Sulla paura ovvero sulle speculazioni mentali e reali
Quando parliamo di paura abbiamo un contenuto mentale idoneo a questa parola? Oppure invece no? Come poterla effettivamente descrivere? Come raccontarla rispetto alle sproporzionate dissomiglianze che si porta in senso?
Il termine – direi generico – si accosta ad un’eterogeneità di contenuti che impone di fare un po’ chiarezza e di porre un distinguo. Quanto meno preliminare. Potrei infatti – semplificando – ripartire le paure in due categorie: che chiamerò di tipo 1 e di tipo 2.
Se per esempio adesso sentissi tremare la terra sotto i piedi, sarebbe del tutto normale che esperissi paura e questa potrebbe addirittura permettermi di compiere le azioni necessarie per mettermi in salvo. In questo caso sperimenterei una paura di tipo 1. Una paura cioè totalmente dipendente da un pericolo reale.
In questa prima categoria posso fare rientrare anche tutte quelle paure che pur non dipendendo in via direttissima da un pericolo evidente, intrattengono con esso un rapporto mediato da un atto logico-riflessivo, il quale attinge a sua volta dalla realtà e tiene perciò conto di alcuni suoi segnali premonitori.
Faccio un esempio. Sebbene io non avessi paura dei cani, né mi trovassi di fronte ad un cane rabbioso in questo momento, potrei comunque avere paura di incontrare un cane libero di guardia alla sua proprietà se mi trovassi in certe condizioni.
Tutto questo a ragione di un pensiero che mi rimanda ad un possibile logico che si aggancia all’esperienza e alla situazione circostanziale di quel momento: in questo caso mi trovo infatti a camminare in un posto nuovo ed isolato, lungo le tipiche strade di campagna, quando scorgo una casa in lontananza. A questo punto potrei immaginare di trovare un cane libero di difesa alla sua casa ed evocare quindi la paura di un possibile atteggiamento aggressivo da parte del cane, decidendo così di evitare di avvicinarmi troppo a ridosso di quella proprietà privata.
Le paure di tipo 1 sono pure perché non subiscono contaminazioni alcune. Esse hanno a che fare o con pericoli tout court evidenti, o con anticipazioni di questi del tutto legittime, perché conseguono – lo abbiamo visto – al pensiero di una situazione di cui conosciamo le possibili conseguenze pericolose. Si potrebbe quindi dire che questo tipo di paura è assolutamente sana e protettiva.
Essa infatti non vive nella trascendenza, ma di dati reali che si manifestano nell’arco spazio-temporale medesimo in cui si colloca la vita. Sono altresì risposte che diremmo naturali, che come già avrete sicuramente avuto modo di sentire, si prestano ad una funzione naturale e specifica per il soggetto che sperimenta la paura, inducendolo a mobilitarsi con risposte di difesa o precauzionali.
Le paure di tipo 2 invece sono “s-pure”, non sono sane e hanno un’origine diversa. Queste paure dipendono dalle nostre suggestioni. Sono paure che mi piace chiamare fantasmagoriche, avendo la caratteristica comune di farci proiettare immagini spaventose in un tempo del tutto fuori dalla nostra portata.
Esse provengono dal caos inconscio che ci abita e ci trasportano in un tempo che non appartiene né al presente né ad un possibile logico, bensì ad uno scenario del tutto immaginifico, che talvolta è assolutamente illogico e a-razionale (pensate alle fobie).
Alcune volte, queste paure, possono dipendere dalle ombre del passato, dalla memoria sensoriale di cui non siamo più consci o dai traumi ecc.; altre volte invece dal futuro, prendendo le sembianze di quel terrore ingigantito che appartiene all’ignoto. Si tratta però, in un caso e nell’altro, di una paura totalmente slacciata da pericoli reali e dai dati di realtà presenti in quel momento. Questi sono mostri che possono avere effetti deleteri.
Dobbiamo infatti considerare che le speculazioni mentali con cui ne avvalliamo la percezione, possono diventare così potenti da indurci a credere che sia bene avere paura e a continuare a temere per le cose di cui invece non esiste alcuna oggettiva ragionevolezza di avere paura. Una volta compromessi i pensieri, segue la fisiologia del corpo e talvolta, anche il comportamento fuorviate.
Diversamente dalle paure di tipo 1, i comportamenti evitanti che si producono per mezzo di questa categoria di paure, o di fantasmi, non hanno un vero scopo difensivo per il soggetto della paura, bensì un conseguente che, se protratto nel tempo e rinforzato, ne inficia la libertà personale con condizionamenti di grande portata.
La prima differenza fondamentale tra le due categorie di paure è quindi quella relativa al tempo: le prime intrattengono con esso un rapporto d’immanenza, le seconde invece sono totalmente slegate da questo fondamentale primo dell’esistenza, determinandosi con un carattere non oggettivabile, bensì immaginifico. A questa prima differenza fa seguito un’altra particolarità: la loro corrispettiva natura universale e singolare.
Le paure di tipo 1 vivono di un universale che le consente di diventare – come invero già lo sono in vari campi artistici ‒ un valido prodotto estetico. Pensate alle melodie di musica classica di Wagner, alla drammaturgia tipica del teatro greco, o ancora ad alcuni libri psicologici di successo come a quelli di Stephen King: tutti questi prodotti estetici hanno il potere di intercettare l’universale insito nella paura di tipo 1 e di giocare con le sue combinazioni per farcela provare nei più svariati modi. Tutti i film di Alfred Hitchcock o di Dario Argento sono un ottimo esempio di rielaborazione estetica di questo tipo di paura. Un buon regista ne scova gli elementi essenziali e ricompone la paura per farla diventare scenica, renderla attraente, e anche, perché no, desiderabile. Infatti, in un certo senso, tutto questo ci piace perché esorcizza la paura, facendone qualcosa di comprensibile ed eclatante.
Sulle altre paure, invece, fare tutto questo non è possibile. Non è possibile nemmeno fotografarle chiaramente e comprenderle. La nostra paura non ha niente a che fare con la paura di tutti. Con la paura cioè universale, quella fondata, che si presta ad essere estetica, coinvolgendo tutti allo stesso modo.
Non è un caso che se per gioco, tra amici, ci raccontassimo le nostre paure più intime, molte di queste provocherebbero una fragorosa risata tra gli udenti. Per alcuni sarebbero assurde, per altri appena comprensibili, mentre per noi così importanti da averci magari già compromesso.
La nostra paura, come disse in una conferenza lo scrittore e docente Alessandro Piperno, è una “passione ecumenica e straordinariamente inclusiva”, perché ospita tante cose diverse spesso contraddittorie. Non a caso, a questo mondo voraginoso e complesso, si sono accostate, non l’arte, la politica o la scienza – che he ne ha studiato i meccanismi di attivazione fisiologica e neurale, mettendone in luce le sue funzioni evolutive e l’origine biologia – bensì la psichiatria e le discipline psicologiche.
“La paura di essere e al contempo di non essere uno scrittore” che attraversa Piperno, ci regala l’essenza imprecisa di questa categoria di paure. Essa in maniera paradossale riesce ad ospitare cose che non dovrebbero coesistere determinando un sentimento fortemente ambivalente. Pensate, per esempio, alla paura di amare o di non amare affatto che talvolta coinvolge l’innamorato, in cui l’una seppur opposta all’altra, finisce per esserne inseparabile.
I risvolti antitetici di questo genere di paure generano un sistema mentale senza via d’uscita: è l’aut-aut di Kierkegaard in cui qualsiasi scelta si prenda, il risultato sarebbe quello di ritrovarsi in una situazione di grande disagio interiore.
Le paure di tipo 2 ci conducono dentro un circuito di pensiero misterioso e di un’ampiezza tale da generare quel sentimento che les poètes maudit chiamavano spleen, un’angoscia profonda che inibisce il senso della vita paralizzandone il suo corso.
È questo il caso emblematico di Antonia Pozzi. Con una poesia potentissima intitolata Paura, la giovane scrittrice riassume in pochi versi la carica distopica e deflagrante di questo sentimento: è “sotto il peso nero dei cieli” che la forza della paura la comprime con la sua “corolla violacea di spettri”, facendola tremare “come un colchico lungo” e sentire “nuda come uno sterpo”.
Lasciando a voi la voglia di scoprire la compiutezza di questo breve componimento, vi rimando al finale: forse vi sorprenderà sapere che pochi anni più tardi l’eredità di questo scritto fu la sua stessa morte suicida. Oltre al diario e alle lettere, questa giovane anima letteraria che decise di togliersi la vita alla tenera età di 26 anni, ci lascia in memoria il suo canzoniere, intitolato Parole. È qui che troviamo Paura. Queste parole macchiano il foglio bianco come una profezia autoavverante, tacciando la paura di alto tradimento.
Le paure di tipo 2 infatti spengono senza un reale motivo, imprigionano il soggetto, facendogli esperire il giogo di un vivere contrito e sventurato. Questo tipo di paure possono trasformarsi in un forte malessere psichico. Per questo stessa ragione vanno prese in carico e risolte.
Con questo non voglio certo dire che la paura sia di per sé stessa la causa prima di qualsiasi malessere psichico, solo non dobbiamo sottovalutarne l’importanza rispetto al nostro benessere mentale. La paura è infatti una delle cinque emozioni primarie e insieme alla rabbia, alla tristezza, alla gioia e al disgusto, qualora se ne alterasse per qualche ragione il normale equilibrio, determinerebbe uno scompenso tale – a livello del quadro mentale complessivo – da generare indubbiamente sofferenza.
Una chiave di volta alle paure di tipo 2 e alla sofferenza che da esse deriva, esiste: è la psicoanalisi. A portare la persona in stanza di analisi è quasi sempre la sofferenza, ossia la vera motivazione che la costringe a rivedere, ripensare e modificare tutto ciò che prima della comparsa dei sintomi ha sempre considerato come normale, scontato, abitudinario, funzionale e in qualche caso anche appagante.
Quello della psicanalisi è infatti un percorso che tende asintoticamente alla verità: liberando la vita psichica dalle suggestioni che provengono dall’inconscio, la psicoanalisi ricolloca questo genere di paure nel giusto campo, permettendoci di saggiare la loro insufficienza rispetto al piano di realtà.
La figura dello specialista ci guida in un dialogo interiore verso la scoperta dell’inconscio nella vita psichica, per ripulirla dalle sue influenze, riabilitandoci ad un rapporto con la realtà che vive esattamente nel tempo e non del tempo remoto o futuro che siamo in grado di evocare lasciandoci travolgere.
Miller diceva che “la verità ci è talmente indispensabile che ne scontiamo la perdita con gravi malattie” e che “l’inconscio è un fantasma che continua a girovagare fino a quando non ascoltiamo ciò che ha da dire”.
Se riflettiamo su questa passione primigenia, possiamo accorgerci in prima persona che nonostante le differenze di contenuto con cui possiamo esserne portatori, la condizione sacrificata e insieme minacciosa cui ci sottopone, ci accomuna innegabilmente. Per cui nelle sue determinazioni ultime questo tipo di paure hanno a che fare con un sentimento di inadeguatezza e di disagio che ci perseguita tutti prima di capire chi siamo veramente, prima di accettarci e di esistere per ciò che siamo.
Written by Elisa Magnani