“Con la legge o la spada” di Michela Rivetti: romanzo ambientato a Reggio Emilia
In primo luogo riporto una salvifica nota di pagina 2 in cui è detto chiaramente, come già nel precedente romanzo di Michela Rivetti (Il convento della discordia), che: “Edizioni Il Viandante ha scelto di non chiedere alcun contributo economico ai propri autori per la pubblicazione dei loro libri” – semplicemente bravi e arguti, mi viene da dire.

Con la legge o la spada è il titolo del secondo romanzo storico di Michela Rivetti ambientato nella città di Reggio Emilia e nei suoi dintorni. Quella o è disgiuntiva o avversativa? Collega le due parole o le mettono in contrapposizione? L’una vale l’altra, come dire: partiamo oggi o domani, si vedrà! Oppure, ovvero: O Roma o Morte? Da un punto di vista logico cambia un po’. Un detto delle mie parti, riportato da un noto politico piacentino recita: Non si può andare a messa e stare a casa. Nella vita occorre decidere: Enten-Eller. A volte la scelta è obbligata, ma non del tutto. Ma occorre essere eroi per saperla evitare. Salvo D’acquisto e Padre Massimiliano Maria Kolbe se lo chiesero se era il caso di essere martiri della storia o la loro fu una decisione assunta senza pensarci nemmeno un istante? Sento che se un eroe parte da un’assenza di ragionamento, è soltanto un disgraziato. Per essere un uomo di valore occorre intelligenza, bontà e un granello di follia.
O io o loro! è una frase terribile che contrappone sé agli altri, e che provoca una reazione, positiva o negativa a seconda del caso (e della necessità).
Nella bella copertina de Con la legge o la spada, che ha uno sfondo verde scuro che cela forse un vano anelito, c’è un’allegoria terribile di quella che, storicamente, è la giustizia umana. Dai tempi di Alessandro Magno, Cesare, Carlo Cotica (appellativo popolare di Carlo Magno, da cui l’espressione fîd dai tèinp ‘d Carlo Còdga…, che significa che il fatto ha radici molto antiche), Napoleone, Hitler etc… la storia è stata bilanciata grazie alla spada. Vinca il più forte, non il migliore! E che la bilancia penda dalla parte di chi dimostra maggior virtù guerresca!
L’uomo non scordi mai d’essere un animale sociale, sottoposto all’attuale Bestia Coronata che meglio ha dimostrato di meritare il Potere, con l’astuzia e con la violenza, se necessario. In primo luogo con la spada e poi, quando e se potrà, con la legge. Questo ragionamento dovrebbe valere per tutti, anche per chi giustizia un vile tiranno e poi lo appende, impietosamente, a capo in giù.
Michela Rivetti è maestra nell’individuare le tattiche e le strategie con cui i contendenti seguono il miraggio di quel Mostro che porta, inevitabilmente, secondo Pier Paolo Pasolini, a una bieca anarchia, al fare quel che vuole chi gestisce il Potere, come se lo Stato fosse un campo da arare e coltivare, costringendo gli altri, se intendono sopravvivere, a servire ai suoi fini.
Secondo Leonardo Sciascia la morte un tempo era vissuta con serenità, tanto che quando un familiare era lì lì per andarsene, lo si avvertiva, come se dovesse prepararsi a un bel viaggio, e gli si chiedeva di recare i saluti a chi era già da anni trapassato. Questo accadeva quando a predominare era il senso religioso, la fede in un tempo che era al di là dell’attuale e assai migliore. Non sempre e ovunque è stato così, ma solo ove regnava l’armonia. Non certo nell’Italia delle Signorie, o nell’attuale Villaggio Globale.
Nella Rezo (Reggio) descritta da Michela Rivetti, la morte, specie quella occorsa con l’assassinio, è vista come un’ingiustizia che necessita di un’immediata vendetta, al di là di ogni valore etico.
Le cronache testimoniano giornalmente che questo folle spirito è ben vivo. L’ingiustizia e il sopruso generano una serie infinita di stragi che pare non avranno mai fine. Ci sarà sempre qualcuno da uccidere, da bombardare, da annientare, da estinguere. Sic transit gloria mundi!
C’è del marcio a Rezo, perché c’è del marcio nell’uomo!
Giambattista dei Conti Bebbi, nel mezzo di una sua lunga lettera, scrive: “… Mi è balenata l’idea di tornare sul sentiero di Dio che voi, padre, avevate predisposto per me, sed so che quella non è la mia strada. È un paradosso, lo so, sed io sono fatto per le armi. Forse proprio per portare misericordia nella guerra, renderla civile e non lo spettacolo barbaro e selvaggio a cui ho assistito…” – viene da ridere e da singhiozzare a leggere queste parole: guerra civile intesa come guerra del popolo, anziché quello che da sempre è, un cancro che debilita fino a che non uccide.
La scrittura di Michela è, al solito, micidiale e composita. Come già nel primo romanzo, nei dialoghi sono inseriti vocaboli latini e termini rezani, popolari, e ogni tanto spuntano espressioni talora tornate di moda. Una volta si diceva sì, oppure no. Ora, specie nei social, i giovani dicono, come capita ad Alessandro a pagina 77 de Con la legge o la spada: “Sì, sì!” – anche se per lo più la forma attualmente usata è sisi… La qual cosa significa: sì, senza alcun dubbio. Chi ha delle perplessità non merita un adeguato rispetto, probabilmente è un debole, un perdente, uno che preferisce restare in disparte, un poveruomo.
Nel primo tomo mi identificai con Antonio, il pavido padre, in realtà saggio, e con Paolo, il pavido figlio, in realtà titubante. Stavolta, quest’ultimo invece stava pensando che “aveva bisogno di pensare”. E così concludeva: “Basta, non ne poteva più di essere visto come il piccolo Bebbi fannullone e privo di abilità. Non avrebbe mai brillato come i fratelli ma poteva essere migliore di così…” – ecco che si sta quasi formando un ulteriore milite pronto a partire per la pugna.
Al lettore serve il primo zio telematico che passa, se vuole inquadrare il significato di termini come “punte, tondi, sgualembri, ridoppiati.” – a quel tempo, per salvarsi la vita, occorreva imparare quelle botte della spada, e possibilmente idearne una nuova come quella botta segreta del Corsaro Nero.
C’è chi, per esempio “Giulio”, che viene criticato dall’impietosa madre, che così lo sbeffeggia: “Oh, tu hai letto troppo il Decameron e i poemi cavallereschi. L’amore è la consolazione dei poveri che non possono ottenere null’altro dal matrimonio.” – e questa sentenza viene emessa perché quell’insano figlio è innamorato di una poverella priva di dote, una del meschino popolo. Che scandalo sarebbe, per i Bebbi! Rimane però una speranza, anzi due, o cambia idea oppure che vada dove deve andare a finire chi idealizza in modo assurdo i sentimenti.
Il lettore prima o poi conoscerà la sorte di quel pietoso giovane.
Ai Bebbi e agli Scajoli, e alle loro rispettive tifoserie, non mancano i soprannomi. I primi sono i “Tvaja”, tovaglia, i secondi sono “Cuseina! Cuseina!”, cucina. Da qui sorge d’impeto una metafora, per cui qualcuno dice: “Se noi siamo la tovaglia, allora voi siete la cucina, perché è in cuseina che stanno i servi, quando i padroni mangiano.” – certo che i rezani sono dei tipetti terribili.
Se Giulio ricorda, “stizzito e severo”, che erano stati uccise quattro persone, il fratello Girolamo gli dice in faccia: “Ma erano nostri nemici…” – e allora, perché dolersene. L’unico nemico buono è quello ammazzato senza il minimo rispetto.
Intorno a pagina 131 de Con la legge o la spada (e seguenti) fa l’ingresso in scena “El signor Morotto” – un brigante disposto a collaborare col potere. Mai gratuitamente, sempre seguendo un suo lucroso fine, ovviamente. Pare sia stato sempre così nella storia, non solo italiana.
Dialogo fra Paolo e il più maturo Giambattista: “Lo Stato non dovrebbe avvalersi dell’aiuto dei criminali.”
“Vere… sed i tempi a volte lo impongono. Quando il potere debole e i nemici tentano di minare la sicurezza… beh, si può essere costretti a tollerare criminali che hanno forza e prestigio per mantenere l’ordine, dove le istituzioni non sono ben radicate. Un’estrema ratio.” – come già prospettai analizzando il precedente romanzo, mi piacerebbe che Michela Rivetti conoscesse l’opera e la persona di Luigi Iroso, autore, fra l’altro, di Napoli sfregiata, in cui si narra che chi accolse Garibaldi come un trionfatore non esitò ad affrancare dei delinquenti, a cui fu affidata la tutela dell’ordine pubblico!
A pagina 151 de Con la legge o la spada è riportata la gustosa espressione di Ludovico Ariosto che, oppresso dai troppi “fratelli e sorelle”, dice: “mi tocca lavorare” – e per un artista in genere e per un poeta in particolare l’unica attività non alienante è lo scrivere in modo illimitato. Sei alienato anche in quel caso, ma non hai il tempo né la necessità di accorgertene. Dice il buon Ludovico: “a me piace essere libero” – cioè costretto unicamente al conteggio delle sillabe e ai voli pindarici, magari sulla Luna!
Gli alleati dei Bebi dicono, a pagina 165: “… siamo pronti a difendervi con ogni mezzo: la legge e la spada.” – che in tal caso coincidono. Questo costringe gli avversari a chiedere l’aiuto di “Chelino”, oppresso fiscalmente dai Bebbi, il quale ha un’ottima ragione per collaborare: “Me fan pagare l’affitto per pascolare le bestie nei miei campi solo perché sono nella loro Contea. Devon morire tutti.” – ma, come docebat Margaret Thatcher, le tasse sono una necessità per uno Stato che diversamente diverrebbe Indigente.
Michela usa i toni della tragedia allorché riporta i gemiti mentali dell’eroe morente: “Tutto è fermo. Tutto è muto. Tutto è freddo. Tutto è buio.” – dimostrando un valore letterario di cui si parlerà.
Un personaggio strambo è Ilario Zoboli, il quale affascina la rivale Lucrezia Bebbi, ed è da questa ammaliato. Le dice: “Questa è la mia famiglia. Voi avete la vostra. Siamo rivali, lo volete capire?! Il potere e le ricchezze sono limitati…” – come lo è l’esistenza di tutti noi – “… quel che abbiamo noi non l’avete voi e viceversa, siamo semper in guerra per ottenere di più.” – e perciò: che sia benedetta la “spada”, nonché la “balista”!
Alla fine che può dire Lucrezia se non: “Et allora continueremo ad odiarci e a soffrire.” – Amen!
Intanto “Antonio si era rinchiuso in osteria e non era rientrato a casa per una settimana, preferendo annegare il dolore nel vino e tra le braccia e le gambe di meretrici.” – che sostituiscono (l’uno e le altre) i mobili e la gente di casa.
Nessuno potrà più recare indietro chi, morendo, sparisce per sempre. Anche nel ricordo? Cosa ne pensa a proposito la prima consanguinea? Perché non ne fa cenno l’autrice?
Quel che prevale è l’effetto tossico dell’eroismo, per cui Zambattista dice: “… Meglio un cadavere calpestato sotto gli zoccoli dei cavalli, piuttosto che cadere per mano di vigliacchi.” – e gli infami che puntano al “vile agguato” – come se la colpa fosse tutta della vittima dei martiri del malaffare. E non di chi ne ha decretato l’ingloriosa fine.
Cosa va cogitando la madre dei Bebbi, per esempio della figlia Lucrezia?
“Nostra madre la vuole usare per stringere nuovi legami, non rinsaldare i vecchi.” – come chi si avventura in nuovi mercati, dando per scontati gli attuali. Anche questo è il mondo in cui viviamo: un intrico di interessi che sempre più s’aggroviglia.
A me desta pena, come già nel primo tomo, ‘sto diciottenne Paolo, che da sempre vorrebbe essere eroe ma che ora teme di perdere “una falange” in battaglia: “… come avrebbe suonato poi?!”
Ben diverso da lui è Giambattista, con quel “lampo feroce begli occhi verdi.” – il guerriero ideale da cantare per un poeta, caro il mio Ludovico!
Questo pensa il buon Paolino: “Diamine, per un attimo mi sono scordato che sto uccidendo. È strano… ho appena cancellato…” – ma io, per rivalsa, ho tolto di mezzo, a mia volta, quel che resta del tuo angosciato pensiero. E dei tuoi eroici patimenti…
Qui Michela ti ha donato l’onore e l’onere della narrazione e non so se gliene sarai grato…
Mi permetto di suggerire il seguente slogan: “Nec spe, nec metu!” – ideale per stimolare ogni sorta di terrorismo guerresco.

Ogni tanto qualcuno, non per errore ma per furbizia, si concede una briciola d’umanesimo: “I benefici di risparmiare una vita sono migliori che il toglierla.” E poi sorge dal nulla una frasetta cinica: “Avrebbero fatto i contadini, se avessero voluto morire nel letto.” – magari sfiancati dalla fatica.
Colgo una definizione religioso-ideologica: “Dio vi ha dato il talento del combattere, è vostro dovere metterlo a frutto. Quando si pugna per la Giustizia e non per potere e ricchezze, si è miti.”
Segnalo un avverbio di luogo che mi ha mandato un po’ in confusione: “… Portalo zà. Presto!”
Tocca ora a un participio passato che tanto, pur rinfrescandomi, m’accalora: “… nella penombra, fesa solo dalla luce tremolante di qualche candela offerta…” – e poi: “La Luna era coperta da nuvole e la notte avvolgeva ogni cosa con pesante oscurità, fesa dal fuoco delle torce dei briganti” – immagino sia fendere il verbo infinito.
“… Rezo è Rezo e qui ci si comporta schietti” – non come nella “Corte” di Ferrara – lo diceva anche l’immaginario zio campano del Tassoni: noi rezani siamo tutti quanti con teste quadre e male ‘ncavate.
A chi le ricorda che “Zulio la voleva sposare”, quella miserevole donnetta, l’atroce prima consanguinea questo sa dire: “Non esiste matrimonio tra un nobile e una contadina, quindi il problema non si pone.”
St’arcigna dama di nome Giglia mi ricorda un po’ la mia nonna paterna, Linda Zuelli, che non tanto era cattiva, quanto fatalmente scondita.
A Rezo se uno, che magari si chiama Antonio Bebbi, scappa (a pagina 405) da “pisciare”, può sempre capitare che un paio di grossi ribaldi cerchino di farlo fuori.
Beh, questo capita dappertutto ci sia una mala infezione d’homo sapiens!
Intrigante come mai (e va semplicemente letto) è il Capitolo 14 de Con la legge o la spada, ambientato nell’Appennino reggiano. In esso si può cogliere l’enunciazione della differenza fra due termini apparentemente equivalenti: “Tra magia e stregoneria, denominatore e strumento sono invertiti.” – ma preferisco rimanere nel vago e nel non del tutto detto. Mi conviene. Anche perché a parlare è “una maga”.
Se non diventa maturo dopo quest’esperienza, per Paolo mi sa che ci sia poco o nulla da fare.
Tra un gioco letterario e l’altro (tipo: “Gli occhi erano caldi e umidi. La delusione sgorgava salata e scivolava verso gli zigomi”) e tra una disfida sentimentale e l’altra (dove i concorrenti un po’ sbandano, attirandosi e rifuggendosi l’un l’altro), si conclude il secondo tomo che, in ciò coincide col primo: non finisce affatto, preannunciando anzi una sua prossima, chissà quanto rapida (conoscendo l’autrice) continuazione…
Anche per il mite Giorgio che raramente reca con sé la spada, perché “è scomoda e difficile da abbinare alle vesti.” – i tempi sono maturi per la pugna e il tramonto, laggiù, si sta lordando di un grazioso rosso sangue.
A pagina 564 e 565 de Con la legge o la spada tre macchioline misteriche indicano che, qualora l’utente lo desideri, c’è ancora altro da leggere, da visionare, da attestare! Il buon Ludovico mica ci pensava a ‘ste novità editoriali!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Michela Rivetti, Con la legge o la spada, Il Viandante, 2024
Bella recensione, anche se fa un po’ passare tutti Bebbi come dei sanguinari, quando sono spesso le azioni degli avversari a costringerli ad azioni violente, come Girolamo che non si cura della morte di quattro nemici, certo, ma da cui erano stati aggrediti per primi!