravide Serra che lo fissava col solito viso da ebete.
-Che c’è Serra? Sei in stato catatonico? Eh parra, se hai qualcosa da dire!
-Commissario, una signora aspetta di parlare con lei.
E gli riferì brevemente il motivo della denuncia. Carmelo Puzzanghera maledì la signora e il marito che aveva deciso di sparire…
-Serra!
-Comandi!
– Unnè u commissario Scanagatti? Sa sta ciusciannu? Non se ne poteva occupare iddu?
– Ha un rapporto urgente da consegnare al signor questore. Così mi ha detto di riferirle.
– Uoggi non iè iurnata ! E fai entrare sta signora Moretti!
La donna aveva circa quarant’anni, alta, flessuosa come un giunco, avvolta in un cappotto di cachemire rosso, due occhi grandi e arrossati dal pianto.
Si sedette appoggiando la schiena alla spalliera della sedia e portò al naso un fazzoletto di seta color viola che sparse per l’aria una fresca fragranza di profumi d’oriente.
Il commissario ebbe la sensazione di riprendere i sensi e si rialzò dal sedile della poltrona per darsi un contegno.
– Commissario…mi è stato riferito…che è stato ritrovato un cadavere non identificato nel fiume…nei pressi della località Cascina Pizzulla. Mi scusi, ma…non posso trattenere… le lacrime al pensiero che quel corpo sia di mio marito.
La donna pianse amaramente, senza potersi frenare. Poi si fece animo e riprese a parlare.
– Temo che si tratti di lui…sa…è scomparso da tre giorni.
Il commissario pensò che quella bella donna sarebbe di certo piaciuta a sua madre e fantasticò un po’ prima di rivolgerle una domanda : – Mi può dare qualche indicazione che ci aiuti a identificarlo? Sono scomparse alcune persone e sono stati ripescati due cadaveri di sesso maschile dalle acque del fiume.
Efisio Serra attendeva alla tastiera del computer e fissava davanti a sè la parete come se vedesse la foto del morto.
Il commissario sentì il bisogno di aprire la finestra per respirare a pieni polmoni e, mentre stava per alzarsi, la signora Moretti rispose,frenando le lacrime che avevano sciolto il trucco dei begli occhi blu : – Ce…certo, commissario, è daltonico e… parla… con un forte accento veneto…
Serra si domandò che volesse significare ” daltonico”. Tentò di trovare una risposta, fissando il soffitto della stanza.
Carmelo Puzzanghera respirò profondamente e si ricredette al pensiero passeggero che quella donna sarebbe davvero piaciuta a sua madre.
accetto il regolamento sezione B
Esser solo
Un tempo così bello
da tornare ai campi,
se il sole non spegne
la sua forza d’agosto.
Di tanto in tanto
i raggi stampano
vivde chiazze
sulle imperfezioni
dei vetri.
Adagio respiro forte,
un pò stordito
senza sapere perchè.
I muri sono d’argilla
annerita dai fuochi,
gravitano ragnatele,
carezze secche e baci.
Una gran voglia
di muovermi,
di stendermi nell’aria
immobile e calda.
Si scuote la polvere
d’oro e lancio
sfide amorose
al di là
dei meli in fiore,
candidi
come cime incipriate.
Pazzo d’allegria
investo l’aria,
come stupito
d’esser solo.
Accetto il regolamento sez. A
Milena Musu ACCETTO IL REGOLAMENTO – sez. a
Tu sei la goccia d’acqua
caduta a lato della bocca
quando ero assetata.
Amore di porte sbattute
e libellule zoppe,
alte torri in cui recludersi
al sicuro da tentazioni e dolore.
Amore di usci schiantati
e grilli degenti,
lunghe corsie di lentischio
labirinti di mirto selvatico.
Amore di maniglie fracassate
e mosche indiscrete
candidi altari immacolati
e ulivi e querce, rigogliosi.
Amore di stipite e serratura
e vespe ostinate
colpa del corbezzolo,
coscienza di fiore pulito.
Amore a battente chiuso
e cavallette devastatrici
e ginepro di latitanti
e rosmarino, oleoso, profumato,
Amore.
MILENA MUSU ACCETTO IL REGOLAMENTO (SEZ B)
Fiaba del passaggio segretissimo per le capitali al di là del mare.
C’era una volta, ma forse c’è ancora, un’isola in mezzo al mare. L’isola in mezzo al mare era lontana da tutto e da quell’isola non si poteva arrivare da nessuna parte. Non si poteva arrivare che al mare se si prendeva un cavallo, al liminare di una spiaggia assolata se non si usavano che i piedi. Insomma era un’isola davvero isolata. L’isola in mezzo al mare era governata dal re Abbà, Signore delle Torri di Pietra, dei Pozzi d’Acqua e delle Querce. Abbà era un re giusto e un po’ poeta, amava cantare al tramonto per fare concorrenza al calar del sole, parlava con i corvi e le cornacchie e aveva un grosso litigio con le volpi. Infatti spesso aveva difeso i pastori del regno nelle contese con le volpi, ed esse non erano state contente. Il re Abbà, Signore delle Torri di pietra, dei Pozzi d’Acqua e delle Querce aveva una sola figlia che amava tanto, sua figlia era Tanit del Melograno. Tanit del Melograno correva vicino ai dirupi, spegneva gli incendi e quando non voleva parlare si nascondeva nelle grotte di calcare bianco, quelle che presentano cavità di madre appena sotto la coperta del suolo, e dalla grotta osservava il cielo e sognava di paesi lontanissimi. Tanit del Melograno non aveva una vita triste, però avrebbe voluto vedere il mondo al di là del mare. Un giorno suo padre, il nostro re Abbà, le disse: “Tanit de’ s’Arenada, geo seo beciu meda, e tue ti depese chircare unu pobiddu, abaida custos giovinoso: currente a cuadhu e funti giustos et balentes meda…” , ma Tanit chiamò quattro cornacchie nere che gracchiarono fortissimo, poi disse a suo padre “Chi mi oles cojuada faemmi andare innanti a biere su mundu a pallasa de su mare, cando torro m’appo a cojuare” .
Tanit del Melograno non attese la risposta di suo padre e per quattro giorni e quattro notti cercò una grotta chiara, una grotta di Luna piena. Dalla grotta illuminata e chiara ascoltò i consigli del vento e il canto dei pastori, ascoltò il dolce belare dei nuovi agnelli, ascoltava la nascita dei vitellini e le grida della mucca partoriente, il cuore le batteva forte e tutto le pareva già lontanissimo, come la Luna che distante illuminava la grotta. Dentro la sua testolina di ragazza Tanit pensava “M’apo aregodare de custas notes inoghe, notes limpias, de friscura e fragu bellu de moditzi, notes serenas chenza pistighingioso, chi finzas is pastorese cantant e mi parente cantando tottus is animmales imparis… notes de amistade de chelu et terra, chisai chi m’anta a contzolare cando dea s’atra parte de su mundu a sola ‘nde tengio bisongiu?” . Questi pensieri aveva nel cuore e non dormiva. Socchiudeva le palpebre appena, ma talvolta lo scricchiolio familiare di una sughera, solleticata dal vento tra i rami, talvolta un topino alla ricerca dell’ultimo chicco di grano nel campo, oppure il verso di un cuculo dal bosco echeggiavano tra le bianche pareti della grotta, attivando i suoi pensieri. Stava sveglia e l’aria fresca della notte scivolava tra i profili scuri dei familiari colli, disegnando quel tanto amato paesaggio intorno che tutto consolava e leniva. E nel frattempo il Re Abbà, Signore delle Torri di Pietra, dei Pozzi d’Acqua e delle Querce, dentro il suo castello camminava tutti i pavimenti, entrava ed usciva da ogni stanza. Per quattro giorni e quattro notti pensò. Il primo giorno fece chiamare i pastori dal pascolo. Chiese consiglio e i pastori, con le loro parole di sentenza dissero al re: “Chi di lomped dannu, nemos d’ad’ aggiudare. Prus a ilagru ite podet imparare?” . Il secondo giorno fece chiamare tutte le donne del regno, e chiese consiglio. Le donne silenziose ascoltarono, picchiando il dorso delle mani di tutti i bambini che toccavano le tende, i vetri e ogni oggetto del palazzo. Prima di andare via la più vecchia guardò il re “Lasadda andare, ada torrare!” . Il cuore del Re Abbà, Signore delle Torri di Pietra, dei Pozzi d’Acqua e delle Querce, non poteva riposare e la sua gente diceva tutto e il contrario di tutto! Il terzo giorno fece chiamare le volpi, sue nemiche, e chiese alle volpi: “Figia mia de su coro, su Tesoru de sa vida, figia bella prenda ‘e oro, s’ind’andada de Accoro! Anca olede biere su mundu, chi est in pranu o chi est tundu! Chi du ada gente meda, gente buida o gente prena… chi d’accapio mi ‘nde olede male, ma chi andada est fine peusu. Ite faere no isco geo!!! Itte ‘nde neisi?” . Come tutti sappiamo le volpi sono animali molto astuti, schive e notturne conoscono i problemi degli uomini e ridono di queste incomprensibili creature che hanno sempre domande. Le volpi non amavano gli uomini, che proteggevano le greggi allevando cani feroci, cugini dei lupi, e di sicuro erano nemiche del re. Ma volevano guadagnarci qualcosa da questa vicenda, così la Regina delle volpi incalzò il re: “Nos ischeus ite faere, ma Rei Abbà, ite due badangiaus a ti cossigiare?” . Il Re Abbà aspettava questa domanda e replicò apprensivo: “Margiane a pilu cambiada, in operas mai, tocca a t’intendere, ite piasa a domandare, chi tenes cussientzia?” . Con un sorriso beffardo la volpe assunse una postura umile, tradita dai suoi occhi orgogliosi con voce pungente disse: “Chi sas dies ais donadu a is pastores, lassaiesi assumancu sa note po girare in monte, dogna note dea beranu a s’ierru, in s’istade a passillare, dea lugore de zunzurreddos a s’abreschere est po noso, aretira sos pastores lassas solasa is brebeses!” . La richiesta tradiva la gola della volpe per gli agnelli appena nati, ma il re che tanto penava in cuor suo voleva almeno dare ascolto a questo consiglio “Assumancu lasso is canese, chi ses furba comente sa fama chi ti ses fatta d’asa biere!” . La volpe Regina si ritenne soddisfatta e spiegò il suo piano al re Abbà: “Calando in sa conca de Barralla aus’ agattau caminera longa meda, seus essidas in Continente, assiccadas e timorosas. A Tanit lassadda andare, da sigheus a cua nos, chi biede ogos de gente nostra s’arrenegada e non torrada! Ma nos seusu arestes da sigheus e d’abbaidaus, non timmiais, chi du ada bisongiu calencuna cosa feus!” . Il Re Abbà conosceva il passaggio segretissimo che partiva dai pascoli e arrivava in tutte le capitali del mondo oltre il mare, passando sotto le correnti, al sicuro dalle onde, ma aveva comunque paura. Lui stesso aveva usato quel passaggio prima di essere re, per fare il viaggio e conoscere il mondo al di là del mare. Ma Tanit era una figlia, era un’unica figlia di padre, preziosa come l’acqua di tutti i pozzi, come la luce di tutte le stelle, come il calore del sole che matura il grano. Al quarto giorno mandò le donne a cercare Tanit, nella grotta calcarea di Accoro, disse alla donna dalle trecce più lunghe e nere: “Baie e naieddi de si faere biere!” . Andarono in cinque a chiamarla e la trovarono a mangiare fichi d’India, tutta spettinata e stanca. Tanit aveva capito che suo padre l’avrebbe lasciata andare, ne fu felice ed impaurita, tutta la gioia che aveva immaginato si mescolava ad un sentimento nuovo, che non aveva mai provato e che non sapeva di avere nel cuore.
Camminò verso il palazzo a passi svelti, pensando di lavarsi nell’acqua di fiume, tra le libellule che volano basse, pettinarsi i capelli addomesticandoli in due trecce grosse, che avrebbe poi attorcigliato in ordine come due spirali bellissime. Si cambiò, indossando un vestito di festa, tessuto dalle fate del Castello con fili d’oro e ornato di velluto rosso e broccato. Si presentò a suo padre piena di quel sentimento che non ha nome e che è un miscuglio di felicità, paura, dolore e curiosità. Il padre preoccupato e fiero spiegò a Tanit del Melograno che avevano un passaggio segretissimo, dai pascoli alle città dei continenti, l’accompagnò camminando lentamente, per non far passare quel tempo veloce, fino all’uscio della segretissima galleria. Ci furono due lacrime soltanto come saluto prima del viaggio nelle terre al di là del mare: una lacrima dall’occhio sinistro del re Abbà e una lacrima dall’occhio destro di Tanit del Melograno, figlia di re Abbà, Signore delle Torri di Pietra, dei Pozzi d’Acqua e delle Querce. Poi Tanit entrò dentro la terra scura e guardò quelle pareti nere. C’era appesa una lucerna, ma non aveva il fuoco. La prese con sé, per ogni evenienza. Camminò al buio, con le mani davanti al viso, finché gli occhi si abituarono. L’odore della grotta era freddo, era odore di mare e di muschio insieme. Camminò così senza vedere e sentire nessuno, dentro un buco nella terra, e dopo tre giorni pianse. “Innoghe Abbà s’est brulau de mei, no arribbo a perunu logu!” , così piangeva e faceva un passo ancora, nel buio scuro senza nuvole o stelle. Al quarto giorno camminò più veloce, quasi correva, affamata e stanca senza sonno né speranza, ma il tunnel non finiva. Fu al settimo giorno che da lontano intravide una luce spezzare il passaggio. Vicino alla luce c’era una scala di pietra e salì affamata e stanca. Fuori dal tunnel le bruciarono gli occhi, il sole non era gentile in quel posto sconosciuto. Le persone parlavano una lingua dura, avevano gli occhi piccoli e dormivano stese per terra tra le case ed i palazzi. Tutte le strade erano nere e avevano tagliato tutti gli alberi, tutti i boschi e le foreste. Non c’era nemmeno un fico d’India da mangiare! Non c’erano querce, pecore con il latte, non c’erano mucche, non c’erano corvi né cornacchie, solo uccelli grassi e fastidiosi che andavano a beccare le scarpe. Il cibo era dietro dei vetri e non sapeva come prenderlo. Che poi quando provò a prenderlo arrivarono tutti molto risentiti con lei, forse in quel posto nessuno aveva mai fame? Cominciò a dormire anche lei nei gradini dei palazzi, e si chiedeva come mai di così tante case costruite, non ce ne fossero abbastanza per tutti. Le volpi la spiavano da lontano e guaivano divertite a vedere Tanit del Melograno senza nemmeno un fico d’India da mangiare. Però a furia di dormire nello stesso gradino conobbe una donna grassa, che cominciò a parlare con lei cercando di insegnarle la lingua del paese dove in troppi non avevano casa. Tanit mangiava per fame quel cibo zuccherato o salato, mai con il gusto giusto, e ascoltava la signora che comunque non la invitò mai ad entrare per dormire sulle frasche. La signora aveva un palazzo intero, e forse anche qualcuno di più. Li teneva vuoti apposta, per far pagare coi denari le poche stanze in cui qualcuno dormiva. Quando Tanit comprese che era ingiusto decise di continuare il suo viaggio per una nuova capitale del mondo e tornò al buco da dove era uscita.
Faticò un poco perché il suo corpo era diventato più molle, ma comunque, tra le risate divertite delle spie nascoste, riuscì a riprendere il suo viaggio. Non aveva più paura di stare troppi giorni dentro la galleria scura e umida. Dopo dieci giorni vide di nuovo una luce e si avviò verso l’uscita. Questa città aveva l’aria sporca, che faceva male alla gola, le persone guardavano solo per terra ed erano bianche, come se non avessero mai avuto il sole. Non erano buone, però non erano particolarmente cattive, eppure non guardavano mai negli occhi, anzi non si guardavano neanche tra loro! Tanit chiese da mangiare “Seo fammia po prajere si jao unu filu de oro de su estire meu po unu cantu de pane!” , e così dicendo tolse il primo filo d’oro dal suo vestito, indicandolo come oggetto prezioso di baratto. Un uomo furbo e avaro, che conosceva solo oro e danari comprese che il suo abito era un tesoro! Si avvicinò a Tanit e si accorse subito anche che lei aveva molta fame. Allora la portò in un posto pieno di tavoli e sedie vuote, l’aria intrisa di profumi deliziosi. L’uomo sorrideva, la fece accomodare ad un tavolo con una sedia. Tanit si guardava attorno, ogni tanto arrivava una donna o un uomo con un cibo diverso e lei mangiava. Anche l’uomo mangiava e si strofinava le mani contento. Le prese il filo d’oro e lo osservò di sopra al cibo. Parlò in una lingua che Tanit non capiva ancora, con gli occhi e le mani indicava il suo vestito. Voleva forse quello? Quando Tanit ebbe mangiato tutto, il cibo continuò ad arrivare e troppo era lo spreco immondo che si arrabbiò tantissimo. L’uomo la portò allora in una casa e le mostrò un piccolo ruscello domestico dove poteva lavarsi. Lei si lavò e trovò degli altri vestiti, andò a dormire sazia. Al suo risveglio il suo abito non era più lì! Il suo prezioso abito tessuto d’oro, fatto da mani di fata, rifinito di broccato e di velluto rosso! Cosa avrebbe detto il suo popolo! Certo che era una città davvero orribile se in cambio del cibo e di un letto ti lasciavano senza vestiti! Era ora di proseguire il viaggio, così Tanit, vestita di stracci, tornò al passaggio segretissimo che porta in viaggio al di là del mare, camminando per ancora sette giorni e trovò una nuova città. Le genti di questa città erano davvero tristi e non sorridevano mai. I bambini erano imprigionati dentro alti cancelli e non potevano mai camminare, uscire o arrampicarsi sulle querce. Anche perché in nessuna città c’erano querce, né ulivi o lecci. Non c’era il mirto e il pane non era mai buono, era solo salato. Certo c’erano altre cose buone, ma non il pane. In quella città si fermò a lungo, provando a fare del bene. Le persone che facevano del bene in quella città rinchiudevano donne e uomini con delle macchine. Le macchine facevano una quantità enorme di oggetti inutili. Erano macchine veloci e rumorose e le persone stavano rinchiuse là dentro in tutte le ore più belle del giorno, quando il sole bacia la pelle. Certo alcune persone stavano rinchiuse a creare oggetti inutili anche nella notte. Questi posti erano molto pericolosi e una persona al giorno poteva morire. Ma anziché proteggerle, quelli che facevano del bene, parevano accrescere le occasioni di pianto. Non compravano le scarpe e se uno si fracassava il piede si dispiacevano. Provò anche lei a creare con le macchine gli oggetti inutili, ed era davvero triste. Si ricordò di quel bagliore di Luna nel cielo, del vento e del canto dei pastori, tornarono alla mente i belati dei nuovi agnelli e le grida della vita nella notte. E mentre tutti questi pensieri di nostalgia le riempivano gli occhi d’acqua salata saltò fuori la quinta volpe che la seguiva. Si guardarono negli occhi e quegli occhi cugini, in quel mondo così strano e alieno, la consolarono a lungo. Dopo due ore e trentasette minuti di silenzio, due ore e trentasette minuti del cerchio per la conta del tempo nel luogo in cui si costruiscono enormi quantità di oggetti inutili, perché il tempo in quel paese lo contavano così come porzioni tutte uguali di momenti, beh dopo due ore e trentasette minuti la quinta volpe disse a Tanit “Non ti pared ora ancora de torrare dea Abbà?” . Aveva dimenticato la promessa fatta al padre, e pure aveva scordato di avere un padre che versò una lacrima, aveva perduto molto tempo a conoscere il mondo al di là del mare. “Ma Abbà mi olede isposa!” rispose Tanit affranta. La quinta volpe, su consiglio della Volpe Regina propose a Tanit: “Chi tue non ti olese faere a isposa cun ominese, cun margiane ti cojuausu!” . Così Tanit fu d’accordo con la quinta volpe, a patto che nel momento in cui avrebbe cominciato il viaggio di ritorno, già al padre arrivasse la notizia delle nozze imminenti. Le volpi sapevano che il re Abba, Signore delle Torri di Pietra, dei Pozzi d’Acqua e delle Querce non avrebbe mai accettato di fare sposare sua figlia Tanit del Melograno con una volpe, a meno che non fosse per una situazione di grave urgenza. Era passato un anno dalla partenza di Tanit del Melograno, quando la Regina delle volpi, al corrente dell’accordo tra Tanit e la quinta volpe, chiese e ricevette dal re udienza, trovandolo preoccupato, affranto e in grave apprensione.
“Tanit non torrada chi non cojuada margiane!” disse la Regina delle volpi.
“Ecomente piada a esse? Ite crisu d’anta fattu is omines gente nostra? Chi ses seria baedinde, chi este brulla non faese erriere!” . Il Signore delle Torri di Pietra, dei Pozzi d’Acqua e delle Querce si arrabbiò come una furia a quella richiesta, che sapeva di beffa. Sua figlia Tanit del Melograno in moglie di una volpe! Che scherzo poteva essere!
Ma Tanit non tornava e passarono sette giorni, poi passarono dieci giorni e dopo ancora tre giorni il Re Abbà fece chiamare la Regina delle volpi.
“Sett’illighese apo contau dea sa ie chi ses benia e figia mia non torrad, deghe lunas e como est sa de tres. Chi podes po custu coro, faedda torrare, po mei su chi decit issa m’este ugualle.” , disse alla Regina delle volpi il re, amareggiato e rassegnato. Rispose soddisfatta, ma meno beffarda la Regina delle volpi “Tando a s’abreschere de battro notes ada a bessire dea sa conca de Barralla.”
Grande consolazione fu per il cuore del re Abbà, Signore delle Torri di Pietra, dei Pozzi d’Acqua e delle Querce, questa frase. Ora non importava più se avevano vinto le volpi, sua figlia Tanit del Melograno sarebbe arrivata presto, sarebbe tonata dal segretissimo passaggio per le capitali al di là del mare, certo avrebbe sposato una volpe, ma che importanza aveva questo? Come aveva detto la volpe la futura Regina Tanit del Melograno riapparve dalla grotta bianca, cavità di terra, all’alba del quarto giorno, di ritorno dai paesi al di là del mare. Raccontò delle città piene di case chiuse dove la gente dormiva sul marmo delle scale dei palazzi, disse dell’avido uomo che le rubò l’abito d’oro tessuto dalla mani di fata e rifinito di broccato e velluto rosso. Spiegò al padre che gli uomini che facevano del bene in altre città forse in verità non facevano del bene ma rubavano il tempo e per questo avevano inventato macchine per creare oggetti inutili e anche macchine per contare la vita che scorre, chiamandole “orologi” in una lingua sconosciuta. Poi Tanit spiegò a suo padre Abbà, Signore delle Torri di Pietra, dei Pozzi d’Acqua e delle Querce che avrebbe sposato una volpe, per essere pronta a scappare nel bosco, nel giorno in cui quei popoli strani avrebbero scoperto il segretissimo passaggio. Tanit del Melograno infatti aveva imparato di più dal viaggio, più di suo padre. Aveva capito che non si possono tenere i popoli al di là del mare per sempre, così come non si possono tenere vicine le figlie. E questo infatti avvenne, ma sarà raccontato in altre pagine, da altre bocche. Per il momento la storia dell’isola in mezzo al mare da cui non si può andare da nessuna parte finisce con le nozze di Tanit del Melograno e la Volpe più Furba, che aveva proprio la stessa età di Tanit. Fecero un ricchissimo banchetto per pastori, donne e volpi. Le cornacchie avrebbero cantato volentieri ma il Re Abbà le pregò di presenziare in silenzio. Le fate cantarono, giorno e notte per la volpe che sposò la figlia del Re e fu pace tra pastori e volpi e cani, cugini dei lupi. Tanit del Melograno visse felice e contenta di notte, con un marito volpe di bosco. Se trovi l’isola di Abbà Signore delle Torri di Pietra, dei Pozzi d’Acqua e delle Querce, sicuramente la incontrerai dentro una grotta bianca nelle notti rischiarate dalla Luna.
sezione A
dichiaro di accettare il regolamento e l’autorizzazione al trattamento dei dati personali ai soli fini istituzionali ( Gd p r 679/2016 )
Luce
il cielo trafitto dal buio
urla di luce
sei goccia densa
di miele selvatico
favo celato
negli anfratti di falesie
dove il vento ,abita il suo respiro
Attraversami
come il canto dell’acqua
come pioggia
che disseta l’arsura
di mille anni solitari .
Sono sale
che scava la pietra
trasparenza di dolore
e, gioia
selva d’amore
umore d’alba
fra le tue mani
Teresa Addis
Teresa Addis sezione ( B)
Abito un isola dai grandi silenzi , l’aurora colora massi granitici che dominano vallate . I campanacci suonano come echi solitari , e cantano come mille bocche di luna . Il profumo speziato dell’elicriso è come sangue che sale su lacerazioni aperte d’amore , ascolto con occhi di sogno la bellezza selvaggia che come balsamo cura le mie ferite .
Ogni brandello di sale , crea cristalli di luce , il maestrale apporta visioni di uomini indomiti , che degli elementi ne fanno dei doni .
La terra , fu consacrata come Dea Madre , il suo grembo caldo e generoso ha generato semi di frumento e grano . Le donne impastano la farina e cantano : Ai ! ninnora , ninnora nei gesti sacri del pane , canti millenari , cristallizzati nella roccia, negli apogei rimasti immobili nel tempo ,dove i padri dei padri custodiscono i segreti dei tralci, che abbracciati alla zolla, stillano essenze che profumano di resine antiche .
I figli di Sardegna , credono nel “potere della parola ” è lei, che attraversa come vento il suono di ogni cosa ,e in questa armonia celata , tutto si trasmuta e si colora , e come acqua disseta campi arsi donando bellezza e vita . La parola è ” fuoco” che arde e consuma , ricrea e purifica .
Si ! credo nel potere della parola , ma , attenti ! si scelgono le parole , una ad una
si modellano come creta per far sì che , il pensiero sia ” buono”
Sia così nutrimento e sostanza per l’anima .
Teresa Addis
accetto il regolamento
Tu ci sei fra i miei tanti pensieri,
e nel cuore e nella mia mente
nonostante il tempo trascorso
nel silenzio dell’erba e del vento.
E’ improvviso il mutar del discorso,
oggi triste e distante, non ti sento
ormai sei lontano, il tempo è più niente.
Tu ci sei fra i ricordi silenti
nei tuoi occhi magari già spenti
non so più se è così, non so niente
ma tu ancora ci sei fra la gente?-
Lo diranno le onde del mare
ricordando la calma ed il rumore,
anche i sassi non sono più quelli,
i prati son secchi e privi di zolle
come sono le albe e i tramonti ?
Nel cuore ferito i ricordi, che sussulti!
Ci sei sempre nelle mie fantasie
le mie fughe e le tue gelosie.
-Dimmi tu come sei? Con chi stai?
E le rughe incise dal tempo
per quel mondo ancora irrisolto
di speranze…le hai sul volto anche tu?
-Mi hai cercato nonostante l’addio?
-Ti ho cercato.
-Avrei voglia di dirtelo anch’io
o gridartelo adesso.
Non importa, troppo tempo è passato
ma ormai lo sai anche tu…è lo stesso.
Vezzi Lucilla
24/08/2024
Accetto il regolamento – sez A
LA FOCE
Sottile, quasi
invisibile
il filo che
lega alla vita,
la morte.
Come il fiume
che arrivato alla foce,
si abbandona
alle acque del mare.
(7 novembre 2013)
Raffaella Nocera
Dichiaro di accettare il regolamento. Sezione A. Poesia
I GIORNI MARCI
I giorni marci,
mi nutro solo di scorie,
lo specchio che mi sguarda,
perplesso.
I giorni marci,
quelli che non servono a niente,
mi sento scoppiare,
di ossigeno esausto,
I giorni marci,
di sole parentesi curve,
incapaci di tutto,
risvegli già stanchi, di ghiaccio.
Giorni di lenta erosione,
quasi si possono contare ad una ad una
le cellule che diventano polvere.
giorni che non valgono alcuna pena,
tanto sono una pena.
Incapaci di un laccio,
i giorni marci sono una brace di mirra
dove i pensieri si abbandonano al fuoco
e subiscono ogni violenza,
inerti.
Ed io sono qui seduto, in mezzo ad ogni strada
plasmando il rimorso
e ad aspettare che prenda la forma e la lama
del pugnale dal sapore finale.
STEFANO GERVASONI
Accetto il regolamento, sez. a
SETTEMBRE ANCORA
E questo vento che oggi il mare increspa
domani soffierà su foglie gialle
di questi alberi forti, a denudarli.
E grigio, come i tuoi capelli verrà
Il mare. Il cielo pure, e tutta quanta
la campagna. Mi sfugge questo tempo
tra le dita, ma il suo passaggio reca
mutamento. Per la morte passando
si rinnova la vita. Anche le foglie
che sul viale ammucchiate sono morte
rimarranno per pochi attimi ancora.
Giunto è per loro, il tempo della fine.
Perverrà pur quello che sull’albero,
novelle e verdi ancora nasceranno
La vita resta! C’è chi viene e chi va.
Il neonato Settembre i suoi bei frutti
recherà. Perché la vita ha un cuore che,
pulsa e vibra e freme, senza morire!
SERENELLA MENICHETTI
Accetto il regolamento, sez. a
COTTO E MANGIATO
Si chiamava Pasquale Smerigli, amava gli animali e pure i figli, mi piaceva l’idea che fosse vegetariano, lo sentivo sensibile, puro, rispettoso e umano.
Disdegnava assolutamente qualsiasi materiale o tessuto in pelle animale, per lui, solo fibra sintetica e vegetale.
Me ne resi conto quando gettò nell’immondizia, peraltro senza un briciolo di mestizia, le bellissime scarpe di pelle pura, che mia madre, “un po’ dura” gli aveva regalato per il nostro matrimonio, non sto a dirvi quale fu il pandemonio. Io l’avevo avvertita, ma con l’età, lei, era un po’ partita.
Le verdure in pinzimonio che la mia dolce metà rumorosamente sgranocchiò durante il pranzo, evitando la bistecca di manzo, si sbrodolarono sulla camicia di non seta, mentre io tranquilla e cheta lo guardavo estasiata, anche quando sulla cravatta cadde tutta l’insalata. A dir la verità feci l’indiana, mi sentivo spartana, “e poi quella cravatta gialla assomigliava tanto ad una banana.” O forse lo era.
Quel giorno di primavera, fu per me esperienza piena e vera. Il banchetto si trasformò in una fiera. La nonna mia acquistata, non proprio una fata, con questo non voglio dire fosse una strega, ma nemmeno una nonnina che prega, tracannò 23 calici di vino, di quello sopraffino e si ubriacò per benino. Io per non esser né ladra né spia le feci compagnia.
Nella più totale inconsapevolezza ed innocenza anche se qualcuno insinua che fosse invece sprovvedutezza, si presentò l’ebbrezza e persi la pazienza.
Epicurea, in barca a vela, tirai pure una mela, e la torta alla panna vegetale, cadde rovinosamente sullo smoking di un conoscente, un vero naufragio!
Poi adagio, e del tutto delirante mi feci pure tre bottiglie di spumante, finché sfilando dalla mano il brillante lo lanciai al vegetariano, che tutto ad un tratto mi apparve strano. Non mi sembrava più nemmeno affascinante, e poi vegetariano non è gratificante, nemmeno interessante, allora lo colpii sul naso, forse gli ruppi un vaso. Quell’epistassi secondaria, mi fece prendere una decisione arbitraria.
Avallata da una voglia animale e per niente razionale al cameriere ordinai tre coniglietti arrosto ed un maiale. Mentre gustavo a tre palmenti i lombi di conigli e il codino del maiale, il vegetariano Pasquale Smerigli, amante di animali e figli, coniuge mio adorato, emise gran lamenti, rimase senza fiato, sembrava esalasse l’ultimo respiro, quando un urlo disumano, preceduto da un sospiro, si sparse nella sala, spazzando via la serata di gala.
Dopo calmatosi rimase in silenzio, versando lacrime a fiumi disperato, tanto che la bella tovaglia di lino s’impregnò di liquido salato.
Poverino? Chi l’ha detto! Perché mai? È un inetto!
E non sopportando l’uomo che frigna, per dispetto diventai maligna, dopo quel fatto, al solito cameriere ordinai addirittura un gatto. In salmì cucinato e per contorno gabbiano brasato.
Dopo aver ben mangiato, chiamai l’avvocato, per motivi ovvi e comprensivi con ragione, chiesi e ottenni la separazione.
Si era fatto tardi, allora dalla mia barca a vela che ondeggiava sempre di più ordinai ai presenti di rompere gli ormeggi, aggiungendo – presto prima che albeggi! –
E se dico che quel giorno fu un’esperienza vera, non certamente è una chimera.
Lo scrisse anche il giornale locale “Nello stesso giorno sposati e separati, un vero guinness dei primati.”
Eppure: c’eravamo tanto amati.
SERENELLA MENICHETTI
Accetto il regolamento, sez b
SUL TRONO DELLA FELICITÀ
Ho sognato il deserto
Sabbia ed ancora sabbia
per miglia e miglia
Ero il Re della desolazione
Danzavo
sulle miserie accecanti
di polvere e fango
e riuscivo a struggere
il riverbero del sole
innalzando le mie braccia al cielo
Gridavo al deserto
brama di libertà
Nessuno
mi giudicava o mi feriva
Ero sul trono della felicità
Saverio Giannini
Sez.A
Accetto il regolamento
IL RICORDO PIU’ BELLO DELLA MIA VITA
Una sera mi trovavo in riva al mare
e pensavo alla solitudine
che mi circondava
solo sempre solo
e le lacrime scendevano
sulle mie guance.
Poco lontano da me seduta
sulla sabbia c’eri tu
assopita nei tuoi sogni ad occhi aperti.
Mi avvicinai e nulla ti chiesi
tu ti voltasti e ti abbracciarti a me
pensando di avere vicino a te
l’uomo che amavi
ti lasciai fare perché in quel momento
eri felice, ed anch’io lo ero.
Dopo tanti anni,
con i miei capelli bianchi
ritorno in riva al mare
sperando di trovare
una vecchietta che mi dica:
“Ti stavo aspettando
per venire con te nel mondo di tutti
perché su questa terra
non ho fatto altro che soffrire”.
Sez. A – Accetto il regolamento
MIGRANTE Sezione “A”– poesia
Sulle ali del vento ho viaggiato,
oltre confini e mari ho sognato.
La mia anima, un migrante errante,
tra culture e lingue ho danzato.
Ho portato con me il profumo di casa,
le radici profonde, l’antica traccia.
Nelle notti stellate ho pregato,
per un futuro migliore ho lottato.
Le strade asfaltate e i binari di ferro,
hanno segnato il mio cammino sincero.
Ho visto volti nuovi, sorrisi e lacrime,
nel cuore ho custodito ogni loro nome.
E quando il sole tramonta oltre l’orizzonte,
mi ritrovo solo, ma non disperato.
Sono un migrante, un viaggiatore dell’anima,
e in ogni passo trovo un nuovo inizio.
Così, tra le pieghe del tempo e dello spazio,
scrivo la mia storia, con coraggio e abbraccio.
Sono un migrante, un’anima senza confini,
ma nel mio vissuto trovo la bellezza dei destini.
Accetto il regolamento — Sezione “A”
OLTRE QUEL MURO Sezione “B”
L’inutilità dei “muri” è evidente (da quello di Berlino sino al muro col Messico) tuttavia questo muro diviene il simbolo non della divisione, ma del dialogo. Basta una palla per far rimbalzare la possibilità di un incontro, di un’intesa che va oltre le barriere. Il buco dal quale il piccolo Jusuf vede la realtà con i propri occhi gli consente di cambiare opinione, di capire molto di più di quello che gli avevano fatto credere, e se c’è una “palla” da giocare va giocata sino in fondo per rimediare le incomprensioni e le avversità che la storia ci consegna.
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Quel muro così alto, imponente e freddo era l’ultima immagine che Jusuf vedeva prima di uscire dalla propria scuola. L’edificio scolastico del piccolo villaggio di ‘Anata, situato nella zona nord di Gerusalemme, pochi mesi prima, era stato tagliato in due da una barriera di cemento come ritorsione contro gli ultimi attacchi suicidi avvenuti in territorio israeliano.
Mentre dal lato palestinese erano state relegate le classi, il cortile con il campetto da gioco era stato rinchiuso in territorio israeliano, impedendo ai piccoli alunni di godersi quei pochi momenti di spensieratezza giornaliera.
Jusuf, dopo che la campanella aveva suonato la fine delle lezioni, restava immobile di fronte a quel muro per diversi minuti. Lì davanti le immagini delle partite a pallone giocate insieme ai compagni di classe e vissute fino a poco tempo prima gli scorrevano veloci nella mente.
Era difficile per un bambino capire perché un’assurda guerra tra due popoli potesse spazzare via anche i giochi più innocenti di piccole creature estranee a questa crudeltà.
Le ore passate a giocare nella scuola erano state un buon diversivo per tutti i bambini, un piccolo aiuto per poter dimenticare, anche se solo per poche ore, le atrocità della guerra. Da tempo purtroppo non esisteva più neppure quest’ancora di salvezza.
Jusuf, come per ricordare quei momenti felici passati rimaneva volentieri in silenzio nel piazzale della scuola con lo sguardo nel vuoto. Anche quel pomeriggio, come ogni pomeriggio, la campanella aveva dato il via libera agli studenti, e come ogni giorno Jusuf prima di andare via, fece visita a quel muro: il suo personale album di ricordi. I pensieri gli frullavano nella mente come una partita a ping-pong, ma lo rendevano sereno, e questa era la cosa più importante per lui.
Era tardi, Jusuf voltò le spalle alla barriera di cemento incamminandosi verso l’uscita, ma dopo alcuni passi dei tonfi sordi rimbombarono nel cortile e immediatamente nella sua mente.
Il bambino si fermò di colpo. Altre volte aveva sentito botti simili, scoprendo poi purtroppo che erano partiti da fucili nemici. La paura di camminare lo attanagliò ancora e restò con le orecchie dritte in attesa di altri rumori. Non ne sentì altri e, dopo un attimo, con suo grande stupore, si ritrovò tra i piedi una vecchia palla di cuoio. Rimase incredulo.
La prese in mano con gioia infinita ma con molta diffidenza allo stesso tempo.
Si girò verso quel muro che aveva partorito quel regalo inaspettato e immediatamente si immaginò dall’altra parte della muraglia un bambino bisognoso di giochi come lui.
Abbracciò con forza quella palla goffa e dura, ma magica. La voglia di portarla a casa fu forte ma, subito dopo, il desiderio di scambio e la voglia di andare oltre le barriere lo portò a lanciarla dall’altra parte.
Attese qualche minuto senza rivedere la sfera e pensò che forse era stato solo un sogno; il bambino oltre la barriera si era ripreso il proprio gioco.
Poi di nuovo quei rimbalzi sordi, la palla era tornata nuovamente da Jusuf, la figura misteriosa aveva deciso di giocare ancora con lui.
Altri lunghi passaggi, sia da una parte che all’altra del muro, furono scambiati tra i due palleggiatori improvvisati. Jusuf era al settimo cielo, da mesi non si sentiva così felice, ed era bastata solamente una vecchia palla di cuoio.
Quella sera il piccolo scolaro tornò sereno a casa, e più tardi del solito, tenendo per sé il segreto del suo nuovo amico. Il giorno seguente la campanella della fine delle lezioni suonò come al solito, alla solita ora, ma per Jusuf fu un suono diverso; era il segnale dell’ora di gioco da lui tanto attesa.
Nessuno dei suoi compagni era stato messo al corrente della novità, e lui era in trepidante attesa di nuovi scambi di felicità. Aspettò che tutti gli alunni avessero varcato quel cancello arrugginito e, riprendendo la vecchia palla di cuoio, la lanciò di nuovo oltre quel muro.
Il cuore gli batteva forte, restò con la testa all’insù per alcuni secondi nella speranza di riabbracciare la sfera magica. Un attimo dopo la visione di quella boccia roteante che oltrepassava il cemento gli fece sgranare gli occhi e allargare il cuore. Jusuf la bloccò senza farla rimbalzare a terra, afferrandola come un portiere di consumata esperienza. Da quel momento Jusuf non vedeva l’ora di arrivare all’orario d’uscita per poter continuare quei magici passaggi, mentre la felicità di aver trovato un amico di giochi gli aveva fatto passare in secondo piano la curiosità di sapere chi ci fosse al di là del muro. I giorni scorrevano veloci e sereni per il piccolo scolaro facendogli scordare, anche se solo per alcuni momenti, la cattiveria della guerra.
Ma un giorno, un lancio più forte del solito, arrivato dall’altra parte, fece andare la palla di cuoio più lontano, sul lato destro del muro, ora diventato sempre meno freddo per Jusuf.
Lui si lanciò di corsa per andare a riprenderla e chinandosi notò una piccola fessura nel cemento. In un attimo quella curiosità nascosta da sempre si fece spazio nel grembo di Jusuf e la voglia di sapere chi fosse il suo misterioso amico si fece fortissima. Jusuf prese la palla lanciandola oltre la muraglia, poi si avvicinò con cautela, curiosità e timore nello stesso tempo al ruvido muro.
Avvicinò l’occhio alla piccola spaccatura e sbirciò da quella fessura.
La pupilla per un attimo rimase incollata al cemento, il cuore cominciò a battergli forte e un forte tremolio gli attanagliò le gambe. Rimase di sasso; non credeva ai propri occhi. Davanti a lui un uomo in divisa da combattimento con un distintivo delle Forze Armate Israeliane teneva in mano quel pallone di cuoio, pronto a rilanciarlo dalla parte di Jusuf, mentre un raggio di sole, che si era fatto spazio tra le nuvole, risplendeva sulla canna di un grosso fucile che il soldato teneva sulla spalla.
Jusuf non sapeva cosa fare. Si rese conto che da molti giorni stava giocando con un nemico e non con un piccolo compagno di giochi, come si era sempre immaginato. Avrebbe voluto scappare via di corsa, ma quella palla era troppo allettante per buttare tutto al vento. Pensò che in fin dei conti fino a quando non aveva conosciuto il suo amico palleggiatore si era divertito, sentendosi felice.
Tutti gli avevano sempre ripetuto che oltre quel muro ci sono i nemici, che sono persone cattive e vanno sempre evitati.
Ma perché un freddo muro poteva e doveva decidere chi era il nemico e chi era l’amico?
In quei momenti il piccolo scolaro arabo si fece mille domande cercando qualche risposta, poi si chinò nuovamente per riprendere la palla appena tornata sul proprio campo, l’afferrò con forza e la lanciò oltre quella barriera di cemento, restando in attesa di vederla ritornare. Fu contentissimo quando la vide arrivare di nuovo dalla propria parte, e pensò che un muro non poteva riuscire a soffocare quello che di buono c’è dentro ogni essere umano.
Jusuf prese la palla in mano, fissò quella parete così alta pensando che chiunque ci fosse stato dall’altra parte e gli rimandava la palla era un suo compagno di giochi, e questa era la cosa più importante per lui.
Ripose la vecchia palla di cuoio con cura nel suo solito nascondiglio notturno e se ne tornò felice a casa senza dire nulla a nessuno, in attesa di tornare domani, finita la scuola, a rilanciarla nuovamente oltre quel muro al suo sconosciuto amico compagno di gioco.
Accetto il regolamento Sezione “B”
Passi di vita
Ambiziosi sogni
con ago e filo rammendati
treni persi e disillusione
il cuore non demorde
prendi in mano gli scampoli
intreccia esili fibre
indossa l’armatura
tessendo la tua trama
La mappa del cammino
cambia e ti cambia
e tu, camaleonte
stringi una sacca
di vita vissuta
scrivi nuovi racconti
dirigi la tua vela
verso nuovi orizzonti
©️ Laura Dessì
Sezione A – poesia
ACCETTO IL REGOLAMENTO
Sez.B
ACCETTO IL REGOLAMENTO
“UN ALTRO DOMANI ”
Nina. Il mio nome. A volte mi sembra un nome così banale, privo di personalità. O forse sono io: anonima, priva di personalità ? Ho35anni e da qualche giorno sono nuovamente disoccupata. Per mia scelta. Perché qualche mattina fa , mi sono svegliata e mi sono accorta che ero infelice, delusa, annoiata. Ma può una donna, madre, con tante responsabilità mollare il proprio lavoro per “infelicità “?
La risposta è ovvia, scontata. È si!
Vivo la giornata ma in totale funzione del futuro, ma in questo modo ho dimenticato la mia felicità. E se io sono infelice, rendo infelice tutti coloro che mi stanno attorno. Non posso permettermi questo .
Ho sempre lavorato duramente, ho fatto rinunce e sacrifici, come tanti di noi. Siamo giovani, ma non siamo la generazione che viene identificata come impreparata. Abbiamo avuto meno possibilità forse? Non si capisce. Ma la vita non regala nulla, e questo a momenti è un imput a far di più. E così eccomi , nella mattina seguente alla mia decisione. A rimuginare su una scelta ponderata, ma complicata. Dentro di me, dentro Nina , so che rinunciare ad un lavoro che mi stava destabilizzando è stata la scelta corretta. So che dopo le tempeste arriva l’arcobaleno. Ma quanto durerà questa tempesta? Quanti scalini in salita mi si presenteranno?
Quante domande, Nina. Hai sofferto, soffri e soffrirai. Ma non mollare. Non mollare Nina. Sorridi a te stessa, sii positiva. Vedrai: un altro domani è ciò che meriti.
STELLE DI CARTA VELINA
Se un addio spostato più in là
procrastinabile invito
lascerebbe le cose defluire
da uno sfogo diverso
nell’imbuto di clessidre smarrite
rigirate a rovescio
a guardare lo specchio con l’aria
di chi non ha capito
le sue nere ciglia ammalianti
mascara perplesso
e i silenzi di lui compensati
dagli occhi di pane
futuribile eco
di eventuali cadute in amore…
Fosse solo dormire aggrappati
alle grinfie dei granchi
sulle panche notturne
di qualche estranea stazione
viaggiatori del tempo derisi
come oggetti scaduti
dati in pasto alle fauci accanite
di passanti di ghiaccio
che calpestan l’addio disperato
con il muso ingrugnito
di chi proprio non vuole rendersi conto
che un ventriloquo muto
e una Donna Canone smagrita
non han più niente da perdere
né domande da fare
del loro amore si fidano
si tengon stretta la mano
mentre volano via nell’incendio
blu di stelle di carta velina…
Sezione A
ACCETTO IL REGOLAMENTO
Ma quel ‘lascerebbe’ è un errore voluto o non ho capito niente?
IL FRASTUONO ABITUA IL CUORE
Se il ricordo resta macigno
Se la libertà resta sogno
Se la sofferenza spezza
Il pianto deforma la delicatezza
Il silenzio annienta il rumore
Il frastuono abitua il cuore
Mai un perdono
Mai un abbandono
Ti fermi a studiare il passato
Ti fermi a disegnare il futuro
Ti fermi a ripudiare il presente
Se la storia insegna
Se l’odio sdegna
Nessun racconto potrà mai soddisfare la fame di giustizia.
Nessun racconto potrà mai saziare la fame di ragione.
Nessun racconto potrà mai ricostruire un tempo distrutto.
Federica Abozzi
Sez.A (accetto regolamento)
Il Corvo
Ed in quel suo viso dipinto
Rividi l’amore
…
La sua casa
Una funerea pietra divelta
Il suo spirito
Un guardiano senza ombra
Attraverso le linee temporali di questa esistenza,
Come un corvo che non si dà pace,
Incespicando tra la vita e la morte,
Tra il bianco e il nero,
Tra l’essere e l’esistere…
Lui vive.
Vive senza pace, finché non spezzerà la mano di colui che recise il fiore puro del suo giardino.
Come cadere
Per rialzarsi
Come piangere
Per sorridere ancora
Come urlare
Per poter accarezzare un’altra volta…
Alzo lo sguardo al cielo e
Questa pioggia che cade
Laverà via ogni dubbio
“Non può piovere per sempre”
#antonellachiego
(Il mio modo di rendere omaggio a quello che è stato, è e resterà per sempre l’unico vero “Corvo” del cinema )
Antonella Chiego (sez A, accetto il regolamento)
Ignazio Salvatore Basile per la Sezione B
Tziu Efisinu e gli Efisiopratici
Tziu Efisinu non era mio zio ma tutti, in paese, lo chiamavano così. Anche mio padre. All’epoca mio padre aveva impiantato una piccola vigna dietro casa e si era comprato tutta l’attrezzatura per ricavarne il vino. Tziu Efisinu veniva ogni anno a casa mia, ben prima che iniziasse la primavera, per la potatura delle viti che mio padre gli aveva affidato. Era più grande in età di mio padre e aveva fatto le campagne d’Africa. Arrivava al pomeriggio e io me ne accorgevo perché dalla mia stanza, dove mi dedicavo allo studio delle materie della Terza Ragioneria, lo sentivo fischiare “Se potessi avere mille lire al mese” oppure anche “Come pioveva” o altri brani, meno conosciuti, di un’epoca e di una terra lontana che a volte egli riferiva al suo servizio militare, prestato in Africa .
Un giorno lasciai i miei registri di partita doppia e gli esercizi di computisteria, che invero mi appassionavano assai meno di altre materie, e lo raggiunsi.
Dopo aver risposto al mio rispettoso saluto, senza che io gli chiedessi nulla, prese a spiegare.
«La potatura si fa prima che inizi la primavera. Soltanto i fannulloni aspettano che canti il cuculo, onde iniziare la potatura».
Aveva un modo aulico e antico di parlare l’italiano, non scevro da esagerazioni e forzature che lo portavano fatalmente all’errore. In paese era considerato uno “studiau” che indicava uno che si ergeva sopra la maggioranza di analfabeti che costituivano la stragrande maggioranza dei suoi compaesani dell’epoca. Aveva infatti frequentato la sesta classe dei corsi di avviamento e, per uno nato alla fine del secolo precedente (e quindi nell’ultimo decennio del diciannovesimo secolo) non era poco, considerando che la maggior parte dei suoi coetanei, nel migliore dei casi, si era fermato alla seconda elementare. Il suo eloquio era infarcito di avverbi, quali contemporaneamente (che alternava e, spesso, affiancava, alla circonlocuzione “nel medesimo tempo”), dimodoché, eziandio, acciocché e via elencando, e li sparava a ripetizione nel discorso. Tra un avverbio forbito e l’altro mi spiegò che aveva imparato a potare nella scuola di avviamento che aveva frequentato fino alla sesta classe.
«È tutto un gioco ripetitivo e sostanziale di grilli e bacchette» mi disse accingendosi a potare una nuova vite.
«Occorre individuare nella pianta “sa carriadroxa”, cioè la bacchetta, quella pertica o ramo che porterà il frutto l’anno prossimo e, nel medesimo tempo, cioè, contemporaneamente, bisogna individuare “su pudoi”, cioè il grillo, quello spuntone, quell’accenno di ramo che l’anno prossimo sarà la nuova bacchetta. Hai capito?» mi chiese distogliendo gli occhi dal lavoro. Intuii che doveva avere la vista debole perché lavorava con il viso affondato in mezzo ai rami della vite.
«In realtà non sei tu a scegliere; è la pianta stessa, nel medesimo tempo, a dirti la soluzione migliore. Ovviamente tale risultato lo si acquisisce in virtù dell’esperienza. Nel senso che nessun libro può spiegartelo. È la tua esperienza che ti fa capire quale sia il ramo migliore per la bacchetta e quale quello destinato a divenire il grillo.»
Quando apprese che avevo iniziato a studiare l’economia politica mi chiese se conoscessi una scuola di pensiero che si chiamava degli “Efisiopratici”. Alla mia espressione smarrita, più che sorpresa, mi chiese di elencargli le scuole di pensiero che mi aveva insegnato il mio professore. Ricordavo l’elenco che lo scrupoloso insegnante di discipline giuridiche ed economiche dell’Istituto Tecnico Commerciale per Ragionieri “Leonardo da Vinci”, dove io appunto frequentavo la classe terza, ci aveva schematizzato alla lavagna e glielo riferii, iniziando con il Mercantilismo, proseguendo con i Fisiocratici, per continuare con il Liberismo, il Marxismo, il Keynesismo e, così via, sino ai Neoliberisti del secolo in corso. Mi ascoltò con interesse e poi disse riprendendo quella sua cernita meticolosa di grilli e bacchette da modellare.
«Gli unici che hanno detto la verità sono i Fisiocratici. Anche se io scherzando, per farmi più grande davanti ai miei compaesani ignoranti, e per fargli venire un po’ di rabbia, li chiamo “Efisiopratici”. Efisio infatti sono io e la pratica è l’unica cosa che conosco, eziandio disconoscendo la relativa teoria. Il succo della questione è che sono soltanto gli agricoltori a produrre la ricchezza. Tutte le altre categorie di lavoratori sono degli emeriti fannulloni. Invero la ricchezza proviene dall’agricoltura, il settore unico e primario! E dirotti, vieppiù, che in ambito agricolo è la viticoltura il vero asse portante!»
Rafforzato da questa conferma e contento di avere appreso i rudimenti della potatura, progredii alquanto negli studi, sino al diploma e poi all’Università.
Non ho mai dimenticato quelle improvvisate lezioni di tziu Efisinu e qualche volta le ho persino messe in pratica.
E comunque ogni volta che gusto un goccio di buon vino, mi sovviene quel caro vecchio dei bei tempi andati.
Sezione B – Accetto il Regolamento
IL FANNULLONE
Forse io ero un fannullone
Sin da quando bambino
Sognavo di girare il mondo;
Sì, io dovevo essere proprio un fannullone
Perché non pensavo allora
Di impiegare il mio tempo sulla terra
A fare soldi, a cercare il potere,
il successo, la carriera.
Da buon fannullone
Non ho mai dato neppure grande importanza
All’apparenza, all’eleganza,
alle auto di lusso.
E quando cercavo nella luce delle aurore e dei tramonti la verità
E quando credevo che i poeti fossero i migliori
E quando sognavo di volare
Io ero un fannullone.
Poi, quando ho scelto di dare a nolo allo Stato
Il mio diploma di laurea
Convinto che la società avesse bisogno di modelli,
di esempi, di libertà, di fantasia, di idee, di passioni
e quando talvolta mi lasciavo sopraffare
da vulcanici ormoni in eruzione
io ero un fannullone.
Ed ero certamente un fannullone
Anche quando, pur secondo legge,
preferivo l’amore, la dedizione, l’affetto
che nessuno conteggia nel Prodotto Interno Lordo!
Infine quando sceglievo di considerare più importante
L’essere dell’avere,
il pensare rispetto al fare,
il meditare piuttosto che l’agire
io ero un fannullone.
Ed ora che ho scoperto la parte migliore della vita,
Che non mi verrà tolta,
persisto e sono sempre
un fannullone!
Ignazio Salvatore Basile per la Sezione A
Accetto il Regolamento
Accetto il regolamento(Sezione a)
La vita
Resuscita
lucida
storia fino
all’ossuta porta,
spereremo
ancora,
coi segni della fine temuta
muta andare nel posto
dove il rumore dell’astuta
carne ala della vita
finisce mite ahi gli spari agita
vetusta e infinita.
Follia.
Rinchiusa
in un chicco di grano
lasciato a macerare
nella follia del dire,
per rendere folle
la mia resilienza
tra immagini reali
e spettri onnipresenti
tra le parole
costruite
su fili di plastica fusa
tra le didascalie
della mia libertà
nella prigione
immaginaria
della mia pazzia.
Debole la mia mente
nell’esprimere
il mio sentimento.
Pazzia!
Racchiusa nella perfezione
d’un granello di sabbia
disperso
su dune dorate
trapassato dal vento
della ragione.
Pazzia!
Avviluppante
sensazione di libertà
appari
nell’immagine
decrescente
della mia serenità
rendendo friabile
il mio esistere
amalgamandolo
al lievito
della mia stupefacente
follia.
Accetto il regolamento
Sezione A poesia
Michela De Martino
Rinchiusa
in un chicco di grano
lasciato a macerare
nella follia del dire
per rendere
folle
la mia resilienza
tra immagini reali
e spettri onnipresenti
tra parole
costruite
su fili
di plastica fusa
tra le didascalie
della mia libertà
nella prigione
immaginaria
della mia pazzia.
accetto il regolamento, sez. a
Ultimo fiume selvaggio
Sei acqua, sono acqua.
Vorrei essere acqua.
L’ acqua che ora mi passa vicino
nel tuo abbraccio al mare.
Assaporo quel tuo essere
“celtica sorgente d’acqua “,
quando una goccia
perforando la terra nell’umido bosco
ha chiamato a sé altre gocce
scivolando lentamente nella sua discesa al mare.
“Ultimo fiume selvaggio”
racchiudi storie di umani che come te
attraversano i luoghi vivendoli e amandoli
senza turbare quanto la natura dona loro.
Sono goccia che scivola in te
baciando le rive popolate di arbusti
dalle radici immerse nella tua linfa.
Salto lambendo con te ciottoli che sfidano
la gravità nelle opere di artisti.
Vivo le atmosfere create, con dipinti o sculture,
da chi ridà vita agli antichi manieri
sparsi lungo il tuo cammino.
E così mi piace vivere
ricordando altri fiumi ed altre acque
che fecero di me ciò che sono.
Acqua sono acqua e tu sei la mia ultima acqua.
Marinella Beltramini Rosin sez. A accetto il regolamento
L’orologio segna pioggia
Ho visto milioni di bambini
andare turbinosi
verso mari biancheggianti,
moltitudini che danzano
come fossero nugoli di farfalle impazzite
o api assetate di fiori estivi.
Perdetti il sale
benché senta riecheggiare
le parole del Maestro:
voi siete il sale del mondo
ma se il sale perdesse il suo sapore
con che cosa lo si potrà rendere salato?
a null’altro serve
se non ad essere gettato via
e calpestato dalla gente.
Eppure rimembro ancora i bambini
e i loro sogni struggenti
ora che i miei giacciono inerti come foglie
in attesa del vento.
Oh, il vento, mi riporta piano
le migliaia di mani
che andavano a caccia di lucertole
e finivano sempre
per raccogliere conchiglie
nei lidi baciati dalle nuvole accovacciate
dove si respira salsedine a tempeste.
Scende ancora dall’azzurrità
e dalle trecce del sole
questo melograno di pargoli,
bambini a frotte
come in un cielo notturno le stelle
tornano a placare il silenzio e le ombre
d’un antico pianto. Piove.
Sez. A – Accetto il regolamento
Noi
Noi siamo incompiuto
Non una lacrima sbocciata
Non un profumo da ricordare
Noi non ne abbiamo diritto
Nemmeno di dircelo
Nemmeno di volerlo
Noi siamo incompiuto
Ed in quel niente esistiamo
Ognuno con i propri sogni
Ognuno con le proprie arroganze
Esistiamo per non vivere
I flebili fili sono ricordi
Volontà. Illusioni. Desideri. Speranze
E le tue parole. Ed i tuoi gesti
E le mie parole. Ed i miei gesti
Noi siamo incompiuto
E forse non lo saremo mai
Sez. A
Accetto il regolamento
Calda estate (filastrocca)
Quando siam in piena estate
son più calde e son più afose le serate
quattro volpi or che è buio vanno a spasso
ma le rane nello stagno fanno chiasso.
Ogni lucciola a un ramo pare appesa
e la luna, dentro al lago è quasi scesa.
Solo un fungo si riposa sotto al pino
mentre l’orso cerca ancora il suo cuscino.
sezione A – accetto il regolamento
Dove le cose non hanno senso
C’era qualcosa tra Miranda e Karen,
lo notavo da come si sfioravano la mano,
dal modo in cui si scambiavano sorrisi e sguardi.
Miranda era una delle più grandi mistiche
che avessi mai conosciuto;
Karen, nutriva una forte riverenza per la sua amica.
Ci trovammo soli ai piedi di Hanging Rock,
Miranda alzava gli occhi al cielo sempre un secondo prima
che gli stormi di uccelli le sorvolassero il capo,
anticipandone il movimento.
Era la creatura più antica che avessi mai incontrato
e Karen… beh, Karen lo aveva capito.
Mi chiamavano dolcemente “Miro” e più che innamorato
ero rapito da entrambe quelle fanciulle
di diciassette anni.
Quando stavo con loro sprofondavo
in un silenzio attonito,
erano quel genere di anime che schiudevano porte.
Porte interdimensionali.
Cavalcavano la morte con una grazia
profondamente naturale.
Gli orologi si fermarono e la mia mente si aprì
a dimensioni atemporali.
Miranda spostava lo sguardo nella direzione
in cui gli animali transitavano,
ma lo faceva sempre un attimo prima che accadesse.
“Devo essere io ad anticipare la morte
e non il contrario,
devo avvertirne il profumo, la fragranza,
prima che questa si dissolva”,
disse spostando lo sguardo in direzione del cielo,
poi riprese,
“È questione di un attimo
e quella fragranza non c’è più,
ecco perché la natura sembra impazzire di gioia intorno a noi,
essa è ammantata dalla grazia dell’attesa”,
e terminò dicendo:
“Il culmine della grazia è la morte.
L’Oscura Signora pervade ogni nostro istante,
ne è l’artefice e la continuazione.
Ne è la fine”.
Nei suoi occhi c’era un’eccitazione infinita,
e dava l’impressione che fosse l’unica ragazza al mondo
che sapesse come vivere e come morire.
Ella aveva fiutato il suo momento.
Sapeva che Karen sarebbe tornata indietro
ma che non avrebbe parlato,
dacché non è possibile parlare dell’ineffabile,
di ciò che è potentemente ignoto,
inconoscibile.
Risalimmo la roccia in balia del destino.
Gli orologi fermi da tempo.
“Noi ascendiamo al di sopra degli angeli e al di sopra di Dio,
dove le cose non hanno senso”.
Disse guardandomi negli occhi.
Io vidi nei suoi, lo struggimento supremo.
Lambimmo il limite della vita.
Quelle parole, però, erano già oltre quel limite.
Penetrammo l’anima sghemba della natura,
coi suoi aneliti ascensionali e la sua anarchia atemporale,
il suo caos primordiale.
Profondammo nell’inferno e risalimmo fino al superno,
sede di diavoli e dèi,
sfiorando col senno l’Oltre,
travolti dal paradosso della totale assenza
di un principio e una fine.
Mi sentii risucchiare dentro un centro profondissimo,
un abisso fatto di alberi, di rocce e di uccelli,
di ruscelli che scorrono, di arterie, di sangue, di lune e di cieli,
di stelle e scoiattoli;
nulla di tutto questo aveva senso
eppure venni invaso da una gioia infinita.
“Noi ascendiamo al di sopra degli angeli e al di sopra di Dio,
dove le cose non hanno senso”.
Miranda scomparve per sempre.
Attraversò una fenditura nella roccia e scomparve.
Karen venne ritrovata dopo qualche giorno
chiusa in un mutismo
che neppure una vita intera di tentativi
da parte di professionisti
riuscì a scavare.
Era immisurabilmente sgomenta,
come il silenzio intorno all’ultima stella del mattino,
come il primo raggio di luce
che tocca la terra fredda nei mattini d’inverno,
come le case avvolte nella nebbia,
come gli occhi immacolati di una creatura che nasce.
Ogni istante si ripeteva in lei lo stesso miracolo.
Non era possibile decriptare quel codice.
“Noi ascendiamo al di sopra degli angeli e al di sopra di Dio,
dove le cose non hanno senso”.
Fabio Soricone – Sez. B – Accetto il regolamento
Racconto dedicato a Peter Weir e al suo “Picnic ad Hanging Rock”
Mi perderò, naufraga, senz’altro
(Per tutte le anime migranti)
Mi perderò, naufraga, senz’altro
tra queste rive ricucite di stanchezza,
su sponde bianche che respirano di sale
mentre i gabbiani inseguiranno l’infinito.
Non ho più scarpe ad incidere cammini
e la mia sabbia ha smarrito il suo colore,
è scuro e fitto il fondale del mio mare
ed io veleggio in un oceano di sconfitte.
Mediterraneo è il sogno che ci unisce,
seguiamo stelle in notti opache senza luna,
cercando albe sfregiate e sconosciute
sotto la pelle, come grani di speranza.
E mi riveste un cielo imbastito di turchesi
per comprare il mio passaggio sotto il sole,
tra perle e lacrime preziose come un manto
che protegga il mio risveglio nell’aurora.
E mentre vago controvento tra le onde
sento l’abbraccio della luce che mi attende
e la mia mano stringe forte proprio Dio
e poi mi perdo dolcemente in questo mare.
accetto il regolamento, sez. a
NOTTURNO
Per miliardi di anni, la Terra è stata silenziosa. Poi gli animali hanno iniziato a fare baccano.
Sì, dopo eoni nei quali il pianeta ascoltò soltanto le voci della pioggia, del vento e delle onde, inaspettatamente comparve … il frastuono della vita!
Sul limitare del bosco, ore venti della sera.
Il gracidio di una rana, l’ululato del lupo, lo zillare di una cavalletta. Frastuono.
Frastuono? Maldestro rumore che disturba o musica che rompe il silenzio?
Una rana che tenta di accordare le sue note al tintinnio della debole pioggia che lava le foglie; un giovane lupo che cerca di comunicare alla luna la propria esistenza; una cavalletta che vuole gridare il suo amore per il suo compagno. Il vento, intanto, effettua uno slalom tra gli alti alberi, accarezzando i larici e sfiorando faggi e pioppi. Un grosso alce calpesca, correndo, l’erba che cresce.
Nel sottobosco, brughi e ciclamini osservano attenti una lontra che guida, premurosa, i suoi piccoli al sicuro verso la tana. Le gocce donate dal cielo riflettono la moltitudine dei fusti agghindati da splendidi rami.
Interno del bosco, verso mezzanotte.
Il soffio del barbagianni, il sibilo dei serpenti e un furetto che potpotta. Fracasso.
Fracasso? Stonata rapsodia o sintonia di voci che accompagnano il silenzio?
La pioggia si placa addormentandosi, la luna ha vinto la battaglia: ormai si staglia nel cielo sempre più terso. Il saggio barbagianni si annoia, due serpenti intrecciano amorosi sensi, un furbetto furetto veloce si nasconde tra un frassino alto 20 metri e un tiglio vecchio di 500 anni.
Le querce, gli aceri e gli olmi respirano quieti la fredda aria della notte. Un biacco invece soffia in direzione di un pino, mentre da questo un grappolo di pinoli, mosso dal vento, atterra sul suolo ornato da biancospini e gerani. Un pipistrello è in agguato.
Il lago al centro del bosco, le quattro della notte.
Il gufo che bubola, un orso che ruglia, lo squittìo dello scoiattolo. Rumore.
Rumore? Clamore disordinato o perfetta disposizione di note?
Il gufo è attento, all’erta, appollaiato su di un enorme castagno. L’orso passeggia indispettito, calpestando le clematidi e i ligustri, furente verso il mondo intero. Un giovane scoiattolo, atterrito dal plantigrado, si lamenta senza tregua mentre un ghiro annusa incuriosito un riccio chiuso su se stesso.
Sullo sfondo, indolenti, stanno robinie, betulle ed ontani intenti a succhiare dal’umido terreno linfa vitale.
Onde sonore trasportano la voce di un tordo che gruga. Più in là, ancora più in là, un alacre castoro si tuffa nelle nere acque, con un tonfo. Un pettirosso chioccola lamentandosi di una zanzara che zufola e ronza.
Voci nella notte: una arcana bellezza.
Un nuovo giorno si sveglia, le sei del mattino.
Un allocco che bubola, il trillo dell’allodola, una tortora che tuba. Fragore.
Puro e semplice fastidio od orchestra sapientemente accordata?
Il sole dà il cambio alla luna. Un’esplosione di luce.
E una esplosione di voci: la risata del picchio verde, un cinghiale che grufola, il bramito di un cervo e il gorgheggio dell’usignolo, lo zirlo del tordo e il gracchiare del corvo, un capriolo che rantega e una volpe che guaiola, il bombire dell’ape e il frinire delle cicale, il fischio della marmotta e della poiana, un’altra volpe che gannisce, un gorgheggio di una capinera e il gracchio della cornacchia, il chioccolio di un piccolo merlo insieme allo stridio della gazza.
Si desta la foresta, dove di giorno c’è posto per alcune cose e di notte c’è posto per altre, ma dove per la bruttura non c’è posto né di giorno né di notte.
Dalle profondità del bosco, accompagnati dallo stormire delle foglie, i timballi degli insetti, all’unisono con le laringi dei mammiferi e le siringi degli uccelli, danno vita a questo concerto mattutino, a questa sinfonia concepita unicamente per annunciare a tutti gli astri del cosmo che la Terra brulica di vita, che la Terra è bellissima, di una bellezza suprema, di una bellezza sublime!
Per qualche miliardo di anni… silenzio, solo scrosciar di pioggia e rombi di temporali.
Poi la musica della vita: qualche miliardo di anni, giusto il tempo di accordare gli strumenti.
sezione B accetto il regolamento
Troppi animali, tutti in una volta, tutti in un luogo, tutti canterini!
PAROLE SULLA SABBIA
Un aquilone, volando nel cielo,
vide un’aquila e si innamorò, perdutamente.
«Vuoi essere la mia zita?»
le diceva seguendola, continuamente.
«Io metto la carta e tu la penna».
«Per scrivere che cosa?» gli chiese,
divertita.
«Ti amo» le rispose, prontamente.
Giù sulla riva del mare intanto
un granchio corteggiava una patella
attaccata a uno scoglio.
Ogni mattina le faceva trovare
una frase d’amore
sulla bianca sabbia della spiaggia.
«Seeee!» voi direte.
«Che minchia dici, caro autore:
il granchio non sa mica scrivere!»
Rubava le parole scritte
dagli amanti sulle spiagge
lontane e gliele depositava sulla riva.
E «Buongiorno, amore!»
leggeva al mattino la patella,
mentre il granchio passeggiava lì vicino,
aspettando di ricevere uno sguardo,
una parola.
Anche se durano meno di una notte,
tornate a scrivere frasi d’amore sulla sabbia.
Lasciate perdere, giovani, i messaggi su whatsapp
e aiutate il granchio a conquistare un cuore.
Sezione A – Accetto il Regolamento
Sezione A accetto il regolamento
Dissonanti
Ho attraversato lo scabro deserto del silenzio
fitto di rovi maligni e letali pietre aguzze
con quel miraggio dello stagno di champagne.
L’adiaforo cielo splendeva di colori vuoti.
Un sorriso ed una conversazione sincera
una cena calda ed un guanciale morbido
un fiume placido ed il tramonto della vita.
Non chiedevo molto ed a bassa voce, Signore.
Ora vago nell’infinita prateria priva di parole
qui vivono lacrime ghiacciate e vestiti dismessi
e la percorre senza sosta l’infame vento del Nord
the unforgiven have no mercy sussurra beffardo
.
Il tempo è incalzante ed irto di echi dissonanti
il crepuscolo giungerà fugace come un sospiro,
il Graal mi è sfuggito ed ho smarrito la spada.
Restituirò il tuo tempo al mio prossimo approdo.
3 febbraio 1943 (il primo giorno della pace dopo la battaglia di Stalingrado)
La traduzione di Anna Maria Carpi
Dalle rovine sale un fil di fumo.
Ah stia qui, compagno generale,
e se fossero fritz? Ma l’ufficiale
zitto s’accosta al muro di cemento.
S’affacia e cosa vede:
Nella fossa una lotta furibonda.
Tre fritz: stanno giocando a preference
fumando con ardore.
“Mani in alto!”
Leva gli occhi il tedesco e a denti stretti
“Un momento” mormorra
e fa il suo asso in pezzi
e sparge l’asso
sulla neve fonda di Stalingrado.
Ecco il testo originale…
3 февраля 1943
У развалин виден был дымок…
– Стойте здесь, товарищ генерал!
Может, фрицы… Офицер умолк
и к бетонным плитам подбежал.
Он нагнулся и его потряс
в маленьком колодце жаркий бой.
Трое фрицев дулись в преферанс,
табачок покуривая свой…
– Хенде хох!
В ответ подняв глаза,
«Айн момент…» немецкий человек
процедил и, надорвав туза,
вмял колоду в сталинградский снег…
– accetto il regolamento, sez. a
SEZ. A – ACCETTO IL REGOLAMENTO
LAVORI IN CORSO…
Tentiamo di scappare
da questo tempo scandito da mojito e salatini,
Nietzsche e la sua filosofia di vita
sono lontani dal tormento che insegue le nostre estati
di polvere e cartongesso,
di corse e di sesso.
Due bicchieri vuoti e pochi granelli di sale
sostano sul bancone di un anonimo bar.
Il letto in casa è disfatto,
l’intonaco si scrosta dai muri appena rinfrescati,
il sordido riemerge.
Un gong di troppo stacca l’ultimo collante di rinforzo
e cadiamo come la palla che rimbalza
nel cortile di fronte.
L’era del Signore
15-8-24
Amore
dappertutto.
Dal cuore al cielo
solo un velo,
leggerissimo.
Amore
muove l’universo
autentico e speciale.
Granelli di dolcezza
sulle labbra
nell’ora della luna.
Avvolge e trasmuta
dolore in gioia.
Ecco l’era del Signore.
Ecco la sua grazia.
Vellise Pilotti
Sez A. Accetto il regolamento
NICOLAS
Era salito sul treno a Foggia, una carrozza a salone unico con corridoio centrale.
Mentre si arrampicava sul posto di fronte al mio, aiutai la giovane madre a sistemare la valigia sul portapacchi.
Rientravo a Modena, da Lecce.
«Quanti anni hai?» gli chiesi.
Il bambino guardò la madre. «Rispondi al signore!» gli disse.
Senza guardarmi, alzò il palmo della mano destra e mi mostrò le cinque dita.
«Come ti chiami?»
Riguardò la madre infastidito e questa volta non rispose al suo invito.
«Hai dimenticato il tuo nome?»
Mi diede di sfuggita uno sguardo arrabbiato.
«Nicolas» intervenne la madre. «Si chiama Nicolas».
«Perché glielo hai detto?» la rimproverò a denti stretti.
Mi spostai verso il finestrino: fuori il mare, a pochi metri dalla ferrovia, luccicava come un diamante.
Vidi che Nicolas stava mangiando un tramezzino, la testa abbassata sul petto.
«È buono?» gli chiesi.
Abbassò la testa ancora di più.
«È buono?» richiesi.
«Il signore ti ha chiesto se è buono. Perché non rispondi?»
«Sì» mugugnò.
Quando finì, si alzò in piedi sul sedile e cominciò a passare in rassegna i passeggeri della carrozza, segnandoli con l’indice come se contasse.
«Adesso mettiti seduto: se viene il controllore ci fa la multa».
Si voltò e cominciò a contare anche i viaggiatori alle sue spalle.
«Ti ho detto di sederti!» gli intimò la madre.
«Io una volta» dissi rivolgendomi a lei «fui beccato in piedi sul sedile dal controllore. Fermò il treno, mi fece scendere e mi portò in prigione».
Si mise a sedere e mi guardò.
«E poi?» mi chiese. Per la prima volta mi rivolgeva la parola.
«Mi chiusero in una cella e mi lasciarono solo».
«E tu cosa hai fatto?»
«Ho cominciato a piangere, invocando la mamma».
«E poi?»
«Poi sono entrati cinque carcerieri, armati di coltelli e di spade, e hanno cominciato a riempirmi di calci e di pugni. “Stai zitto!” mi dicevano. “Dovevi dare prima retta alla mamma. Adesso è troppo tardi!”»
«E tu poi cosa hai fatto?» Scese dal sedile e si mise in piedi di fronte a me.
«Che potevo fare? Mi lamentavo, cercavo di parare i colpi. “Lasciatemi stare, per favore!” dicevo. Ma quelli continuavano a massacrarmi senza pietà».
Era dispiaciuto, deluso. Aveva gesti di stizza nei miei confronti, non accettava che io rimanessi inerme di fronte a tante prepotenze.
«E se quelli prendevano poi i coltelli e ti tagliavano tutte le braccia e le gambe, con tutto il sangue che usciva come una fontana, tu poi che cosa avresti fatto?»
«“Lasciatemi, non lo faccio più” avrei detto. Pietà!»
Era furibondo.
«E se quelli poi volevano ucciderti completamente e volevano lasciarti morto tutto insanguinato sul pavimento e non farti più respirare, tu in questo caso che cosa avresti fatto?»
«Beeeh! Alloooora!» dissi con enfasi «A questo punto farei un macello! Ruberei la spada di uno e zac! gli taglierei la testa» e facevo il rumore mentre questa rotolava sul pavimento. “Sciàh…patapùn!” «E quando si fosse avvicinato il secondo, zac! staccherei anche la sua».
Indietreggiò esaltato, sembrava in estasi. Risalì sul sedile e rimase in piedi a guardarmi con la bocca aperta, a godersi dall’alto le cinque teste che via via facevo rotolare sul pavimento. Si toccava tra le gambe, l’emozione era troppo forte: era lui stesso che si vendicava di tutti i soprusi che il controllore gli avrebbe inflitto se lo avesse trovato in piedi sul sedile del treno.
Eccitato, mi guardava con grande ammirazione, come se fossi Zorro.
Si stava facendo addosso per l’emozione, cercò di impedirlo con le mani, ma alla fine si lasciò andare e la mollò liberamente.
«Guarda cosa hai combinato!» lo rimproverò la madre. Ma lui non si scompose, continuava a guardami con la bocca aperta e le mani sulla patta. Lei lo prese in braccio e con un ricambio lo portò in bagno.
Quando ritornò correndo nel corridoio, mi si mise di fronte e mi guardò in silenzio.
«Lascia stare in pace il signore» gli disse la madre.
Mi misi a leggere.
«Se viene il controllore e mi trova in piedi sul sedile, cosa mi fa?»
Feci finta di non sentire.
Mi toccò un ginocchio: «Se viene il controllore e ti porta in prigione, tu poi che fai?»
«Torna a sedere!» gli ordinò la mamma. Le feci cenno di lasciarlo stare. Mezza carrozza assisteva divertita alle sue manovre.
«Se poi ti fanno scendere dal treno e ti chiudono nella cella e cominciano a darti schiaffi e pugni molto forti, tu poi che fai?»
«Che posso fare? Mi metto a piangere e gli dico di smetterla».
Si arrabbiò. Gli spettatori risero.
Batté stizzito il pugno sulla sua gamba: «E se alla fine vedi tutto il sangue e ti accorgi che stai per morire, che fai, continui ancora a piangere?»
«Beeeh! Alloooora!»
Si girò di scatto e si arrampicò sul sedile, la madre lo lasciò fare, divertita anche lei.
Alla fine fu riportato in bagno.
Scendevano anche loro a Modena, per andare a Maranello.
«Da grande farò il pilota di formula uno» si vantò.
«Se il controllore non ti chiude in prigione per il resto della tua vita!» gli dissi come un cretino.
Non si lasciò sfuggire l’occasione: a Recanati, proprio a quattro passi dal mare, cominciai a piangere e a invocare la mamma e ad Ancona avevo finito di staccare con la spada dieci teste, le aveva portate a dieci per prolungare l’orgasmo, suo e di tutto il vagone, che partecipava divertito alla esilarante sceneggiata.
Arrivati a Modena: «Dobbiamo scendere?» mi chiese.
Feci cenno di sì con la testa.
Mi prese per mano. Gliela tolsi.
«Ti aspetto sul marciapiede» gli dissi. E mi avviai.
Scesi per primo e imboccai subito il sottopassaggio.
Quando il treno ripartì, lo vidi che mi cercava come un disperato tra la folla dei passeggeri, sua madre faceva fatica a trattenerlo.
Lasciai la stazione.
Mi avrà cercato, avrà pianto. Chissà che cosa avrà pensato di me!
Sono stato una canaglia: lo avevo portato nel giardino incantato, e abbandonato.
SEZIONE B – ACCETTO IL REGOLAMENTO
Caparbie le notti
danzano su palchi d’onore
lo spiffero della vita
mi sfida
nel muro della notte
Il pensiero
chiude l’Incanto
mentre sopra di noi
si è aperto un cielo
“Un cielo”. SEZ A accetto il regolamento
MANO STRANIERA
Dall’iride ballerina alle pupille
della lingua sbarazzina
le emozioni rattoppate
come mani ulcerate dalle tentazioni
rese in balia perenne di fuochi di
S. Antonio per il reticolo del muscolo
ancora accantonato per quanto
accalorato è metafora di un isolamento
che per quanto affoga la sera
è sempre salvo per una mano straniera.
Sez A accetto il regolamento
Sezione B Accetto il regolamento
IL QUADRIFOGLIO
Un po’ fuori dalla città c’era una bella radura coperta da un tappeto erboso dove le persone andavano a rilassarsi e a prendere una boccata d’aria durante il fine settimana. C’era chi faceva un picnic, chi giocava a pallone, chi faceva una corsetta oppure semplicemente si sdraiava a leggere un libro.
In quel prato dal colore verde intenso crescevano principalmente margherite e trifogli, qua e là qualche dente del leone e qualche campanula. Nella distesa infinita di trifogli c’era anche un quadrifoglio che aveva la convinzione di essere superiore agli altri. Nonostante sapesse di appartenere alla stessa famiglia dei trifogli guardava tutti gli altri dall’alto in basso solo per una fogliolina in più. Aveva spesso visto delle persone che lo cercavano con insistenza convinte che portasse fortuna e così si sentiva importante. In questi momenti, comunque, se ne stava ben nascosto e si mimetizzava tra gli altri.
“Io porto fortuna e voi no”, si vantava in continuazione.
“E vabbè”, restavano indifferenti i trifogli.
Ma lui insisteva:
“Sono un gioiellino raro, tutti mi cercano”, diceva tutto altezzoso.
“Basta darti tutte ‘ste arie! Siamo stufi di ascoltarti!”, lo ammonivano i trifogli annoiati.
E invece continuava con aria di superbia:
“Io sono come la coccinella, il ferro del cavallo, il corno…”
“E basta adesso!”, rispondevano i trifogli e si voltavano dall’altra parte.
Successe in seguito che un giorno un ragazzino vide quel quadrifoglio e tutto contento lo staccò.
“Mamma, guarda che cosa ho trovato, un quadrifoglio portafortuna.”
“Fammi vedere”, tutta la famiglia del ragazzo era incuriosita e contenta per il ritrovamento.
“Dammelo, lo metto nel libro che porto con me così si appiattisce e non lo perdiamo”, gli disse la mamma e tirò fuori il libro dalla borsetta.
Il quadrifoglio era talmente stupito dall’accaduto da non riuscire a reagire, così come tutti i trifogli e le margherite erano senza parole. All’improvviso se ne era andato da quel prato e di lui era rimasto solo un pezzettino di stelo in basso.
“Ahi, ahi, lasciatemi stare”, si lamentava il quadrifoglio. Ma nessuno lo sentì. Finì in mezzo alle pagine di un libro. Ormai non era più né vivo né morto.
“Che brutta fine”, si dicevano i trifogli. Erano dispiaciuti nonostante quel quadrifoglio fosse stato così noioso e presuntuoso.
“Magari lo seccheranno e metteranno in un quadro. Così almeno farà parte di qualche opera bella da vedere”, chiacchieravano i trifogli.
Ma non misero mai il quadrifoglio in una cornice. Una volta arrivati a casa, la signora lo prese da quel libro e lo mise in un dizionario pesante. Disse che bisognava pressarlo per bene, poi avrebbe visto se riusciva fare una composizione con altri fiori che aveva seccato in precedenza. Così il quadrifoglio rimase lì tra le pagine di un noiosissimo dizionario. Se fosse almeno stato messo in un libro di poesie magari il tempo gli sarebbe passato meglio. E con il tempo la signora si dimenticò del tutto di lui come pure il ragazzo che lo aveva trovato. La signora fece la sua composizione con altri fiori pressati e la mise in una cornice d’argento. Le era venuta proprio bene e infatti faceva un bel figurone quel quadro nel salotto della sua casa. Ma il quadrifoglio si trovava ancora tra le pagine di quel noioso dizionario proprio sotto la lettera n all’altezza della parola noia: sensazione sgradevole prodotta dal ripetersi monotono delle stesse azioni, dalla mancanza di distrazioni…
E si rese conto che in quel prato dove sono tuttora rimasti i trifogli aveva tante di quelle distrazioni. I raggi del sole, la compagnia delle altre piantine, gli uccellini che cantavano, i ragazzi che giocavano. Se solo fosse nato come un trifoglio!
Non sempre conviene essere migliore degli altri, o semplicemente pensare di esserlo.
Accetto il regolamento sez, A
Assiso sulla riva guardavo
i riflessi d’argento del torrente:
lo scorrere ignaro dell’acqua,
a tratti riottosa a tratti calma,
fluida come la vita.
Immemori si ergevano sassi
baluardi di vecchie tradizioni
ammuffite dal tempo beffardo
senza più significato seppure vive.
INCONTRARSI NUOVAMENTE
Era vissuto sempre solo.
Gli anni erano passati sereni, senza grandi drammi sino all’età di settant’anni. Poi, inaspettatamente, la sua vita cambiò. Un giorno d’estate, mentre andava a spasso per piazza San Pietro in Roma, si trovò di fronte una persona che mai avrebbe immaginato di incontrare.
Quel giorno Francesco compiva proprio i settant’anni e sembrava una strana coincidenza incontrare quella persona, quasi che il destino avesse combinato quell’incontro.
– Ma tu sei Giovanna, ma non so … forse mi sbaglio – disse Francesco senza mai togliere lo sguardo da quegli occhi sorridenti e che forse avevano tanta voglia di raccontare.
– Sì sono io… Giovanna Alvisi e… tu se Francesco Rinaldi o … forse sbaglio? – rispose la donna con accento toscano e con modi fini ed educati. Giovanna non sbagliava.
Era proprio quel tale Francesco a cui aveva dato il primo bacio, le sue prime attenzioni… da innamorata. Poi, dopo l’Università si erano divisi. Ognuno aveva preso la propria strada; Giovanna un medico abbastanza noto nella capitale mentre Francesco lo era altrettanto nel campo legale.
Quel giorno il loro incontro fu veramente come un nuovo colpo di fulmine. Come due innamorati si presero per mano e quasi furtivamente si dettero un bacio. Giovanna e Francesco non erano sposati. Il lavoro aveva assorbito le loro giornate e non avevano mai pensato di crearsi una famiglia. Erano anni che non si vedevano. Forse erano passati quarant’anni. C’era stato sì un precedente incontro ma nessuno dei due aveva voluto dare una particolare attenzione all’altro. Quell’incontro in Piazza San Pietro, diciamo, aveva favorito una decisione importante. Passarono così, nell’assoluta felicità, tanti e tanti mesi. Il loro frequentarsi era continuo che ad un certo punto Francesco prese coraggio e le fece la proposta di matrimonio.
– Giovanna vuoi sposami? – disse Francesco tradendo un po’ di emozione. La sua “fidanzata” non credeva a ciò che sentiva. Le sembrava impossibile che a quella età dovesse ricevere una proposta di matrimonio. Ma l’amore non ha età. Volevano essere una famiglia. Crearsi un nido d’amore nonostante gli anni. In fin dei conti non c’era nessun impedimento. Anzi, l’amore avrebbe dato un aspetto decisamente diverso alla loro unione e alla loro vita da pensionati. La cerimonia non fu sontuosa, anzi, tutto aveva il sapore della semplicità e della genuinità, quella vera che è assai difficile trovare. Amici da una parte e dall’altra e un pranzo intimo, quindi, con poche persone. Avevano poi scelto di vivere nel centro storico di Roma. Un decoroso appartamentino era il loro nido. Vissero ancora insieme per tantissimi anni sempre d’amore e d’accordo. Vissero molto intensamente che alla fine, per l’inevitabile disegno della vita, uno dopo l’altro si lasciarono. Avevano scritto un biglietto prima di andarsene, forse per suggellare a loro stessi, per un senso di amorevolezza reciproca, quel loro volersi bene. Senz’altro si erano voluti veramente bene.
Gli amici trovarono i loro biglietti in un cassetto.
“Francesco, sei stato sempre un adorabile sposo.
La tua Giovanna”.
“Giovanna, sei stata sempre la mia gioiosa compagna.
Il tuo Francesco”.
SEZIONE B – ACCETTO IL REGOLAMENTO
NELLA VECCHIAIA NON ABBANDONARMI
Nel caldo abbraccio del tempo,
gli anziani e i nonni del mondo
sono presenti con speranza e sapienza.
Le loro mani, intrecciate di esperienze,
tessono la trama della memoria.
Sono custodi dei racconti antichi,
i guardiani delle tante tradizioni.
Con passi lenti e occhi luminosi,
tracciano sentieri per il futuro,
radici profonde nell’albero della vita,
nutrendo la terra con la loro presenza.
La loro voce, come canto d’amore,
risuona nell’eco dei giorni passati.
E quando il sole tramonta sono loro
che illuminano la notte profonda
con le miriade stelle di saggezza.
SEZIONE A – ACCETTO IL REGOLAMENTO
Nella tana del lupo
Una sera d’estate. Un invito a sorpresa.
Lei saliva a fatica la strada che portava alla villa. Sudava. Si era pentita di aver accettato l’invito; non conosceva nessuno a parte l’amica che l’aveva coinvolta. Una ripida scaletta e sul cancello il padrone di casa aspettava.
” Benvenuta in paradiso!” sorrideva “io sono Carlo”.
La mano s’allungava a stringere la sua.
Lei ansimava.
“Io Sara”.
Il lupo. Così lo chiamavano gli amici. Perche quel soprannome? Perché aveva i capelli grigi e le iridi ambrate? Perché era un tipo sfuggente dato che abitava la villa da solo? O forse era una persona da cui stare alla larga?
Un lungo tavolo di legno, bicchieri nelle mani, saluti, risate. Lei prese posto sull’unica sedia vuota. I piatti si avvicendavano, le parole puzzavano di vino, le risate esagerate, gli scherzi stupidi.
Era a disagio. Avrebbe voluto guardare il telefonino per distrarsi o, meglio ancora, andarsene. Lui si alzò e le venne vicino. “Vieni che ti faccio vedere la casa”. Salirono e scesero scale, si trovarono in taverna, in cucina, in salotto, in camere e camerette. Lei ammirava i mosaici in pietra e il legno che caratterizzavano gli ambienti. Lui, piano, apri una porta.
“Questo è il mio regno” sussurrò.
Entrarono. La stanza non era grande, il letto al centro, ma il pezzo forte era la vasca idromassaggio circondata da vetrate .
“Che meraviglia!” disse lei “ci sono le luci, la musica …mi piacerebbe farci un bagno”.
Si era fatto tardi ad uno ad uno gli ospitii svanivano sciolti nel buio.
“Ti accompagno, scendo a prendere le chiavi della macchina”.
Lei in punta di piedi come un ladro entrò nel regno del lupo. L’acqua nella vasca gorgogliava, luci azzurre, verdi, blu s’accendevano e spegnevano al ritmo della musica.
“Vuoi fare un bagno?”
Improvvisa la voce alle sue spalle.
“Adesso?”.
Bollicine sulla pelle, musica nelle orecchie, profumo di muschio selvatico. Chiuse gli occhi. Quando li riaprì lui la fissava. Aveva due calici di spumante nelle mani. Si trovarono nell’acqua vicini. Lei sentiva il calore del suo corpo. Scherzavano.
“Sono nella tana del lupo”
“Hai paura?”
“Un po’”
“Sono un lupo che non morde, io”
“Hai i denti morbidi?”
“Sì”
Era vero. I suoi denti le mordicchiavano piano le guance, il collo, le labbra.
Erano mesi che non sentiva l’odore di un uomo addosso. La testa le girava.
Quando si svegliò il profumo del caffè e del pane tostato invadeva la stanza.
Lei scese dal letto e aprì la finestra. Due cipressi come soldati marcavano il confine del bosco. Lui la raggiunse e le cinse le spalle. Lei si voltò di scatto .
“Non è successo niente”
“Cosa?”
“Stanotte, non è successo niente, niente!”.
Non servivano spiegazioni; entrambi sapevano di essere anime solitarie, due anime che una notte d’estate si erano incontrate per caso in una vasca idromassaggio .
Sez B accetto il regolamento
La mia Isola
“Sono nata,
e vivo,
in un’isola.
E un’isola
mi sento.
Solitaria.
Ma non sono
mai sola.
Amo la vita.
Amo il silenzio.
Amo la semplicità.
Come la mia isola.
Selvaggia,
riservata.
Ma sempre pronta
ad amare.
Sempre”.
Francesca Dolis
Dichiaro di accettare il regolamento Sez. A
-Il mio amico immaginario-
Non ho una sola foto insieme a lui. Non ricordo la voce ne’ il volto di quell’uomo che è stato mio padre. Un uomo integerrimo, generoso, sempre pronto a donare. Ma, come ho creduto fin da bambina, con una fretta incredibile di volare via. Lassù. In cielo. Nell’altrove. Nel posto fatto per gli angeli.
È trascorso tanto tempo. Non ricordo o non posso ricordare.
E cosi, a me non restava che fantasticare su quel padre invisibile. L’amico immaginario. Che mi avrebbe portato alle giostre, facendomi toccare l’azzurro mentre ripeteva: “Dai, piccolina. Sei la più brava”.
Poi mi avrebbe accompagnata a scuola, il primo giorno delle Elementari. Io con il grembiulino lindo e un bel fiocco rosa. Per l’inizio della vita, quella importante. Con il sussidiario ricco di cartine geografiche, di un mondo da scoprire. E il libro di lettura, pieno di favole da imparare, sognare e, chissà, magari un giorno da inventare per altri bambini curiosi.
Intanto crescevo. Timida. Non gelosa, ma golosa di avventure. Imparavo e sognavo. Di trasformare il mondo in un mondo fantastico, di gente buona, con bimbi felici dei loro semplici ma bellissimi giochi. E un futuro pieno di righe da riempire.
Arrivò la fine delle Scuole Elementari. Esame della quinta classe. Emozione e tremarella. Timidezza mista alla voglia di rendere orgoglioso quel padre aviatore.
Si concluse il tutto con ottimi voti e applausi a non finire.
Ricevetti dei doni, in premio ai miei impegni. Tutto bello ma… mancava ancora qualcosa ed io, ne ero certa, l’avrei trovata. Custodito dal silenzio della soffitta, c’era un baule in cui erano riposti ricordi di scuola e…un qualcosa che attirava la mia instancabile fantasia. E quel giorno di fine scuola mi addentrai in un sogno ingenuamente agognato. Avvolta dal silenzio e un fioco di luce, aprii lentamente
la “cassa argentata”. In un angolo, avvolta da cento colori, la trovai. Finalmente la trovai. Una bambola. ‘Quella’ bambola, che avevo sognato, immaginato per anni. Il vestitino era di una scolaretta, le taschine ricamate a fiorellini, i bottoncini minuscoli a forma di cuore. E, accanto al sogno, una letterina tutta per me, con queste semplici incredibili parole: “Alla bambina più bella e più buona . Alla mia stellina che conquisterà il mondo con la sua fantasia.Sii felice, bimba mia. Da lassù seguirò ogni tuo passo. Sempre accanto a te. Un oceano d’amore dal tuo Papà Aviatore”.
Francesca Dolis
Dichiaro di accettare il regolamento Sez.B
IL VIAGGIO
(Digressioni sul Kybalion)
L’aria s’innalza senza condizioni, stanotte, offrendo sostegno ad Anima in procinto di riscoprir se stessa, intanto che, intere, le volte celesti le corrispondono siderea sostanza per quell’inseguito Viaggio, appena intrapreso.
L’incanto, tutt’attorno, pare far parte d’un ben più vasto Afflato, che ne detta le leggi insondabili verso cui attenersi.
Eppur lei, piccola e spaurita, quasi ne vacilla se lasciarsi condurre o piuttosto rimaner confinata in un Sogno personale che teme dover scoprire esser solo illusione.
Il vento spira e le sussurra, sottile, come essa stessa sia frammento del Tutto, il Quale, in quell’istante rispondendo all’intima sua disposizione, le si dispiega Integro, nel Proprio verace discoprirsi.
La Mente è Universale, gioco senza fratture di un continuum che ne abbraccia ogni cosa, fisica, emotiva, spirituale, conducendo chi vuol comprenderla ad incontrar se stesso, tramite la ricerca sfrenata del proprio Sogno interiore.
E la trasmutazione profonda potrà avvenirne solo se non s’interromperà quell’‘inabissarsi’, sentendosi liberi da apprensioni, vocati in direzione d’una riconversione dell’ordinaria realtà verso quella controparte, alquanto più intenzionale.
L’illusione diviene, allora, disvelamento di maestria!
Anima si consolida, da un tal vento di conoscenza lasciandosi coinvolgere, così avvertendosi sospingere a realizzarne quanto qualsiasi livello attorno possieda corrispondenze rispecchiantesi tra loro, qual magico, interminabile monito a sapersi commisurare per mutarne le circostanze, tramite il pensiero creativo.
Pensiero che d’un soffio, tra le sue riflessioni, lei sente vibrar sempre più distintamente, risoluto ad accompagnarla a riscoprir stati interni così armoniosi che la notte, ovunque, pare per davvero principiare a sollevarla Altrove…
Stati finissimi di leggere fluttuazioni, oscilli via via più elevati che la trasportano in frangenti a lei intensamente confacenti, tanto da intenderne come il proprio stesso rifletterli ne influenzi le risultanze.
Pensiero, Corrispondenza, Vibrazione…inscindibili legami per una trasformazione senza precedenti, in questa notte sublime che la sta investendo, intanto che lei, assolutamente immersa in ogni ‘passaggio’, via via al successivo concatenato, ferma d’improvviso la propria volontà su un’antica, onnipresente Aspirazione, qualcosa che sa come, senza sosta, la caratterizzi, ma verso la quale, nondimeno, mai sul serio, sino ad ora, ha ardito mirare.
E ne comprende come il principio della Polarità, connaturato in ogni riverbero di vita, le stia, al momento, disvelando i propri criteri d’applicabilità.
“Accetta quanto dentro te incontrerai, senza provarne sgomento! Se non lo riterrai conveniente, non respingerlo o cancellarlo senza alcuna forma d’appello…sappi che solo il coraggio di guardarlo, ed accoglierlo in quanto in te esistente, ne farà un corrispettivo opposto di se medesimo e lo rinverrai trasmutato, qual incredibile alchimia d’un processo che dall’alto ne raggiunge il basso, sublimandolo!” una voce esorta.
E Anima obbedisce, osservando scrupolosamente quel che da sempre l’ha frenata ad incontrar quel Sogno.
Resta il Ritmo, l’importanza dell’intendere che la volontà, saldamente guidata, può spostarsi al di sopra d’ogni movimento sbilanciato, alla ricerca d’un equilibrio che ripristini quanto inseguito, rendendolo finalmente raggiungibile.
Lei, aspirando dunque il profumo del vento, dispone se stessa oltre l’ansia del non riuscire, al di là di quell’idea che le fa supporre come tutto sia solo un semplice vagheggiare, negandole la spontaneità e la freschezza del traguardo, mentre già così ne intuisce quell’amata Presenza trasparirne reale!
La legge della Causalità le diviene corollario al Percorso, illuminandola a comprendere come nulla esiste ‘per caso’ e tutto ha, viceversa, un ben preciso motivo d’essere, persino quell’inveterato Sogno, tenacemente serrato nella sua coscienza, che auspica a farsi autentica esperienza.
Eoni di tempo l’hanno forgiato, dentro lei curando il momento opportuno per emergere…ed ora il Viaggio è qui, il Processo è iniziato e non potrà interrompere l’atteso risultato, ormai alle porte.
Anima si concentra, superando d’esser solo ‘effetto’ per divenire parte del mondo delle Cause e forgiarne, così, il relativo Cammino.
Avverte come le due parti di sé, la propria insita magia, l’accoglienza e la creatività del femminile e il dare e l’agire di quel Sogno, imprimente autonoma volontà maschile, tendano a farsi ‘uno’.
Un attimo…e, disvelata, quella Presenza a Sé l’innalza Incondizionatamente!
Accetto il regolamento
Sez.B
FUTURO
I giorni si sommano ai giorni,
ma il computo del tempo
non è più lineare.
L’aria esplode luce
e solo l’illusione della mente
mantiene statica la vita.
Il cuore ha altre risonanze
e dallo spazio suo profondo
sollecita ad invertir
lo stato di coscienza.
Aprirsi all’interno
innesca il futuro…
Accetto il regolamento
Sez.A
“Sa cupa”
“Il braciere”
Sono nel letto di una casa di riposo e da cinque giorni non prendo le medicine, la mia terapia salvavita. Sono debole e stanca, stanca di essere qui.Ho una stanza doppia, che condivido con una signora. In questo momento non c’è, ed è meglio così; sono più tranquilla quando è fuori per i fatti suoi.Avevo ottantotto anni quando sono arrivata qui, e adesso ne ho novantatré. La mia vita sta finendo perché non voglio più vivere così, senza casa, senza i miei fiori, senza giornali, senza televisione e, soprattutto, senza la mia famiglia.Ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia benestante. Sono la primogenita, e con le mie sorelle abbiamo aiutato i nostri genitori a gestire l’azienda. Da mia madre ho imparato a fare la padrona di casa (sa meri de domu) e a seguire la servitù. Ho attraversato momenti difficili che ho superato grazie agli insegnamenti familiari di fratellanza e condivisione, l’aiuto reciproco (aggiudu torrau).Mi sono sposata ventenne con un uomo bellissimo e gentile, ma a ventisei anni ero già vedova. Ho lavorato giorno e notte per crescere le mie bambine. Ho cucito e cucinato senza sosta per non perdere l’autonomia e l’indipendenza. Non ho mai tolto il lutto perché ho amato mio marito tutta la vita. Il mio è amore eterno.Il mio sposo, dolcezza infinita, non è mai rientrato dalla città e non ha mai conosciuto la nostra seconda figlia. Ho colmato la sua assenza con il ricordo del suo abbraccio, che mi ha avvolta come il mio scialle nero: per sempre con me.Ho vissuto in un secolo difficilissimo: la Prima Guerra Mondiale, con mio padre al fronte, prigioniero degli austriaci; la spagnola, che ha portato via tanti; e poi la Seconda Guerra Mondiale. Senza tregua, gli avvenimenti si sono susseguiti, ma con la forza di volontà ho superato tutto.Ho superato tutto per arrivare qui, in questo luogo sconosciuto, dove volevano spogliarmi delle mie abitudini, della mia identità, per non pretendere nulla. Ma io nulla pretendo, né per temperamento né per dignità. Ho avuto la fortuna di vivere in un tempo in cui i sentimenti e il timore di Dio erano veri. Oggi, dalle persone, non mi aspetto nulla e niente mi fa paura. Sono pronta per il mio ultimo viaggio.È martedì e non aspetto nessuno, ma una voce mi dice che sta arrivando mia nipote. Lei è Annalisa. Mi ha tenuto la mano in questi ultimi cinque anni, come io l’ho tenuta tra le mie mani quando è nata, nutrendola con amore. Ha imparato da me il rispetto per il prossimo, l’importanza e la sacralità della vita. Quando aveva sei anni, ho deciso di regalarle “sa cuppa” e altri oggetti. Lei conosce i miei saperi familiari tramandati; è una ragazza che sa custodire i tesori. È paziente, amorevole e non mi ha mai abbandonata. Non si è mai stancata di me.Eccola: la vedo arrivare, mi sorride, si siede accanto a me e mi dice che mi vuole bene. Io le rispondo: anche io ti voglio bene. E lentamente mi addormento. Oggi sono in cielo e, come cenere, sono utile e sacra per chi mi ha amata.Il mio tempo è stato scandito da un calendario in cui i giorni erano tutti segnati dal mio grande amore per la vita. Ho regalato il mio tempo e condiviso i miei averi. Come un braciere, ho scaldato le persone nelle lunghe serate invernali, e dalle braci spente ho prodotto la miglior cenere del mondo.A mia nonna Matilde.
sez. b, accetto il regolamento
Bel racconto, senza retorica.
Non era facile, dato l’argomento.
Errore: doveva essere un commento
Bel racconto, senza fronzoli e retorica.
Non era facile, dato l’argomento.
Il linguaggio del bosco.
Siedi intenta, quieta
lo sguardo sorgente,
le vesti preziosi
decori d’interiorità,
nostalgia.
Sei sorella, madre, o Persefone
la danza fra il buio e la luce.
Sei il contorno netto delle piante,
piedi nudi le nude foglie,
humus fra il passo e la radice.
È un canto vivido,
sei tu a intonarlo
o il bosco che ti canta?
Fatti occhio, orecchio, presenza.
Una miriade di pori ad accogliere
il suo linguaggio.
Siedi solitaria sulla corteccia del leccio,
a contatto con la sua direzione, orizzontale e verticale .
Non ti si chiede altro.
Fatti bosco.
Fatti sentiero,
ruscello
e formica dalla testa rossa.
Fatti ghiandaia e cinghiale,
seme e ghianda
e credici nella Vita che ti parla.
Lei sa molto più di te e di me.
Luisella Pisottu – Accetto il regolamento – Sez. A
NATALE 1915
Carso, 25 dicembre 1915
Mia amata Teresa,
da qualche settimana, lungo le nostre linee, le armi tacciono. Una tregua inquietante, questa, che reca con sé un silenzio gravido d’incertezza e interrogativi su ciò che accadrà. Soltanto i più illusi riescono a scorgervi un cessate il fuoco definitivo. In verità, nessuno può escludere che già domani si venga mandati di nuovo all’assalto alla baionetta. Siamo nelle mani di Dio.
Come da tradizione, il cappellano militare ha celebrato la Santa Messa, ma nell’inferno della guerra – t’assicuro – di santo non esiste proprio nulla. Ha un sapore assai amaro il Natale in trincea, cara sposa; non l’ha potuto cancellare nemmeno quello delle caldarroste che oggi, in via eccezionale, hanno un poco rallegrato il rancio di noi soldati né, tanto meno, quello dell’acquavite che per niente ci riscalda. Si gela, quassù, e il sole della nostra bella isola mi appare ormai come un ricordo troppo lontano. Sembra di stare qui da anni, tanti sono stati finora i patimenti, invece sono trascorsi appena sette mesi. Chissà quanti altri disgraziatamente ne passeranno… Mi manca casa. Mi mancate voi.
Come state tu e i figlioli? Prego il Signore affinché vi conservi in buona salute.
Chicchineddu [1] è obbediente e va a scuola? E Angelina cresce bene? È ancora così piccola, sa pippìa [2], e a due anni non può certo comprendere il perché della mia assenza. Spero che il sussidio vi sia sufficiente per tutte le bisogna, non vorrei mai che tu fossi infine costretta a cercar lavoro in miniera. Il vostro pensiero mi accompagna sempre e in occasioni come questa la lontananza fa ancora più male. Vi ho immaginati in chiesa a mezzanotte e poi nella nostra piccola casa che sa di caminetto acceso e minestra calda. Stando qui, si comprende come anche il poco valga molto, credimi.
Questo mio Natale è stato come te lo descrivo: una giornata scandita dai consueti ritmi militari e non troppi conforti. Qualche compagno d’armi, per passare un po’ il tempo, ha raccontato vecchie storie di paese che portano sorrisi e più spesso lacrime. Sai, molti tra noi sono pastori che di scuola non hanno mai fatto una sola ora; gente abituata quasi più alla compagnia delle bestie che a quella dei cristiani, ma capace di parlare con quella incredibile magia dei poeti che incanta i cuori; capita sovente che persino qualche ufficiale si fermi un attimo in ascolto. Mi ha messo poi tristezza anche una lettera, giunta con l’ultima consegna della posta, che un giovane commilitone ha finalmente ricevuto dalla famiglia e mi ha chiesto con ansia di leggergli: qui, dove mancano gli affetti più cari, non essere analfabeti sembra essere un aiuto prezioso. Teresa, ti prego, scrivimi presto; e se hai difficoltà, va’ di nuovo dal prete ché don Beppe non ti negherà il favore.
Durante il turno di guardia, tra la notte e l’alba, osservavo il buio silenzioso al di là del quale stanno le postazioni nemiche e mi domandavo se pure loro, gli austroungarici, abbiano i nostri stessi pensieri, la medesima paura: in fin dei conti, non siamo tutti esseri umani? Oggi, anche quei soldati dall’altra parte della barricata – uomini come me e i miei compagni! – avranno pensato con maggior pena alle proprie famiglie lontane e in cuor loro pianto segretamente. Gesù Cristo è venuto al mondo per tutti, poco importa il colore della divisa che s’indossa.
Ora devo salutarti, Teresa mia. Scende la sera e il freddo mi blocca le mani.
A te e ai bambini giunga il mio abbraccio, con l’augurio che il Natale prossimo non conosca più guerra!
Tuo marito Stefano F.
151° Reggimento Fanteria Brigata Sassari
_________________
[1] Francesco, in lingua sarda.
[2] La bambina.
Sez. B – Accetto il regolamento – Laura Vargiu
*** CONTEST CONCLUSO ***
Ringraziamo tutti i partecipanti.
Prodotto gradito
Affascinante e la raccolta della vendemmia.
Il prodotto bianco è rosso
che due colori che entrano in tutte le case.
Semplicemente dicendo e il vino.
L uva e la sua natura naturale
e brilla sulle tavole
con augurio di buon anno cantando
I grappoli sono raccolti
e qualcuno li gusta all istante.
Il vino esce tranquillo
e la vendemmia
come se fosse una mitraglia.
accetto il regolamento
FINALISTI DEL CONTEST:
SEZIONE A
Floriana Porta con “Ho imparato a rifiorire”
Donatella Ronchi con “Come un foglio di carta strappato”
Cinzia Birindelli con “Un cielo”
Luisella Pisottu con “Il linguaggio del bosco”
Daniela Giorgini con “Cosa farei”
Laura Dessì con “Passi di vita”
Stefano Gervasoni con “I giorni marci”
SEZIONE B
Rodolfo Andrei con “Oltre quel muro”
Chiara Sardelli con “L’ultima immagine”
Franco Maccioni con “Incontrarsi nuovamente”
Milena Musu con “Fiaba del passaggio segretissimo per le capitali al di là del mare”
Diego Bello con “Conversione cromatica”
Giovanni Ferrari con “Il cuore”
Ignazio Salvatore Basile con “Tziu Efisinu e gli Efisiopratici”
Grazie mille. Sono contentissima. Donatella Ronchi
Grazie tantissime. Già essere finalista mi incita nel continuare nella scrittura. Un saluto a tutti gli amici, augurando grandi traguardi…
Ci complimentiamo con tutti i partecipanti al Contest, la giuria è sempre in difficoltà nella scelta perché tantissimi sono meritevoli, ognuno di voi lo è. Ma ogni contest ha 14 finalisti ed è ovvio dover operare una scelta. Vi ringraziamo per la partecipazione e vi invitiamo ai prossimi concorsi letterari.
ARTICOLO VINCITORI E FINALISTI: https://oubliettemagazine.com/2024/10/03/vincitori-e-finalisti-del-contest-letterario-versi-di-sardegna-terza-edizione/
Propongo per i vincitori (oltre che il premio stabilitto) un bel porceddu innaffiato da abbondante cannonau.
Ottima proposta! (Senza offesa per i vegetariani)
Per i vegetariani solo il cannonau