Vincitori e finalisti del Contest letterario “Versi di Sardegna terza edizione”
“Il poeta in Sardegna può indossare le vesti del pastore, dell’artigiano, del commerciante, dell’avvocato, del medico o del nulla tenente; egli scrive semplicemente, per trovare il suo stato di benessere interiore.” – dalla prefazione di Manuela Orrù

Si è conclusa il 15 settembre 2024 a mezzanotte la possibilità di partecipare al Contest letterario di poesia e racconto breve “Versi di Sardegna terza edizione” promosso da Oubliette Magazine, dagli autori e dalle autrici dell’antologia.
La giuria del contest (Alessia Mocci, Manuela Orrù, Carolina Colombi, Maricà, Fabio Masala, Samuel Fernando Pezzolato e Franco Carta) ha decretato i 14 finalisti dai quali sono stati selezionati due vincitori per ognuna delle categorie in gara.
Il premio per ciascuno dei vincitori consiste nell’invio di una copia del libro “Versi di Sardegna terza edizione” che raccoglie le raccolte poetiche di Franco Carta, Maricà, Ilse Atzori, Italo Cappai, Teresa Argiolas, Rita Nappi, Leandro Porcedda, Margherita Muscas, Fabio Masala, Andreina Manca, Annalisa Atzeni, Francesco Cau, Maria Filomena Orgiu, Samuel Fernando Pezzolato e Manuela Orrù.
Oggi, vi presentiamo tutti i finalisti ed i quattro vincitori ex aequo del Contest (due per ogni sezione).
Tutte le opere partecipanti al Contest “Versi di Sardegna terza edizione” possono essere lette cliccando QUI.
FINALISTI
SEZIONE A
Floriana Porta con “Ho imparato a rifiorire”
Donatella Ronchi con “Come un foglio di carta strappato”
Cinzia Birindelli con “Un cielo”
Luisella Pisottu con “Il linguaggio del bosco”
Daniela Giorgini con “Cosa farei”
Laura Dessì con “Passi di vita”
Stefano Gervasoni con “I giorni marci”
SEZIONE B
Rodolfo Andrei con “Oltre quel muro”
Chiara Sardelli con “L’ultima immagine”
Franco Maccioni con “Incontrarsi nuovamente”
Milena Musu con “Fiaba del passaggio segretissimo per le capitali al di là del mare”
Diego Bello con “Conversione cromatica”
Giovanni Ferrari con “Il cuore”
Ignazio Salvatore Basile con “Tziu Efisinu e gli Efisiopratici”
VINCITORI “VERSI DI SARDEGNA TERZA EDIZIONE”
SEZIONE A POESIA
Luisella Pisottu con “Il linguaggio del bosco”
Siedi intenta, quieta
lo sguardo sorgente,
le vesti preziosi
decori d’interiorità,
nostalgia.
Sei sorella, madre, o Persefone
la danza fra il buio e la luce.
Sei il contorno netto delle piante,
piedi nudi le nude foglie,
humus fra il passo e la radice.
È un canto vivido,
sei tu a intonarlo
o il bosco che ti canta?
Fatti occhio, orecchio, presenza.
Una miriade di pori ad accogliere
il suo linguaggio.
Siedi solitaria sulla corteccia del leccio,
a contatto con la sua direzione, orizzontale e verticale.
Non ti si chiede altro.
Fatti bosco.
Fatti sentiero,
ruscello
e formica dalla testa rossa.
Fatti ghiandaia e cinghiale,
seme e ghianda
e credici nella Vita che ti parla.
Lei sa molto più di te e di me.
Stefano Gervasoni con “I giorni marci”
I giorni marci,
mi nutro solo di scorie,
lo specchio che mi sguarda,
perplesso.
I giorni marci,
quelli che non servono a niente,
mi sento scoppiare,
di ossigeno esausto,
I giorni marci,
di sole parentesi curve,
incapaci di tutto,
risvegli già stanchi, di ghiaccio.
Giorni di lenta erosione,
quasi si possono contare ad una ad una
le cellule che diventano polvere.
giorni che non valgono alcuna pena,
tanto sono una pena.
Incapaci di un laccio,
i giorni marci sono una brace di mirra
dove i pensieri si abbandonano al fuoco
e subiscono ogni violenza,
inerti.
Ed io sono qui seduto, in mezzo ad ogni strada
plasmando il rimorso
e ad aspettare che prenda la forma e la lama
del pugnale dal sapore finale.
SEZIONE B RACCONTO BREVE
Rodolfo Andrei con “Oltre quel muro”
L’inutilità dei “muri” è evidente (da quello di Berlino sino al muro col Messico) tuttavia questo muro diviene il simbolo non della divisione, ma del dialogo. Basta una palla per far rimbalzare la possibilità di un incontro, di un’intesa che va oltre le barriere. Il buco dal quale il piccolo Jusuf vede la realtà con i propri occhi gli consente di cambiare opinione, di capire molto di più di quello che gli avevano fatto credere, e se c’è una “palla” da giocare va giocata sino in fondo per rimediare le incomprensioni e le avversità che la storia ci consegna.
Quel muro così alto, imponente e freddo era l’ultima immagine che Jusuf vedeva prima di uscire dalla propria scuola. L’edificio scolastico del piccolo villaggio di ‘Anata, situato nella zona nord di Gerusalemme, pochi mesi prima, era stato tagliato in due da una barriera di cemento come ritorsione contro gli ultimi attacchi suicidi avvenuti in territorio israeliano.
Mentre dal lato palestinese erano state relegate le classi, il cortile con il campetto da gioco era stato rinchiuso in territorio israeliano, impedendo ai piccoli alunni di godersi quei pochi momenti di spensieratezza giornaliera.
Jusuf, dopo che la campanella aveva suonato la fine delle lezioni, restava immobile di fronte a quel muro per diversi minuti. Lì davanti le immagini delle partite a pallone giocate insieme ai compagni di classe e vissute fino a poco tempo prima gli scorrevano veloci nella mente.
Era difficile per un bambino capire perché un’assurda guerra tra due popoli potesse spazzare via anche i giochi più innocenti di piccole creature estranee a questa crudeltà.
Le ore passate a giocare nella scuola erano state un buon diversivo per tutti i bambini, un piccolo aiuto per poter dimenticare, anche se solo per poche ore, le atrocità della guerra. Da tempo purtroppo non esisteva più neppure quest’ancora di salvezza.
Jusuf, come per ricordare quei momenti felici passati rimaneva volentieri in silenzio nel piazzale della scuola con lo sguardo nel vuoto. Anche quel pomeriggio, come ogni pomeriggio, la campanella aveva dato il via libera agli studenti, e come ogni giorno Jusuf prima di andare via, fece visita a quel muro: il suo personale album di ricordi. I pensieri gli frullavano nella mente come una partita a ping-pong, ma lo rendevano sereno, e questa era la cosa più importante per lui.
Era tardi, Jusuf voltò le spalle alla barriera di cemento incamminandosi verso l’uscita, ma dopo alcuni passi dei tonfi sordi rimbombarono nel cortile e immediatamente nella sua mente.
Il bambino si fermò di colpo. Altre volte aveva sentito botti simili, scoprendo poi purtroppo che erano partiti da fucili nemici. La paura di camminare lo attanagliò ancora e restò con le orecchie dritte in attesa di altri rumori. Non ne sentì altri e, dopo un attimo, con suo grande stupore, si ritrovò tra i piedi una vecchia palla di cuoio. Rimase incredulo.
La prese in mano con gioia infinita ma con molta diffidenza allo stesso tempo.
Si girò verso quel muro che aveva partorito quel regalo inaspettato e immediatamente si immaginò dall’altra parte della muraglia un bambino bisognoso di giochi come lui.
Abbracciò con forza quella palla goffa e dura, ma magica. La voglia di portarla a casa fu forte ma, subito dopo, il desiderio di scambio e la voglia di andare oltre le barriere lo portò a lanciarla dall’altra parte.
Attese qualche minuto senza rivedere la sfera e pensò che forse era stato solo un sogno; il bambino oltre la barriera si era ripreso il proprio gioco.
Poi di nuovo quei rimbalzi sordi, la palla era tornata nuovamente da Jusuf, la figura misteriosa aveva deciso di giocare ancora con lui.
Altri lunghi passaggi, sia da una parte che all’altra del muro, furono scambiati tra i due palleggiatori improvvisati. Jusuf era al settimo cielo, da mesi non si sentiva così felice, ed era bastata solamente una vecchia palla di cuoio.
Quella sera il piccolo scolaro tornò sereno a casa, e più tardi del solito, tenendo per sé il segreto del suo nuovo amico. Il giorno seguente la campanella della fine delle lezioni suonò come al solito, alla solita ora, ma per Jusuf fu un suono diverso; era il segnale dell’ora di gioco da lui tanto attesa.
Nessuno dei suoi compagni era stato messo al corrente della novità, e lui era in trepidante attesa di nuovi scambi di felicità. Aspettò che tutti gli alunni avessero varcato quel cancello arrugginito e, riprendendo la vecchia palla di cuoio, la lanciò di nuovo oltre quel muro.
Il cuore gli batteva forte, restò con la testa all’insù per alcuni secondi nella speranza di riabbracciare la sfera magica. Un attimo dopo la visione di quella boccia roteante che oltrepassava il cemento gli fece sgranare gli occhi e allargare il cuore. Jusuf la bloccò senza farla rimbalzare a terra, afferrandola come un portiere di consumata esperienza. Da quel momento Jusuf non vedeva l’ora di arrivare all’orario d’uscita per poter continuare quei magici passaggi, mentre la felicità di aver trovato un amico di giochi gli aveva fatto passare in secondo piano la curiosità di sapere chi ci fosse al di là del muro. I giorni scorrevano veloci e sereni per il piccolo scolaro facendogli scordare, anche se solo per alcuni momenti, la cattiveria della guerra.
Ma un giorno, un lancio più forte del solito, arrivato dall’altra parte, fece andare la palla di cuoio più lontano, sul lato destro del muro, ora diventato sempre meno freddo per Jusuf.
Lui si lanciò di corsa per andare a riprenderla e chinandosi notò una piccola fessura nel cemento. In un attimo quella curiosità nascosta da sempre si fece spazio nel grembo di Jusuf e la voglia di sapere chi fosse il suo misterioso amico si fece fortissima. Jusuf prese la palla lanciandola oltre la muraglia, poi si avvicinò con cautela, curiosità e timore nello stesso tempo al ruvido muro.
Avvicinò l’occhio alla piccola spaccatura e sbirciò da quella fessura.
La pupilla per un attimo rimase incollata al cemento, il cuore cominciò a battergli forte e un forte tremolio gli attanagliò le gambe. Rimase di sasso; non credeva ai propri occhi. Davanti a lui un uomo in divisa da combattimento con un distintivo delle Forze Armate Israeliane teneva in mano quel pallone di cuoio, pronto a rilanciarlo dalla parte di Jusuf, mentre un raggio di sole, che si era fatto spazio tra le nuvole, risplendeva sulla canna di un grosso fucile che il soldato teneva sulla spalla.
Jusuf non sapeva cosa fare. Si rese conto che da molti giorni stava giocando con un nemico e non con un piccolo compagno di giochi, come si era sempre immaginato. Avrebbe voluto scappare via di corsa, ma quella palla era troppo allettante per buttare tutto al vento. Pensò che in fin dei conti fino a quando non aveva conosciuto il suo amico palleggiatore si era divertito, sentendosi felice.
Tutti gli avevano sempre ripetuto che oltre quel muro ci sono i nemici, che sono persone cattive e vanno sempre evitati.
Ma perché un freddo muro poteva e doveva decidere chi era il nemico e chi era l’amico?
In quei momenti il piccolo scolaro arabo si fece mille domande cercando qualche risposta, poi si chinò nuovamente per riprendere la palla appena tornata sul proprio campo, l’afferrò con forza e la lanciò oltre quella barriera di cemento, restando in attesa di vederla ritornare. Fu contentissimo quando la vide arrivare di nuovo dalla propria parte, e pensò che un muro non poteva riuscire a soffocare quello che di buono c’è dentro ogni essere umano.
Jusuf prese la palla in mano, fissò quella parete così alta pensando che chiunque ci fosse stato dall’altra parte e gli rimandava la palla era un suo compagno di giochi, e questa era la cosa più importante per lui.
Ripose la vecchia palla di cuoio con cura nel suo solito nascondiglio notturno e se ne tornò felice a casa senza dire nulla a nessuno, in attesa di tornare domani, finita la scuola, a rilanciarla nuovamente oltre quel muro al suo sconosciuto amico compagno di gioco.
Chiara Sardelli con “L’ultima immagine”
Ormai ero giunto a quella svolta della mia vita in cui tutto mi sembrava insignificante, le persone a me care mi avevano abbandonato, le amicizie si erano rarefatte e dileguate, sperimentavo quello speciale stato dell’anima in cui ciò che prima mi dava calore e consentiva l’espandersi del mio essere vitale si scioglieva come neve al sole.
L’ispirazione che mi aveva sorretto nella mia vita d’artista e mi suggeriva temi e tonalità, consegnandomi inerme all’impero delle emozioni, si era ridotta al lumicino.
Le mie tele parlavano per me: si susseguivano con monotona ossessione, sempre lo stesso sguardo assente, chiuso al richiamo del mondo, preferivo isolarmi tra le mura della casa e ritraevo gli interni. Talvolta solo muri, indagati tra le pieghe della calce, oppure impropriamente illuminati dal fascio di luce che trapelava da un’anta della persiana, rimasta socchiusa per distrazione. Talaltra piani inclinati che creavano strane geometrie, giochi perversi di vuoti e di pieni.
La calura estiva quel pomeriggio non mi dava tregua. Avevo abbandonato la lettura e, per una specie di regola del contrappasso, più ero alla ricerca di pensieri profondi e più mi concentravo sui dettagli, sugli aspetti minuti. Di quella lettera a Lucilio, sul suicidio, a me colpiva il numero, settanta. Settanta volte sette pensavo e mi sembrava un ammonimento, forse un anelito verso l’eternità.
Sapevo di essere giunto a meta, mi sentivo impegnato a pianificare la mia uscita dal mondo. Con un ultimo residuale moto di ubris mi rifiutavo all’idea che l’Altissimo disponesse per me. Eppure mi ero accostato con umiltà a quelle pagine, spogliavo il gesto, che mi prefiguravo in futuro, di ogni unicità, tutto era già stato scritto prima e meglio di ora.
Mi riscossi alzandomi, intenzionato a raggiungere il bagno nel quale avrei rintracciato il rasoio che usavo in alternativa a quello elettrico. Durante il percorso, la persiana aveva le ante accostate, d’istinto mi affannai a richiuderla, mi lasciai convincere da quei moti involontari che l’abitudine ti rende cari. Lo sguardo si soffermò sull’aia. Il sole alto nel cielo mi ferì con l’usuale baldanza. Quante volte avevo ritratto quello spaccato di natura operosa, il forcone abbandonato in appoggio al tronco dell’albero, i covoni non ancora ultimati, il barroccio con sopra gli utensili agrari o qualche coccio mal ridotto e, disteso alle sue ruote, chissà quale umile contadinello accovacciato per la sosta con il suo cappello di paglia.
Un senso di rincrescimento e di nostalgia mi pervase, ma fu questione di pochi attimi. Ricacciai la tentazione della tristezza, così non mi fermai a riflettere su quanto e come gli ultimi anni mi avessero cambiato. Non avrei saputo sostenere il senso di colpa per quell’isolamento caparbio che aveva marcato la mia distanza dal mondo.
Spostatomi nella cucina, vi trasportai il cavalletto.
Mi muovevo a scatti, un’ansia mi spingeva a comporre l’immagine, l’ultima immagine che avrei ritratto. Il tavolaccio mal squadrato in semplice legno di castagno attrasse la mia attenzione e ci simpatizzai. Lo posizionai di traverso. Qualcosa tuttavia mi disturbava. Mi affrettai verso la piattaia e, aperto uno dei cassetti che divideva l’alzata dalla parte inferiore del mobile, con ansia rimestai all’interno e distolsi lo straccio cencioso di un grigio ceruleo che un tempo era stato modellato a comporre la camicia maschile. Sebbene di modeste dimensioni, fu sufficiente a ricoprire nella sua interezza il piano del tavolo, anzi con un lembo spiegazzato e rialzato la stoffa accolse i residui del pasto frugale: gli acini d’uva sgranati dal raspo, i pomi di un rosso acceso, unico accenno alla passione vitale, la brocca di rame, rifulgente: come la coppa, ricolma a metà di sola acqua, in esse si specchiava la fiammella stentata del cero che ero riuscito a recuperare, nascosto in qualche anfratto della casa. Mi accomodai per terra, la tavolozza e i colori accostati sul tappeto a portata di mano. Trassi un lungo sospiro prima di rimirare la natura morta. Presto mi risvegliai dal torpore che mi aveva colto di sorpresa e mi misi all’opera, di buona lena. Mi piacque pensare che la fiammella scandiva il tempo che mi rimaneva. Dipingevo con la mano sinistra e non era la prima volta. Nella mano destra stringevo il rasoio. Meglio utilizzare questa seconda che nell’ultimo gesto, senza tremare, sarebbe riuscita vittoriosa.
***
I vincitori del volume “Versi di Sardegna terza edizione” saranno contattati via e-mail per l’invio del premio.
Complimenti ai vincitori, finalisti e partecipanti del Contest “Versi di Sardegna terza edizione”
Info
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Complimenti ai vincitori e ai finalisti!
Bravi.