“Memorie di una Geisha” di Arthur Golden: assoluta fiction?
Secondo una teoria non del tutto mendace, la lettura di un libro può aiutarti a meglio comprendere qualcosa che è stato letto in precedenza. Qualche giorno fa conclusi la lettura di Lavacro di Maurizio Fierro, comasco, il cui io narrante è un poliziotto canadese di origine pellerossa.
In Memorie di una Geisha, lo statunitense Arthur Golden è, nella finzione letteraria, una giapponese che, figlia di un povero pescatore, diventa una fra le geishe più rinomate della sua epoca.
Il lettore, mentre si snodano le scene raccontate, si culla nell’illusione che sia tutto vero e che quell’io si stia confidando con lui.
È raro che il lettore si identifichi nell’autore, quanto nel personaggio narrato in prima o in terza persona. Questo vale anche per i romanzi di Golden e di Fierro (e di chiunque altro). E se qualcuno dicesse che la mia teoria sia banale, gli risponderei: Sì, lo è, essendo palesemente reale.
Ed ecco che, grazie al romanzo Memorie di una Geisha di Golden, prendo quasi subito coscienza di un’ulteriore ovvietà. Entrambe le opere sono ricche di descrizioni di particolari che, in genere, sono tralasciati da altri scrittori, del tipo: si alzò dalla seggiola, si toccò la ciglia destra, e sentì un prudere alla narice sinistra, per cui prontamente si grattò. Che sono solo esempi da me inventati. Questa cura di atti minimi può recare fastidio al lettore seriale che non vede l’ora di arrivare alla fine della storia, perché bramoso di sapere dov’essa porta a condurre.
Secondo un paio di consanguinee a caso il mio modo di leggere (badando allo stile) mi distrae dalla trama, per cui tendo a dimenticarmi di alcuni fatti narrati. Capita sempre che una lettura sia manchevole, per cui sarebbe giusto rileggere, a distanza di anni, la medesima opera… Ma quante vite dovremmo avere? Teniamo anche presente che ogni anno nuovi intriganti scrittori creano nuove mirabili opere… e la lettura un gioco senza fine, come calcolare, con una certa approssimazione, i granelli di sabbia del Sahara o del Gobi che, provenienti da chissà dove, sempre un po’ svolazzano di qua e di là.
Dopo la lettura di Memorie di una Geisha, consiglierei di scorrere l’intrigante nota di zia Wiki che, dopo aver descritto minutamente la trama del romanzo, fa cenno a una controversia legale che fece seguito all’uscita del romanzo. A proposito di ciò, dico soltanto che i Ringraziamenti finali, che notevolmente contraddicono La nota del curatore iniziale, non sono stati granché graditi dalla musa ispiratrice del racconto.
Ecco che sorge ora una domanda: trattasi di assoluta fiction? Fino a che punto lo è? Difficilmente il lettore può rispondere adeguatamente alla domanda. Questo mi fa sempre di più apprezzare l’avvertenza che Silverio Scognamiglio ha posto quale esergo del suo romanzo Storia del mio nome: “Le persone descritte in questo romanzo sono tutte esistenti o esistite e i fatti narrati sono tutti realmente accaduti, tranne quelli che ho inventato.”
Uno scrittore non va giudicato in base al numero e nemmeno alla qualità delle similitudini e delle metafore prodotte, per non parlare delle allegorie, che però aiutano a comprendere il suo talento. Nel romanzo Memorie di una Geisha di Golden le similitudini e le metafore abbondano come nemmeno in Fine di un matrimonio di Mavie da Ponte! E sono squisite, imprevedibili, succose, e alcune delle quali sono mirabilmente assurde. Qualcuna non riuscirò a non riportarla, temo.
Pagina 15: “Quand’ero bambina ero convinta che il mare si fosse preso un terribile raffreddore, perché tossicchiava sempre e in certi periodi emetteva uno spaventoso sternuto, che non era altro che una tremenda folata di vento carica di gocce d’acqua.” – detto questo, detto tutto.
Se un poeta non rinuncia all’infanzia significa che intende rinunciare alla quiescenza. Finché c’è metafora c’è poesia!
Dove viveva la famiglia di Chiyo (così si chiamava “A quei tempi” quell’io narrante)? Così la descriveva: “Probabilmente sarebbe crollata se mio padre non avesse ricavato un palo di legno da un’imbarcazione da pesca finita sugli scogli e non avesse puntellato con quello la grondaia, il che dava alla casa l’aspetto di un vecchio sbronzo appoggiato a una stampella.” – e poco dopo essa è descritta come “quella piccola casa ubriaca in cima alla scogliera”. Era povera gente, non solo squattrinata, ma anche sfortunata. Una madre morente, due figlie femmine da mantenere… oppure da “vendere”.
Ogni cultura ha le sue opinioni. “La signora Frenesi” – nell’esaminare la piccola Chiyo, dice: “Tu sei dell’anno della Scimmia, mi basta guardarti per capirlo! Quale abbondanza di acqua c’è in te! Otto, bianco; il pianeta Saturno. E sei una ragazza molto attraente. Avvicinati.”
Invece, dopo aver esaminato la meno graziosa sorella maggiore: “… emise una specie di grugnito per indicare che con Satsu aveva terminato e si girò verso di me.”
Ho discusso ieri su Memorie di una Geisha con l’amata mia consanguinea, la quale m’aveva spinto alla sua lettura, e che poi lei ha messo fra quelli da leggere al più presto, dopo aver visto il film. La questione è così sintetizzabile: una geisha non è una prostituta. E su questo pienamente concordo. Quel che poi capiterà a Zucca (compagna di okiya, cioè di casa per geishe), è esemplare. Dopo la guerra, per via della crisi e del calo di gente disposta a investire dei piccoli capitali pur di frequentare i deliziosi appuntamenti con una geisha, ella si è ridotta a condurre una vita disgraziata.
Ergo, si tratta di due attività diverse, con qualche punto in comune. Anche un attore richiede una platea che, ove essa venga a mancare, lo costringe a cambiare lavoro o a ridursi alla fame. Molte attività delle geishe sono di tipo recitativo e legate a particolari danze. Il semplice sedersi a un banchetto a base di tè o di sakè richiede una precisa osservanza di riti e di ruoli. Gran parte della sua vita sociale è improntata su una serie di crismi da rispettare. Anch’io, quando partecipavo a riunioni di lavoro, evitavo con cura di posare i piedi sul tavolo o di raccontare freddure. Anche se talora non riuscivo a esimermi dall’usare un tono leggermente ironico.
Mi viene in mente ora che su uno scaffale stagnano da alcuni decenni due diverse edizioni de Il cortegiano di Baldassarre Castiglione. Sento che lo dovrò leggere al più presto.
“All’improvviso alle sue spalle apparve una donna più anziana, alta e nodosa come una canna da bambù”: un assurdo da un punto di vista genetico, che però dà ampiamente l’idea. La similitudine permette di correlare esseri diversi e distanti in un unico discorso: in fondo tutto il Kósmos è paese.
“… più tardi venni a sapere che le geishe sono ancora più superstiziose dei pescatori e non escono mai di sera se prima non vengono toccate sulle spalle da qualche scintilla emessa dalla silice come segno beneaugurante.” – rito viene dal sanscrito ritis, che significa andamento, procedura, un andar avanti. Ho notato, a mie spese, che, invecchiando, i riti, forse non a caso, aumentano di numero e d’importanza, diventando quasi cogenti.
Nella sua nuova casa, Chiyo s’imbatte in una gerarchia di donne, la più anziana delle quali è “La Nonna” che “aveva un terrore del fuoco persino maggiore di quello che la birra prova nei confronti di un vecchio assetato.” – pochi anni dopo, in piena guerra, gente come lei avrebbe patito dei terrori assai più esagerati.
“… mi ero ripromesso di essere obbediente quanto una mucca legata a una corda, nella speranza che la Madre mi mandasse subito a scuola.” – costei era la vera padrona dell’okiya. In arşân (reggiano nel mio idioma) la padrona di casa, cioè la moglie, è detta la rèşdōra, la reggitrice. Il capofamiglia maschio è al rèşdōr. Solo teoricamente lo è, se vale la celebre battuta di Woody Allen: a casa chi comanda sono io, chi decide è mia moglie. Nell’okiya non si muove ventaglio che Madre non voglia. Essere protetti da lei significa stare nel sicuro, almeno finché quella non cambi, per disgrazia, idea.
“In quelle mie prime settimane trascorse nell’okiya avevo finito per concepire un irragionevole affetto per la Madre (un sentimento simile a quello che un pesce deve provare nei confronti del pescatore che gli toglie l’amo dalla bocca).” – altra similitudine che la dice lunga sulla situazione, nonché sulle doti descrittive dell’autore, che pare proprio calato perfettamente nei panni dell’io.
“Qualunque opinione si potesse avere di Hatsumomo, nel nostro okiya era come un’imperatrice perché era lei a guadagnare i soldi che permettevano a tutte noi di sopravvivere.” – è lei la vedette che attira gli sponsor, diremmo oggi.
Ha un carattere difficile, un temperamento ipocrita, che sa essere molto cattivo, specie con chi potrebbe un giorno soffiarle il posto di geisha numero uno. Ed è sempre scortese e offensiva nei confronti della piccola e graziosissima Chiyo.
Una cosa fa penare Chiyo e il lettore: a causa di tali cattiverie la squattrinata ragazzina sta accumulando tutta una serie di debiti che non si sa quando e se riuscirà mai a pagare. E tutto questo rallegra la perfida Hatsumomo, che tanto si adopera per mettere in crisi l’aspirante geisha.
“Conduciamo la nostra esistenza come acqua che scende lungo una collina, andando più o meno in un’unica direzione finché non urtiamo contro qualcosa che ci costringe a trovare un nuovo corso.” – questo capitò anche a me. A voi no?
Occhio, però: “… i sogni possono essere tanto pericolosi: covano sotto la cenere come un fuoco e a volte ci consumano completamente.” – l’Anima ha questo di bello (e di inquietante), che non è mai sazia (di noi).
“Avevo ormai quasi dodici anni e il mio aspetto di era fatto più da donna, diversamente da Zucca che aveva ancora l’aria di una bambinetta.” – ma anche lei crescerà, in età e in malizia, vedrai…
“In precedenza, gli uomini per strada non si accorgevano di me, neanche fossi stata un piccione; adesso, mentre passavo loro accanto…” – reagivano a modo loro (soprattutto “con gli occhi”).
“… non ero più rivolta all’indietro verso il passato, ma in avanti verso il futuro.” – verso di me che ti sto ora leggendo.
Devi ancora lavorare con l’autostima. Paragonandoti a Hatsumomo, dici: “Di fronte a lei io sono tanto insignificante quanto una pozzanghera rispetto all’oceano.” – un simile liquido è, se ci pensi. Tu però ogni giorno scorri di più, mentre lei pare rallentare.
La rivale di quell’ancora inclìta geisha è Mameha, che ora ti sta miracolosamente proteggendo e che ti dice: “… a volte i fiumi spezzano via le dighe.” – il che è vero, in genere per disgrazia, talvolta per fortuna.
“… attribuendo all’immenso universo il ruolo giocato da noi, comprendiamo perfettamente di essere soggetti ogni giorno all’influsso di forze che non possiamo controllare, non più di quanto il povero coleottero sia in grado di frenare il nostro gigantesco piede che scende su di lui.” – se penso a tutte le cetonie dorate che ho infilzato con degli spilli da ragazzino… non so se tali empietà mi saranno mai perdonate dal Grande Entomologo! Conto sulla buona parola di Edward O. Wilson!
Ora il tuo compito è diventare quello che non puoi più evitare di essere, anche se il tragitto che dovrai compiere è irto di pericoli. Dici: “Cercare di sopravvivere in un okiya con Hatsumomo è come, per un maiale, pretendere di uscire vivo da un mattatoio.” – azzeccata similitudine, nevvero?
“Le geishe hanno passioni come ogni altra donna e commettono errori al pari di tutti.” – sono anche loro esseri umani, che soffrono, che amano, che gemono.
Un avvenimento, descritto circa a metà di Memorie di una Geisha, ti fece “sentire simile a un grillo in cattività che fosse finalmente riuscito a evadere dalla sua gabbietta di vimini.” – e questa sarà gran parte della tua vita, d’ora in poi. Sarai ogni giorno libera di rischiare il tutto per tutto, al fine di sentirti finalmente in grado di dire la tua nell’alveo del tuo destino.
Qualcuno a volte si diverte a spiegarti come va il mondo: “… l’anguilla vagabonda passa la sua intera vita a cercare una casa; e che cosa credi che abbia una donna dentro di sé? Una cavità, dove all’anguilla piace stare. È da questa cavità che esce il sangue ogni mese, quando ‘le nuvole passano sopra la luna’, come diciamo a volte.” – una pur discreta educazione sessuale serve a farti capire il mondo.
Poi accade tanto, quasi di tutto, quasi nulla difettando, e l’esito fatale è questo: “… Hatsumomo schiumava dalla rabbia, però Mameha non se ne preoccupò. Per noi era venuto il momento, mi disse, di farla volare fuori del ring.”: anche questa è la vita, un’eterna battaglia dove sconfitti e trionfatori si alternano in una giostra non del tutto imprevedibile.
“Se mi aveste chiesto perché desideravo simili cose, vi avrei risposto: perché un caco maturo ha un sapore tanto delizioso? Perché il legno manda odore di fumo quando brucia?” – perché l’amore che arde può finire per ustionare?
Uno dei pretendenti di Chiyo, che da geisha si chiama “Sayuri”, è il Vice Ministro, un potente disgraziato, pressoché indesiderabile, uno che ama cibarsi di “pezzi di interiora di calamaro sotto sale. L’idea di mangiare un cibo simile potrebbe apparirvi nauseante.” – e invece, m’incuriosisce. Del resto, nuêter arşân amiamo tantissimo i ventrigli lessi di gallina, che noi chiamiamo magòun.
Tutto ha un epilogo, sia pure sempre provvisorio e, giunta alla sua foce, la vita scorre “proprio come un fiume le cui acque abbiano cominciato a gonfiarsi…”.
A volte, non sempre per fortuna: “… non c’è nulla come il lavoro per superare una delusione…” – in quanto ti aliena per qualche ora dal presente…
Come disse una volta Mameha: “non diventiamo geishe perché vogliamo che la nostra vita sia felice, ma perché non abbiamo altra scelta.” – e capita a ciascuno di noi d’imboccare l’unica strada che dal destino ci è concessa.
Solo chi mi conosce può capire quest’apparente illogicità: la vista va compresa (e combattuta) tra i due opposti Fato e Destino. Si rimane tutti in attesa di un’agnizione finale che dia un senso alla nostra vita.
La tua spunta a pagina 546. Complimenti!
“… non credo che nessuno di noi possa parlare del dolore finché non ne è fuori.” – credo, ma non ho un’assoluta fede, che tu abbia abbastanza ragione.
“Mi parve che tutte le persone che avessi conosciuto, morte nel frattempo o scomparse, non mi avessero in realtà mai abbandonato, ma continuassero a esistere dentro di me…” – e per tale miracolo ne sei riuscita a parlarne, raccontando a noi la tua e la loro straordinaria storia.
E di tutto questo che posso fare, se non ringraziarti dal profondo dell’anima?
“Quali che siano stati i nostri conflitti e i nostri trionfi, per quanto indelebile sia il segno che questi abbiano potuto lasciare su di noi, finiscono sempre per stemperarsi come una tinta su…”.
E su dove, se non proprio… lì?!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Arthur Golden, Memorie di una Geisha, TEA libri, 2000