Contest letterario di poesia e racconto breve “La partigiana”

“Il fiato le si gelava in gola mentre con passo svelto continuava a salire lungo un sentiero che neppure vedeva, un po’ perché coperto di neve, un po’ perché soltanto tracciato, più adatto alle capre che a qualcuno in fuga.” “La partigiana”

Regolamento:

Contest La partigiana
Contest La partigiana

1. Il Contest letterario gratuito di poesia e racconto breve “La partigiana” è promosso da Oubliette Magazine, dall’autrice Beatrice Benet e dalla casa editrice Edizioni DrawUp. La partecipazione al contest letterario è riservata ai maggiori di 16 anni.

La partecipazione al Contest è gratuita.

Tema libero.

 

2. Articolato in due sezioni:

A. Poesia (limite 100 versi)

B. Racconto breve (limite 1000 parole)

 

3. Per la sezione A si partecipa inserendo la propria poesia sotto forma di commento sotto questo stesso bando (a fine pagina) indicando nome, cognome, dichiarazione di accettazione del regolamento. Si può partecipare con poesie edite ed inedite.

Le opere senza nome, cognome, e dichiarazione di accettazione del regolamento NON saranno pubblicate perché squalificate. Inoltre NON si partecipa via e-mail ma nel modo sopra indicato.

Importante: cliccare su Non sono un robot, è un sistema Captcha che ci protegge dallo spam. Per convalidare la partecipazione bisogna cliccare sulla casella.

 

Per la sezione B si partecipa inserendo il proprio racconto sotto forma di commento sotto questo stesso bando (a fine pagina) indicando nome, cognome, dichiarazione di accettazione del regolamento. Si può partecipare con racconti editi ed inediti.

Le opere senza nome, cognome, e dichiarazione di accettazione del regolamento NON saranno pubblicate perché squalificate. Inoltre NON si partecipa via e-mail ma nel modo sopra indicato.

Importante: cliccare su Non sono un robot, è un sistema Captcha che ci protegge dallo spam. Per convalidare la partecipazione bisogna cliccare sulla casella.

 

Ogni concorrente può partecipare ad entrambe le sezioni con una sola opera.

 

4. Premio:

N° 1 copia del libro “La partigiana” edito nel 2024 dalla casa editrice Edizioni DrawUp.

Saranno premiati i primi due classificati per entrambe le sezioni.

 

5. La scadenza per l’invio delle opere, come commento sotto questo stesso bando, è fissata per il 21 luglio 2024 a mezzanotte.

 

6. Il giudizio della giuria è insindacabile ed inappellabile. La giuria è composta da:

Alessia Mocci (Editor in chief)

Beatrice Benet (Scrittrice)

Carolina Colombi (Scrittrice e collaboratrice Oubliette)

Franco Carta (Poeta e scrittore)

Alessandro Vizzino (Editore e scrittore)

Antonietta Fragnito (Poetessa e scrittrice)

Giovanna Fracassi (Poetessa e scrittrice)

 

7. Il contest non si assume alcuna responsabilità su eventuali plagi, dati non veritieri, violazione della privacy.

 

8. Si esortano i concorrenti per un invio sollecito senza attendere gli ultimi giorni utili, onde facilitare le operazioni di coordinamento. La collaborazione in tal senso sarà sentitamente apprezzata.

 

9. La segreteria è a disposizione per ogni informazione e delucidazione per e-mail: oubliettemagazine@hotmail.it indicando nell’oggetto “Info Contest” (NON si partecipa via e-mail ma direttamente sotto il bando), in alternativa all’email si può comunicare attraverso la pagina fan di Facebook.

 

10. È possibile seguire l’andamento del Contest ricevendo via e-mail tutte le notifiche con le nuove partecipanti al Contest Letterario; troverete nella sezione dei commenti la possibilità di farlo facilmente mettendo la spunta in “Avvertimi via e-mail in caso di risposte al mio commento”.

 

11. La partecipazione al Contest implica l’accettazione incondizionata del presente regolamento e l’autorizzazione al trattamento dei dati personali ai soli fini istituzionali (Gdpr 679/2016). Il mancato rispetto delle norme sopra descritte comporta l’esclusione dal concorso.

 

Buona partecipazione!

 

70 pensieri su “Contest letterario di poesia e racconto breve “La partigiana”

  1. LEGATO

    Dal rifiuto nascono i più bei fiori.
    A ogni bivio sentiero congiunto
    ché la strada è battuta già, avanti.
    E se di spine il serto stringe

    Fronte e polsi, loti nascono ai piedi.
    Han ballato in risate di nuvole,
    Uno, sì, col sole tra i denti poi lei,
    stella notturna, già pallida

    Prima dell’alba. Un’acqua cheta che,
    accolta dal monte, non lima, lava.
    Ho lingua banale per il nucleo
    che mi contiene, in radici.

    Dal rifiuto nascono i più bei fiori.

    DICHIARO DI ACCETTARE IL REGOLAMENTO – sez. A
    Francesca Pimpinelli

  2. Accetto il Regolamento – sez. A
    Angelo Napolitano

    AROMA GUERRIERO
    Tutto dipende da cosa scriviamo
    sui fogli bianchi che ci sono dati.
    Con te la Bellezza
    ha saputo di chiamarsi Bellezza;
    la Donna di chiamarsi Donna.
    Non c’è nulla che abbia più di te;
    di tutto hai tutto,
    e Tutto si compiace in te.
    Generi e regali frumento
    del quale tu stessa ti nutri;
    le tue mani preparano
    pane e regni,
    offerti per cene che durano una vita.
    Il vino speziato dei tuoi occhi
    riempie il vaso d’argilla
    così come la coppa dorata.
    Passano i venti e le tempeste
    e nulla di te portano via,
    né l’acqua che ti scorre nel sorriso,
    né la spuma dall’aroma guerriero
    che feconda la tua vita.

  3. Era l’alba. Mia, davanti alla sua tazza di the, osservava l’alba. Non era felice, ma intendeva esserlo. Poche ore prima aveva deciso di rivoluzionare la sua vita, e quella dei suoi figli, scappando dal suo presente. Il suo futuro era là, che rinasceva con i colori di questa nuova alba. Sfumature di rosa, bianco, lilla,grigio, giallo.. una magia…
    Mai più avrebbe permesso ad alcun uomo, a neutralizzarla come persona e come donna. Lei valeva. Lei era intelligente. Lei non era una fallita. Lei non sarebbe stata più zitta per un suo sguardo severo. Lei non avrebbe più rinunciato ad un lavoro e alla sua dipendenza. Si sentiva coraggiosa, ma era impaurita. Poi sorseggiando il suo the, lo terminò. E sorrise . Finalmente sorrise per la sua rinascita e per la nascita di un nuovo dì. Bacio i suoi bimbi, uno ormai cresciuto e nell’età più difficile, l’altro di una tenerezza e innocenza
    disarmante. Aprì la porta alla sua amica baby sitter sin quando si sarebbe sistemata nella nuova, piccola casetta che un giorno appartenne ai suoi amati nonni. Prese la sua borsa per mettersi in viaggio per il suo primo giorno di lavoro da donna libera. Mai si era sentita così amata da sé stessa. Si sarebbe amata ancora di più e così avrebbe amato di più gli altri. Chiuse lo sportello della sua utilitaria e iniziò a cantare a squarciagola assieme al solito CD di Vasco. “Ce la farò”, pensò…

    accetto il regolamento, sezione b

  4. “Ogni dì di maggio e giugno”

    Augello dall’arancio becco e il nero
    piumaggio, come invidio il chioccolare
    tuo. Ogni dì di maggio e giugno, ti odo
    cantare la melopea dall’alta
    punta dell’antenna. Tu non hai assillo
    del tempo e del viver hai libertà.
    Libertà appartiene alle tue ali
    ed a quel melodioso canto mesto
    che ogni giorno mi fa invidiar la vita
    che ti appartiene. Giammai son riuscito
    a vivere la vita intensamente.

    Alessio Romanini Sez-A
    Accetto il regolamento

  5. “FIGLIO DEL VENTO”

    Ci sono delle volte che il dolore diventa così intenso, che vorrei scomparire per sempre, e non sentire più tutta questa sofferenza; non sentire più la solitudine. Poi, seduto sulla panchina immersa nel verde parco, odo lo stormire di fronde e ripenso a quando ero piccolo ed ascoltavo in silenzio gli alberi. Ascoltavo il vento, ciò che aveva da dire. Ancora oggi lo ascolto quando mi sussurra nella mia abissale solitudine; ed è qui che immagino come sarebbe bello sparire, morire; perché probabilmente diventerei io quello zefiro che tanto amo; comincerei a tessere le trame delle mie poesie fra fronde lussureggianti. O forse diverrei un gabbiano; spingendomi con la sola forza delle ali oltre l’apparente orizzonte.
    Allora morire non diventerebbe sinonimo di eterna scomparsa, ma sarebbe un nuovo inizio. Diventerebbe(o lo è) una metamorfosi.
    Sì, una metamorfosi come avviene per il bruco, prima che diventi una magnifica farfalla che si libra nell’aria.
    Oggi, solo, rimango seduto sopra questa panchina a guardare oscillare le verdi testoline del trifoglio, mentre le foglie a forma di cuore dei tigli continuano a bruire…
    In silenzio religioso socchiudo gli occhi e resto ad ascoltare cosa hanno da dire. Mi trattengo ad ascoltare il vento; mi parla della vita, lui, eterno elemento che ha girato il mondo ed ha vissuto ere. Nelle sue masse d’aria ha la saggezza di chi ha l’esperienza di aver vissuto molte situazioni di dolore e d’amore; un connubio il quale appartiene a tutto il creato. Rimango imbrigliato nel suo verbo; così forte per una semplice anima umana che ha vissuto sino ad oggi in una fittizia realtà
    1
    costruita da cose terrene. La vera forza dello spirito vive in ogni elemento della natura che ha generato la vita. Ad ogni pensiero sento la brezza mormorare; e quando penso alla morte lui soffia più forte. So bene cosa mi sta dicendo. Capisco il suo sussurro: ”Figlio del vento, ogni cosa ha un termine sopra questa crosta, ma tu sei chiamato a vivere oggi, in questo momento in cui io ti parlo; non devi vivere temendo la Morte perché questo impedisce la Vita; poiché essa subentrerà alla tua esistenza senza avvertire… Ti sorprenderà impreparato e tu piangerai per la fine di qualcosa che non hai vissuto. Ricordati della Morte quando stai vivendo la Vita”.
    Seduto in quella soave melodia verde mi sono smarrito nella quiete. Il ciglio si è irrorato del sale delle ferite. Ho sentito quanto fosse mera quella commozione che avviluppa l’anima. In quel momento, la solitudine non era più il cordoglio di un’esistenza, ma era la pace che avviluppa l’animo. La solitudine è il vento che mormora nelle vuote cavità dell’anima colmandole; portando rinnovata speranza nel vivere.

    Alessio Romanini Sez.B
    Accetto il regolamento

    2

  6. Una mano sulla spalla.

    Un flashback.
    Ho sei anni, è una luminosa giornata primaverile.
    Sento un tonfo, ho come la sensazione che provenga dalla veranda, per cui mi dirigo silenzioso verso quell’incantevole ambiente, l’angolo di mia madre.
    La porta è socchiusa, la spingo dolcemente fino a spalancarla ed essa, sommessamente cigola.
    E’ tutto in ordine. I divanetti di vimini giallo paglierino, accolgono i cuscini di seduta e schienale rigorosamente bianchi.
    Sul tavolino il piccolo centro tavola in ceramica, accoglie le poche caramelle rimaste.
    Accanto ad esso il veliero di legno, con le sue candide e turgide vele pare solchi possente il mare.
    Sulla destra il cantuccio delle orchidee, il mio preferito, ospita, disposti su una base a tre livelli, ben trentacinque vasi che lo decorano con altrettante sfumature di colore.
    Dal soffitto vetrato entrano tiepidamente i raggi solari.
    Le tende anch’esse rigorosamente bianche, sono chiuse, come pure le vetrate che costituiscono le tre pareti della veranda.
    Tutte chiuse, tranne una.
    Attraverso essa entra un leggera brezza che fa danzare morbidamente la tenda e un lembo del foulard di mia madre appeso al soffitto.
    Questo favoloso sogno atavico, veniva giornalmente interrotto da mio padre che pronunciava soavi parole mentre asciugava il sudore della mia grondante fronte.

    L’anno del diploma, ci trasferimmo in città.
    Quell’anno, ero insufficiente in tutte le materie, mai accaduto prima.
    Papà andò a scuola innumerevoli volte, per parlare con dirigente e professori, nessuno gli credeva, erano scettici e intolleranti, si erano stancati della sua insistenza.
    Ero un ragazzo muto e analfabeta a causa del mio “ritardo” al loro dire.
    I certificati medici dicevano l’esatto contrario.
    Io non battevo ciglio, non mi scomponevo e non mi preoccupavo dei commenti, a stenti mettevo a fuoco le pupille per guardare qua e là, confermando così, le loro bislacche teorie.
    Mio padre continuava imperterrito. Egli era era certo che, in qualche modo, sarebbe riuscito a far valere i miei diritti.
    Una sera, inaspettatamente, suonò il campanello.
    Non veniva mai nessuno a trovarci in quella gelida città.
    Il buio aveva ormai abbracciato ogni cosa, il vento fastidioso era diventato mansueto e la neve cadeva lenta, impreziosendo quella scialba serata.
    Mio padre era seduto al mio fianco, mi guardò stupito sgranando i suoi grandi occhi verdi e si alzò dubbioso per dirigersi verso l’ingresso solamente quando io accennai un gretto sorriso.
    Mi alzai in modo silenzioso e mi fermai a pochi metri dal portone, per osservare in sicurezza.
    Accentuai lievemente la mia espressione gioiosa, quando riconobbi la dorata chioma di Emma, la mia compagna di banco, adornata dai morbidi e lucenti fiocchi di neve.
    Anch’ella nel vedermi sorrise.
    Mio padre incredulo, si ammutolì e rimase immobile sull’uscio per qualche secondo.
    Papà si voltò per cercare approvazione in una mia avara espressione e, sorpreso, la trovò nel mio compiaciuto e candido sorriso che non si ritraeva, per cui invitò Emma ad entrare in casa.
    “Avete già finito di studiare?” chiese Emma.
    “Si.” rispose papà e aggiunse: “Accomodati.”
    “Non voglio essere d’intralcio!” rispose.
    “Simone ti ha sorriso!” aggiunse papà, sillabando le parole con qualche colpetto di tosse, per camuffare l’emozione.
    Ci sedemmo e io compilai in assoluta autonomia il questionario di comprensione, senza commettere errori.
    Bevemmo una tisana calda, accoccolati dalla quiete.
    “Ora vado a casa.” disse.
    La accompagnammo alla porta. Esitò un istante poi, quando fu oltre l’uscio si voltò e disse con fervore: “Signor Roberto, io le credo!”
    Papà le sorrise e permise ad una lacrima di accarezzargli il viso.
    Era la prima volta che si lasciò rapire dalle emozioni in mia presenza, non se lo poteva permettere ed io non capivo o, forse, non nè ricordavo il perché.
    Il mio guerriero, grazie a quella visita, assaporò il piacevole gusto della vittoria.

    Fui ammesso al diploma con la media globale del nove.
    Durante gli scritti il mio banco fu posizionato in prima fila, dinnanzi alle cattedre della commissione, decisamente distante da quello dei miei compagni, su di esso, solo i fogli delle prove e la mia penna nera.
    Accanto alla mia, un’altra sedia.
    Quando iniziarono gli orali, fui interrogato per primo.
    Arrivammo con un leggero anticipo; il collaboratore scolastico ci indicò l’aula allestita per l’occasione.
    Le tapparelle leggermente abbassate, le luci dimezzate.
    Tre cattedre accostate l’una all’altra.
    Al centro il presidente, ai lati il resto della commissione.
    Dinnanzi alle cattedre, la sedia per colui che andava a sostenere la prova, in fondo all’aula, le sedie per gli spettatori.
    Il presidente quando, mi invitò ad accomodarmi e fece un cenno di approvazione col capo al collaboratore scolastico, il quale arrivò immediatamente con un’altra sedia che posizionò accanto alla mia.
    Mi fecero i complimenti per le prove scritte e mi rivolsero una domanda, alla quale dovevo rispondere collegando fra loro le varie discipline.
    Mi voltai verso mio padre, che era seduto accanto a me, gli sorrisi ed iniziai la mia eloquente esposizione nel momento in cui egli mi posò la mano sulla spalla.
    Era in questo modo che, da tredici anni, il mio guerriero, come un abile pilota, guidava la mia vita.
    Egli era l’aria che riempiva i miei polmoni così che le mie corde vocali fossero in grado di vibrare; era l’energia che metteva in moto i miei muscoli, affinché io potessi compiere anche la più semplice fra le movenze.
    Egli era l’interprete dei gesti, attraverso i quali mi leggeva l’anima e comprendeva ogni mio pensiero; era la luce che puntualmente, mi strappava con grazia, dalle tenebre del ricordo di un giorno lontano.
    Egli era la culla, il mio giaciglio caldo e confortevole nei momenti di sconforto; era lo scrigno custode dell’immenso amore di una madre.
    Egli era il sangue che mi scorreva nelle vene dando un senso alla mia esigua esistenza.
    Egli era il mio scaltro guerriero, capace di raggirare ogni volta, gli effetti dello shock emotivo del suo bimbo di sei anni.
    Quel giorno, improvvisamente ricordai.
    Fu mia madre a lasciare la vetrata socchiusa e fu proprio quel giorno, che il suo foulard volò via con lei.
    MANUELA ORRU’
    SEZIONE B
    ACCETTO IL REGOLAMENTO

  7. Sezione “B” Accetto il regolamento.
    “Rudy il detective” in una favola giallo rosa con:
    Dott. Antonio De Scalzi proprietario della casa del Sole,
    Alfredo Bonelli medico,
    Angelo Diotiaiuti avvocato,
    Nancy e Bruno nipoti,
    Tilde cuoca,
    Giovanni factotum e giardiniere
    *•.¸¸☾¸¸.•*¨☾ ¸¸.•*☾¸¸.☆•*¨*•.¸¸☾¸¸.•*¨☾ ¸¸.•*☾¸¸.☆
    La casa mastodontica ma elegante, situata nella verde collina del levante ed a pochi km dal mare, era seminascosta e raggiungibile dal mare solo dopo irti ed innumerevoli tornanti che spesso portavano fuori strada.
    Era denominata “Casa del Sole” per la sua esposizione felice, ma di felice aveva solo il nome.
    Era stata abbandonata quasi totalmente da tempo, il guardiano tuttofare, Giovanni, ne curava orti e giardini la rigovernava giornalmente e si prendeva cura del diabolico ma simpatico bassotto Rudy detto Nanetto, padrone incondizionato di quell’esteso maniero.
    Rudy era un cane super curioso, intelligente e fortunato in quanto Giovanni, dog sitter per vocazione, tuttofare e quant’altro, abitante nella piccola dependance del parco, si prendeva cura di lui e non mancava mai di portarlo ogni tanto a giocare con i suoi simili.
    Ma Rudy dopo un poco si stancava…amava giocare con le sue palline, col suo ossetto, piccoli peluches ed adorava fare buche profonde nel giardino. Va precisato che la dimora era distante dal paese, nascosta ad occhi indiscreti e quindi chi la abitava godeva di completa libertà e della generosità del proprietario che ogni tanto, verso l’estate, rientrava dall’estero per capire se i suoi ospiti da lui convocati ed appena giunti stessero bene e per decidere il da farsi su certe decisioni da prendere con urgenza.
    Facoltoso investitore, ricco da sempre, ormai anziano, il Dott. Antonio De Scalzi, doveva decidere quale dei parassiti che ora stazionavano in casa sua, fosse il più idoneo ad ereditare l’immensa fortuna che avrebbe lasciato.
    Ma era un burlone, non avrebbe mai svelato a nessuno le sue vere intenzioni ed ogni volta
    che rientrava alla casa, per prima cosa interpellava Giovanni circa l’andazzo dei suoi ospiti, che vivevano normalmente alla giornata e che da sempre lui manteneva generosamente ma che attirati soltanto da quel vile denaro che avrebbe fatto la loro fortuna se…
    C’era il suo medico, il dott. Alfredo Bonelli, in forze solo durante quella visita annuale a cui si sottoponeva di buon grado il Dott. De Scalzi, poi c’era il suo avvocato Angelo Diotiaiuti ovviamente anche lui in attesa di decisioni testamentarie a lui favorevoli, la giovane inquietante nipote Nancy, perennemente annoiata e pigra, suo cugino Bruno, pittore imbrattatele insoddisfatto che ritraeva soltanto il calare ed il sorgere del sole, e poi la vecchia governante Clotilde, detta Tilde ormai troppo vecchia per servire a qualcosa se non a cucinare, mansione nella quale eccelleva e poi naturalmente Giovanni tuttofare prezioso.
    Un gruppo male assortito, l’unico che si trovava a suo agio era Rudy, che spesso doveva schivare qualche pedata nascosta che gli arrivava da chi non lo gradiva.
    Si sentivano risuonare ogni tanto richiami da una pare all’altra della casa, c’era l’attesa dell’arrivo imminente del proprietario ed alcune servette assunte per l’occasione, avevano rigovernato e fatto brillare gli argenti ed i cristalli, in casa c’era fermento ed ansia.
    -Passami il vino per favore- neppure servitù decente in questa casa- si lamentava Nancy dopo aver allungato un calcio a Rudy che raccoglieva quatto quatto le briciole sotto la grande tavola.
    Fra Nancy ed il cugino c’era sintonia, forse un accordo ma anche competizione…non avevano intenzione di aspettare che lo zio tirasse le cuoia e come loro anche tutti quanti gli altri ospiti.
    II denaro li attirava e per averlo erano disposti a tutto…tutto? Quasi..
    Solo il bassottino Rudy aspettava con ansia il suo padrone specie dopo l’ultimo episodio in cui qualcuno aveva cercato di avvelenarlo con cibo avariato, il povero Rudy aveva capito che doveva guardarsi le spalle, infatti quando era possibile, evitava la ciurmaglia.
    Erano spariti tutti i gatti che erano tre e di alcune galline erano rimaste le piume … qualcuno stava escogitando il sistema diabolico per liberarsi e svuotare la casa dai fastidi e dalla zavorra un po’ troppo velocemente.
    Ma chi aveva tanta premura di farlo?. Prevalentemente tutti perchè erano dei falliti, sfaticati, e mantenuti da Antonio De Scalzi…un nido di vipere che si era messo in casa il pover’uomo… diabolici personaggi in cerca di denaro e per averlo dovevano sfoltire i pretendenti.
    Ci si sarebbe aspettato una sequenza di omicidi tipo ” e poi ne restò solo uno” infatti l’ambiente era cupo nella Casa del Sole anche se il sole splendeva regolarmente ed inconsapevole e tutto procedeva secondo le direttive del proprietario.
    Nancy chiuse il portoncino della cucina con un piede e:
    -Ciao Tilde, cosa mangiamo oggi a pranzo?
    La vecchia governante la guardò incuriosita, generalmente i nipoti del Dottore non entravano mai nella cucina né tanto meno si interessavano a lei.
    La cosa la incuriosì, vecchia lo era, ma non rimbambita… il cervello le funzionava perfettamente per cui chiacchierarono del più e del meno e poi come era entrata, Nancy sparì.
    Da li a poco sarebbe arrivato lo zio e valeva la pena essere presente, scodinzolante e col sorriso a 36 denti accattivante stampato sulle labbra….Pensava assorta che forse sarebbe riuscita nel suo intento, Bruno, al pari della cugina, almanaccava su alternative per riuscire ad ottenere l’ eredità, l’avvocato aspettava per la stesura del testamento, il dottore, per poter coprire il buco finanziario spaventoso ed i debiti che aveva contratto al gioco, il fedele Giovanni pensava alla pensione anche se aveva ancora troppo da fare e l’età gli pesava, ma voleva bene al suo padrone e sapeva che se avesse voluto, avrebbe potuto servirsi dell’aiuto di ragazzi del paese
    a suo piacimento.
    Anche Tilde era pensierosa, l’atmosfera della casa era opprimente e pesante…ma domani sarebbe arrivato il suo padrone ed avrebbe sistemato le cose al meglio.
    Alla notte venne un temporale coi fiocchi, Rudy nella sua cuccia spaziosa e calda tremava, anche lui avvertiva i cambiamenti e le tensioni, sentiva che presto sarebbe arrivato il suo umano adorato e si sarebbe preso cura di lui per tranquillizzarlo.
    Ma Rudy, poi dimenticava le paure e giocava, col suo osso, con la sua pallina ed i peluches e stava attento a quello che gli veniva dato da mangiare…già una volta si era sentito male, ma grazie a Giovanni che l’aveva soccorso subito se l’era cavata bene.
    Ma i sospetti rimanevano…ognuno torvo scrutava gli altri e pensava a come avrebbe speso quei milioni di euro che adesso non facevano felice nessuno…solo a banche e promoter ed associazioni benefiche che venivano regolarmente foraggiate.
    Le briciole sarebbero state solo per loro.
    Ed arrivò il giorno tanto atteso, una limousine si fermò davanti al cancello che prontamente fu aperto da un Giovanni sorridente…rivedere dopo un anno il suo padrone, lo rendeva felice, scaricò i bagagli e disse: –
    -Dottore, sono così felice di rivederla.
    -Grazie Giovanni, sono lieto pure io di ritornare a casa, vedo che è tutto fiorito, che le aiuole sono come sempre ordinate e colorate, la casa nelle tue mani è ridente e serena
    -Serena Dottore? E’ una parola grossa. Quando c’è lei si, ma di sereni qua non ci sono neppure ambizioni e sogni di certi personaggi che assomigliano di più ad incubi che ad esseri umani.
    Antonio De Scalzi aveva perfettamente capito a cosa alludesse Giovanni e mentre ragionava fra se e se, una palla di pelo nero gli saltò in braccio e lui istintivamente fu pronto ad accoglierla, era il suo Rudy, l’unica creatura del cui amore era convinto.
    Il nanetto lo leccò diligentemente sul viso, mugolò di gioia, gli portò a vedere i suoi giochini ed aspettò che gli venisse buttata la palla per scapicollarsi a riprenderla…e quello per Antonio De Scalzi fu l’attimo più felice.
    La casa fremeva dei preparativi per la festa che si sarebbe tenuta alla sera, il catering era stato prenotato, i cibi sarebbero stati abbondanti ed all’altezza, la casa avrebbe ripreso vigore e vita.
    Domani avrebbe stilato il testamento con Diotiaiuti, anche se le sue idee al proposito non erano molto chiare, troppe incognite: i suoi gatti spariti e gli episodi riferiti da Giovanni lo avevano impensierito… avrebbe dovuto pensare molto bene e cercare di capire chi voleva nuocere al suo Rudy e chi aveva tanta fretta e smania di ereditare.
    Parlò con Angelo Diotiaiuti in privato suscitando morbosa curiosità, posticipò la visita medica, parlò con i ragazzi e guardandoli attentamente non volle pensare che proprio loro avrebbero cercato di nuocergli, poi uscì con il suo bassottino alle calcagna e fece il giro del parco.
    Mai nessuno avrebbe potuto far male al suo piccolino che lo guardò con devozione e parve sorridergli e dirgli:-Tranquillo, ci sono qua io che controllo mio amato umano…e quasi lui lo capì dallo sguardo profondo ed acceso che Rudy gli lanciò.
    E venne sera, Tilde si era superata, per lei, Antonio De Scalzi aveva già provveduto largamente, era giusto che avesse potuto godere una vita agiata data la sua tarda età e per Giovanni pure stesso pensiero e stesso provvedimento meritatissimo, ma intanto la grande tavolata avrebbe ospitato quella sera anche alcuni personaggi  di rilievo del paese.
    Erano dieci in tutto, no, non dieci piccoli indiani, ma solo dieci ospiti alla sua tavola, che sapeva l’avrebbero aiutato a decidere con serenità il da farsi.
    E vennero, tutti in tiro, eleganti, compassati  ma circospetti, ognuno dei residenti con uno scopo ben preciso, tutti amici si che aspettavano aiuti considerevoli … insomma l’unico probabilmente che lo amava spassionatamente e senza interesse alcuno era il suo cane.
    La cena fu gradevole ed abbondante ed a parte l’atmosfera non propriamente allegra, condita da battibecchi vari fra i due cugini, fra dottore ed avvocato e fra gli altri e mentre l’argomento principale era solo il denaro, furono  serviti da una serafica Tilde ed un compassato Giovanni.
    Un sottofondo di musica, una serata fresca ma stellata, un brindisi alle stelle…fino a quando Antonio De Scalzi si accasciò a terra dopo aver bevuto il suo champagne.
    Scompiglio, grida, molti persero la testa…lo stesso Rudy prese il suo osso e se lo portò via da quella confusione terribile per poi abbandonarlo e nasconderlo altrove.
    Il dottore si adoperò nei primi soccorsi in quello che sembrava un avvelenamento, non senza aver chiamato un collega per un consulto.
    Adagiato sul divano Antonio De Scalzi, pallidissimo, respirava a fatica…qualcuno pensò che forse non ce l’avrebbe fatte e si rese conto di quello che stava accadendo… fu chiamata la Polizia che smistò gli ospiti…nativi ed abitanti del paese da una parte, nipoti dall’altra, medico ed avvocato e servitù ancora in posti diversi.
    Solo Rudy fu libero di muoversi in libertà…ma lui aveva già capito tutto.
    Qualcuno aveva colpito per ammazzare Antonio de Scalzi…gli aveva iniettato durante una pausa del pranzo un raro veleno difficilmente riconoscibile ed aveva poi nascosto la siringa in un osso simile a quello di Rudy, che fu subito perfettamente conscio che quello non era il suo, per cui l’aveva preso e nascosto ma dove?
    Ma certo, nella sua aiuola preferita, coperto di terra e poi ripreso e portato come un trofeo ai piedi del suo padrone, che nonostante il malore aveva compreso che nell’osso c’era la soluzione del dramma.
    Anche l’Ispettore Coriandoli aveva compreso, quindi sfasciato ed aperto l’osso, venne rinvenuta la siringa con un residuo del contenuto, Antonio De Scalzi venne prontamente trasportato in clinica e salvato.
    Alfredo Bonelli venne tratto in arresto dopo aver cercato stupidamente ed inutilmente la salvezza nella fuga, sapeva di essere stato visto e smascherato dai fidi servitori.
    Intanto Antonio De Scalzi nel suo letto, pensava intensamente. Lui avrebbe provveduto largamente a tutti nonostante tutto…ai suoi nipoti perchè figli delle sorelle…al Dottore a cui avrebbe saldato i debiti, all’avvocato aveva già stanziato una cifra per permettergli di aprire uno studio e dargli la facoltà di esercitare la sua professione, ai suoi amici e fedeli servitori una vecchiaia senza problemi…ed al suo Rudy?
    Il lascito di tutti i suoi averi rimanenti (enormi) alla sua fedele segretaria ed al suo Rudy come compagna di ambedue, cane e padrone.
    Nell’ombra e molto dignitosamente lei era da sempre la compagna della sua vita, ma nessuno lo sapeva.
    Escluso Rudy che con amore sapeva, ma certamente che sapeva.
    Fine.
    Vezzi Lucilla

  8. MILENA MUSU
    ACCETTO IL REGOLAMENTO – sez. A

    Neurochimica dell’amore: Giuditta che decapita Oloferne di Artemisia Gentileschi.

    Castrante come la vendetta
    tutta l’invidia del suo grembo, riscatta.
    Donna, femmina della specie umana,
    ecco il tuo pugnale senza clemenza,
    fedeli sono i cani ai loro padroni.
    Collera e scimitarra senza ossitocina,
    astio che scorre per secoli come veleno,
    e la bile verde dei tuoi begli occhi.
    Degrada la dopamina, veglia il sonno,
    la collera e l’amore cercano un recettore,
    furia e tenerezza nella identica serratura,
    deridono logica, legge e coerenza.
    Femmina, di giusto fondamento il tuo furore.
    Taglia.

    NB Indicazione di lettura: osservare con attenzione il quadro, poi rileggere.

  9. Ignazio Salvatore Basile
    Sezione A- Accetto il Regolamento
    Io non sono di questo millennio
    Io ciatto, linko, laiko,selfio,
    navigo, posto,commento, inserisco,
    ricerco, formatto, pubblico, seleziono,
    eppure non sono di questo millennio!
    Sono passati più di cinquant’anni,
    ma sembrano davvero cinquecento,
    da quando costruivo i miei giocattoli
    con quattro assi di legno
    e quattro chiodi arrugginiti.
    L’acqua corrente non c’era ancora nelle case
    e la luce elettrica era appena arrivata
    a dettare i nuovi ritmi della veglia e del sonno;
    e le immagini si univano alla scatola parlante

    a imporre i nuovi slogan,
    le nuove mode
    e il nuovo pensiero.
    No, io non sono di questo millennio.

  10. Ignazio Salvatore Basile
    Sezione B – Accetto il Regolamento

    L’Invincibile Piero

    Piero Peis aveva un segreto. All’aperto portava sempre il cappello, soprattutto nelle giornate di sole. Era uno dei pochi amici che prediligesse parlare in italiano, anziché in sardo; a parte quando si arrabbiava.
    E si arrabbiava spesso, da grande giocatore quale egli era. Era bravo in tutti i giochi di carte, nella dama e negli scacchi. I suoi regni erano le barberie, i bar e la piazza, quando il tempo lo permetteva. In estate c’era troppo sole e preferiva la barberia. La sua preferita era quella di Checco Cavagna, in un vicoletto dietro la piazza centrale del paese, non distante da casa sua che, se non ricordo male, era in via Mazzini, di fronte all’ingresso laterale del Municipio, dove le sorelle maggiori gestivano un avviato negozio di merceria.
    Era la stessa barberia che, di quando in quando, frequentavo anch’io. In estate lui vi stazionava dalle nove alle tredici, per poi riprendere alle 15:30 sino alle 20:00 e anche oltre. In barberia si giocava molto e spesso a tarocchi. Lui preferiva il gioco a tre, oppure a cinque; non quello a quattro, perché lo avrebbe obbligato a giocare in coppia; e Piero, nei giochi, era un individualista; preferiva fare da sé: ognuno per sé e Dio per tutti!
    Con la sua prodigiosa memoria, sapeva in ogni momento le carte che c’erano in circolazione, e nel gioco dei Tarocchi, questa sua memoria fotografica, costituiva davvero la marcia in più per la vittoria. E Piero perdeva raramente; soltanto quando le carte gli erano contrarie; quello che non accadeva quasi mai.
    Ricordo da ragazzini, quando ancora frequentavamo le ultime scuole elementari, decenni or sono, se gli si proponeva di giocare a carte, rispondeva serio: «danaro ne hai?» Se la risposta era positiva (ma occorreva mostrare il quid, cioè il danaro), allora ci portava a casa sua. Si giocava in una specie di rimessa per automobili, sopra un tavolino improvvisato e delle sedie precarie, a sette e mezzo; oppure a scopa o a briscola. Lui eccelleva in tutti giochi. E vinceva. Le piccole somme che noi giocavamo, ovviamente; ma vinceva; quasi sempre.
    Nel bel mezzo del gioco all’improvviso, gli accadeva di irrigidirsi, con le carte strette in mano; restava per degli interminabili secondi con lo sguardo nel vuoto, gli occhi sbarrati, come se il suo spirito fosse trasmigrato da qualche altra parte. Poi riprendeva a giocare; esattamente da dove avevamo interrotto; si ricordava tutto ed era in grado di riavviare la partita come se niente fosse accaduto.
    A quel tempo, con uno dei miei fratelli, allora compagno di giochi, a carte e in altri passatempi, per non farci capire, avevamo escogitato di parlare all’incontrario, invertendo cioè le sillabe delle parole; niente di scientifico e neppure di perfetto; si mischiavano, a orecchio, le sillabe, senza badare troppo alla posizione delle vocali, cercando di dare un bel suono alla frase; agli amici sorpresi, rispondevamo che si trattava del dialetto di origine di nostro padre; che era siciliano.
    Per esempio, se non volevamo farci capire da uno che cercava di fare il furbo, ovvero di imbrogliarci, dicevamo: «Stoque levuo refa il borfu»; oppure se ci piaceva la sorella dicevamo:«atu relaso è nabo»; per un testone o un malandrino dicevamo:«è nau state di zocca»; e così via, alla buona, senza ostentazione; e tutti la bevevano, sapendo che il nostro papà era davvero siciliano e come tale, da forestiero, aveva il diritto, trasmissibile agli eredi, di utilizzare lingue diverse da quella sarda.
    Ma Piero non l’aveva mai bevuta del tutto, questa storia del siciliano; e ci studiava, senza farsi notare, anche se la sua testa era troppo impegnata per dedicarci tutte le sue risorse.
    Un giorno in piazza si era in compagnia e si aspettava un amico comune; un certo Alberto, un po’ più grande di noi, sia di età, seppure solo di uno o due anni, sia nel fisico; abitava sempre nella piazza, ma dalla parte del Castello dei marchesi Alagon e dovevamo vederci per scambiare dei giornaletti.
    La sorte lo aveva dotato di una casa in ottima posizione, proprio dirimpetto al castello quattrocentesco, di una buona dose di prepotenza e di un fisico ragguardevole (quantomeno rispetto a noi, che per giunta eravamo più piccoli di statura); quando scambiavamo i giornaletti, con il consueto metodo del baratto (dato che i soldi per comprare tutti i giornaletti in edicola , in tasca, non li avevamo), cercava sempre di imbrogliare, rifilandoci giornaletti con le orecchiette, oppure sfilacciate, pretendendo che i giornaletti di Topolino valessero la metà dei Kriminal, dei Satanik e dei Tex Willer che aveva lui; purtroppo però la natura gli aveva dato un viso non troppo gradevole, con quei suoi denti incisivi superiori alquanto prospicienti, il mento quasi rincagnato, all’indietro, e una diffusa peluria sul viso che le scorie ormonali della sopravvenuta adolescenza, rendevano ancora più sgradevole.
    Insomma, per farla breve, sembrava un gorilla, o forse, meglio un gorillotto.
    Così, quel giorno, mentre arrivava, a mio fratello scappò detto: «Nevie il lingorotto ico tilenorgia!» Piero colse quelle sillabe sulle labbra di mio fratello e contemporaneamente seguì il mio sguardo verso Alberto che si avvicinava con un fascio di giornaletti da cambiare.
    Piero scoppiò a ridere come un matto, ancor prima che il nostro comune amico arrivasse vicino a noi. «È vero! È proprio vero!» disse ridendo. «Sembra un vero e proprio gorillotto!» e dal giorno prese a chiamarlo Lingor, sempre ridendo e guardandoci con fare complice.
    Piero fu il primo e l’unico a sgamare il nostro linguaggio segreto.
    Finì più tardi, verso i trent’anni, in sedia a rotelle; e morì precocemente; non seppi esattamente quando, perché nel frattempo mi ero già trasferito in città.
    Simpatico, invincibile Piero, ti prometto, che se ci incontreremo ancora, cercherò di farmi trovare in tasca con un po’ di quelle vecchie lire, in monete da cinque, dieci, venti, cinquanta e cento, che ti stimolavano tanto a trascorrere insieme quelle ore spensierate, e che ti aiutavano a tenere lontano quel tuo male segreto. E so già che sarai ancora e sempre l’invincibile Piero.

  11. Scrivere nel cielo

    Quante volte diciamo …
    o pensiamo … o scriviamo … o usiamo …
    parole come amore … bene … pace … cuore …
    Sono parole che fanno bene …
    sono parole che si usano … parole necessarie …
    Scritte su di un foglio le vedono in pochi o nessuno …
    Stampate nella mente
    sono riservate solamente per chi le pensa …
    Perché allora non scriverle nel cielo azzurro di tutti i giorni ?
    Li sarebbero visibili a tutti …
    Forse in molti le leggerebbero …
    Forse in molti si metterebbero a pensare … a riflettere …
    Bisognerebbe scriverle a grandi caratteri …. a colori …
    in grande e colorate come l’arcobaleno
    quando questi risplende in un bel cielo sereno …

    Accetto il regolamento – sez. A

  12. Chiara Sardelli
    Accetto il regolamento
    Sezione B

    Monologo della Passione
    Non so cosa mi sta succedendo, mi sento come se avessi indossato dei panni che non sono i miei. Sarà la stanchezza. Sono stato tra i primi miliziani a seguire le vicende dell’arresto di questi, detto il Nazareno. Quando ci è stato consegnato per la crocefissione io sono stato tra quelli che gli hanno cinto la testa con la corona di spine.
    Nessun rincrescimento mi ha preso durante la salita verso il Golgota, ché anzi mi sono dilettato. I lazzi dei miei compagni erano continui, allegri e chiassosi e io mi univo, piacendomi passare il tempo senza pensare troppo a quello che stavamo facendo. Ci strattonavamo l’un l’altro, detti licenziosi, anche, affioravano sulle nostre labbra. Qualcuno, sorpreso dal silenzioso contegno del condannato, osava rivolgergli la parola con irrispettosi epiteti. «Mentula, hanno detto bene, altro che re dei Giudei» a mezza voce tra i denti scandiva così Ascanio, il mio compagno di avventure; insieme a me tra i più giovani in quella schiera di miliziani. Non eravamo nuovi a questa esperienza, avendo scortato più di un condannato alla pena capitale. Le nostre menti erano sgombre, i nostri corpi leggeri: avevamo obbligato un certo Simone di Cirene a trasportare la croce. Quando si trattò di spogliare il nostro, addirittura tirammo fuori i dadi. La tunica, priva di cuciture, ci tentava e decidemmo di affidare alla sorte a chi sarebbe toccata. La sorte decise per me. Forse fu proprio questo particolare a concorrere al mio disagio. Mi ritrovai tra le mani l’indumento, lo tastavo, sotto i polpastrelli scorreva la stoffa ruvida, un pensiero estraneo mi pungolava. Una voce che stentavo a riconoscere per mia mi suggeriva: «Guardalo in faccia, sarai chiamato, sei uno di loro». Sgomento e incredulo alzavo la testa a incontrare gli occhi dell’Uomo. Un attimo, un solo attimo, troppo fugace, perché la cortina dell’indifferenza si alzasse definitivamente. Persistente invece mi colse l’incertezza per la quale, con il senno del poi, avrei espresso un moto di gratitudine. La mia titubanza spinse altri ad adempiere all’odioso compito di inchiodare i polsi allargando le braccia sul patibulum.
    Il tempo seguiva impietoso scandendo i propri ritmi. Dentro di me si creava un vuoto come se le cose cui avevo dato importanza fino ad allora scivolassero in secondo piano. Non mi colpì la folla di tanti, forse curiosi, forse in cerca di risposta, ma quando scorgevo qualcuno che volgeva il passo indietro e si batteva il petto, le parole di Lui mi risuonavano e mi scuotevano: «Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno.»
    Non mi vinsero i prodigi naturali, il buio che in pieno giorno si fece sempre più fitto avvolgendo tutto intorno a noi. Piuttosto la visione della dolorosa Mater inginocchiata ai suoi piedi. Avrei voluto colmare la distanza che ci separava, offrire il mio corpo, certo indegno sostituto, al suo agognato abbraccio. Le forze mi abbandonarono, le ginocchia si piegarono, il cuore stremato temeva la propria viltà. Sentivo il clangore delle armi che sovrastava gli altri suoni, un frastuono assordante che mi ledeva l’udito e mi riportava la memoria di altri fatti di sangue. Mi sorse spontanea sulle labbra una raccomandazione in forma di prece, non so rivolta a quale divinità. Di una cosa in ogni caso fui certo. Nel mistero di quei momenti mi congiunsi anima e corpo, preparandomi a varcare la soglia del mondo dei morti. Poco mi importava quale delle narrazioni si avverasse, se quella tramandatami dagli avi, oppure l’altra che avevo udito sulla bocca e nelle parole dell’Uomo. Una sola cosa mi aspettavo pur sentendomi indegno. Che il pietoso sguardo che mi aveva rapito, espresso dal volto stravolto della Mater, si fermasse su di me, scortandomi verso la pace.

  13. Sezione a, accetto il regolamento
    Respiro
    Affogare respirando sul ghiaccio che graffia
    l’anima nel freddo
    del suo incubo oppressa dalla mia esistenza
    che ruba la dignità oggi anche all’addolorato fondo
    di una buca inversa alla fiaba che differisce dall’angoscia
    e si scagiona la ragione
    che ama, e la fuga
    dall’affogare respirando veleni di furore.

  14. La morte dentro

    Strappami il cuore e gettalo via.
    Il dolore mi uccide.
    Il cuore ha cessato di battere.
    Non sento più niente.
    Troppo dolore, parole non dette, parole non ascoltate.
    Uno strazio, una valle di lacrime.
    Lo chiamavi amore, ma tu non sai che cosa e’.
    Mi aspettavo che mi tenessi per mano, che mi guidassi verso la luce.
    Mi sono illusa.
    Mi ritrovo sola, al buio, con il mio immenso dolore.
    E la certezza che non sono mai stata amata.

    sez. a accetto il regolamento

  15. LA MADONNINA CHE PREGA

    Vidi una Madonnina pregare
    con le mani giunte per orare;
    lei Santissima che prega Dio
    eppur essendo la Santa Madre.

    Questa è la vera umiltà cristiana
    e la Fede più buona ed umana:
    sia fatta la volontà di Dio
    disse all’Angelo Nunziante;

    Dio è l’amore universale,
    è la vita stessa di ognuno,
    che trasuda dal duro lavoro,
    che da la viva luce ai figli,

    che vive in ogni nostro giorno
    ed è anche la voce di colui
    che disperato grida nel deserto,
    è Il Desiderio di pregare

    che nasce dal fondo del cuore
    con una speranza che non muore,
    per una Fede che ama Gesù
    e il mondo fatto dal Padre.

    Sezione “A” poesia. Accetto il regolamento.

  16. IL GIOVANE PERSEGUITATO

    Conobbi una storia triste, ma interessantissima.
    Viveva in un Paesino sperduto tra i monti un giovanotto un po’ matto che veniva da una famiglia proletaria in cui c’erano stati altri casi di mezza pazzia.
    Questa famiglia era rispettata come onesta da tante altre famiglie e persone, ma alcune famiglie e persone invece odiavano tutti i componenti di quella famiglia perché dicevano che erano pazzi criminali, stupidi, trasandati e gente da carcere, o da ricovero.
    Questo giovane era sempre deriso e insultato dagli alcuni giovani del Paesetto e aveva preso anche il complesso di inferiorità, l’incertezza psicologica e la fobia di passare davanti al bar di piazza quando c’erano i giovani più scalmanati e viveva della bassa pensione di invalidità che aveva, nonostante alcune famiglie che odiavano la sua lo avessero ostacolato quando fece la domanda di pensione all’INPS, perché non volevano che si sapesse che era insultato e ricattato da diverse persone cattive in Paese, che erano i soliti prepotenti che comandano in ogni quartiere, o Paesetto ed erano uomini adulti e anche giovanotti, oltre ad alcune delle loro mogli che non erano migliori di loro.
    Il ragazzo a 18 anni prese la patente di guida dell’auto e la famiglia glie ne comprò un’utilitaria di seconda mano. Quando in Paese si seppe della patente i soliti malvagi maldicenti si scatenarono contro il povero giovanotto e lo insultavano di più dicendogli che era un criminale a guidare l’auto con la pazzia che aveva e invece aveva il certificato medico psichiatrico e il permesso della scuola guida.
    Ne lui, né la sua famiglia avevano mai avuto guai con la legge e quindi poteva avere la patente di guida.
    Dopo avuta la patente questo giovane portava con sé i suoi in auto per andare nei Paesi vicini a fare la spesa, per una gita di un giorno un po’ più lontano e qualche volta per andare a passeggio nella città vicina.
    I malvagi caporali che lo odiavano avevano fatto tanta maldicenza cattiva contro di lui che le ragazze avevano paura di accettare la sua corte e così non aveva mai filato con nessuna, né in Paese, né nei comuni vicini.
    Quando passava con la sua piccola utilitaria per il Paese spesso qualcuno dei cattivi prepotenti lo perseguitava insultandolo frequentemente e per questo preferiva guidare verso i Comuni vicini, dove conosceva poca gente e i prepotenti che lo odiavano erano pochi.
    Però questi continui insulti avevano fatto peggiorare molto la sua stabilità mentale, già compromessa fin dalla nascita per ereditarietà e lo psichiatra gli aumentò le medicine per stare tranquillo.
    Un brutto giorno guidava molto agitato dopo essere stato insultato per l’ennesima volta dai caporali locali e per malaugurato errore travolse e uccise una donna del Paese.
    Il verbale dei Carabinieri fu preciso e gli tolsero la patente per due anni, ma era stato un delitto colposo.
    I soliti maldicenti del Paese dicevano sempre in giro che era stato invece un criminale e non era solo un errore, perché i mezzi matti non devono guidare, ma tacevano sempre che erano stati loro a farlo sbagliare alla guida quel maledetto giorno di primavera.
    Quindi il giovane andò in depressione e le cure psichiatriche furono più frequenti, ma sempre con la mutua. La sua famiglia già soffriva per gli insulti che i maldicenti del Paese facevano sempre contro il giovane e anche contro di loro, suoi parenti stretti, quasi come fossero gli scemi del villaggio.
    Quando la cura antidepressiva dette i sui frutti ed era passato qualche mese dal funerale della povera donna travolta il giovane non si ricordò di non passare a piedi davanti il solito bar centrale di piazza del Paesetto antico e ovviamente i giovanotti lo insultarono come sempre con mezze parole e anche con parolacce intere.
    Stavolta però, dopo tanto tempo che era chiuso in casa, speravano di averlo allontanato dalla vita civile del Paese e si arrabbiarono molto vedendolo passare per piazza come fosse un ergastolano pericoloso e mezzo matto evaso dal carcere di massima sicurezza.
    Così due o tre giovinastri lo avvicinarono e a spintoni lo minacciarono di rinchiudersi in quella fogna che era la sua tana-casa, insieme con i suoi familiari brutti, cattivi e mezzi matti.
    Allora il giovane perse le staffe e dette uno schiaffo a uno dei giovani prepotenti che lo spintonavano. Non lo avesse mai fatto. I giovani teppisti cominciarono a picchiarlo selvaggiamente e senza pietà e la vittima cadde a terra cercando di ripararsi dalle percosse. Uno dei picchiatori gli diede un calcio sulla testa mentre era a terra dolorante e lo uccise sul colpo.
    I giovani picchiatori scapparono e qualcuno chiamò un Medico e i Carabinieri, ma il giovane perseguitato era già morto.
    La famiglia della vittima pianse molto e fu aiutata un po’ di più da alcune famiglie buone del Paese.
    Al processo i giovani furono quasi tutti condannati a pochi mesi ed essendo incensurati con la condizionale uscirono subito di prigione, meno che il ragazzotto che aveva sferrato il calcio mortale che fu condannato per omicidio preterintenzionale e con le attenuanti andò per quindici anni in prigione, ma per buona condotta uscì dopo solo 10 anni e si diceva in Paese che era stato raccomandato da persone ricche e potenti, come anche gli altri picchiatori scarcerati subito, anche se erano tutti e quattro solo operai e di famiglie proletarie come quella del semi pazzo perseguitato e poi ucciso in atto di rabbia in una colluttazione.

    MORALE DEL RACCONTINO:
    Ora io direi che questi malvagi persecutori dovrebbero essere controllati meglio, possibilmente prima che commettano danni irreparabili, o comunque gravi, ma so che non è affatto facile lottare per un mondo migliore.

    Sezione “B” racconto. Accetto il regolamento.

  17. “Oh sole mio”

    Guardo questo sole
    Che mi avvolge col suo calore,
    mi scuote dal mio torpore
    e sento andar via un po’
    del mio profondo dolore!

    Mi sento un uccello senza le ali,
    che non può più cinguettare,
    sbatte dappertutto e si fa male,
    sono sempre sfinita,
    ho perso la gioia della vita!

    Guardo estasiata questo sole,
    ma non sento più il suo calore,
    il freddo mi avvolge il cuore
    e tremo dal terrore, tutto mi fa male,
    non posso nemmeno respirare!

    Oh sole mio,
    dammi un po’ del tuo respiro,
    getta su di me il tuo splendore,
    fammi star bene col tuo calore!

    Oh sole mio,
    ti prego non mi dimenticare!

    accetto il regolamento, sez. A

  18. Lodovico Scapin. Accetto il regolamento
    (Sezione A)

    ONE LOVE

    Io non so se ora,
    in questo preciso, puntuale momento
    una farfalla alle Azzorre
    stia sbattendo le ali
    (ma, perlomeno una, presumo di sì)
    e non so se a Pechino ora,
    in questo preciso, puntuale momento
    diluvi o splenda il sole
    ma se le oche, quella volta,
    non avessero starnazzato sul Campidoglio,
    se il pallone non fosse carambolato
    sulla mano santa di Maradona,
    se Napoleone non le avesse buscate di brutto in quel di Waterloo,
    se i Jalisse non avessero vinto
    il festival di Sanremo
    e io ieri, non fossi andato al supermercato,
    se – dico –
    uno solo di questi fatti non avesse avuto
    il luogo e il tempo a lui destinato,
    io ora, non sarei qui a dirvi che “se le oche, quella volta, non avessero starnazzato sul Campidoglio”
    e a non sapervi ragguagliare sul tempo di Pechino.

    E se tutto c’entrasse con tutto?
    (come sono propenso a credere)
    se tutto quel che accade,
    tutte le cose
    fossero intrecciate, innamorate
    tra di loro inseparabili?
    Il mondo! Un mondo?
    Come di
    un unico, gigantesco
    straripante, strepitoso
    sfavillante atomo.

    Let’s get together
    and feel all right

  19. Canto delle partigiane ebree
    Fuggiamo sorelle dalle mura di questo ghetto. Fuggiamo nelle verdi libere foreste.
    Ecco sorelle, invece di catene, le mie mani impugnano un nuovo fucile.
    Amato mio, baciami. Carezza la mia gola, stringi le mie spalle e sorridimi.
    Vado in missione. Oh, da oggi sarò un corpo solo fusa col mio fucile.
    Sorelle mie, donne! Siamo poche di numero, ma valiamo come fossimo milioni.
    Nelle colline, nelle città e nelle valli, distruggiamo i ponti e sterminiamo le brigate dell’invasore.
    I fascisti tremeranno, non sapendo quando e dove noi, partigiane ebree compariremo.
    Siamo la tempesta punitrice che sale dalla terra offesa
    La parola Vendetta è la condanna dei nostri nemici, se siamo pronte a scriverla col nostro sangue.
    Combatteremo sino alla fine e non saremo GLI ULTIMI MOHICANI perché sopravviveremo.
    Noi donne partigiane, noi ebree partigiane, porteremo il raggio di sole che spezzerà le tenebre.
    Accetto il regolmento Sezione B

  20. sezione A- Poesia L’ultimo respiro
    Accetto il regolamento
    Vento
    sai di sale
    mentre bruci i miei occhi
    Arrivi come chi non si stanca
    di cercare
    Rivoltoli la polvere
    a chi desto
    oramai tace
    Sei un soffio
    un equilibrista disilluso
    che veloce incalza le attese
    Vento di parole
    senza amore
    caparbio mi doni
    L’ultimo respiro…

  21. ACCETTO IL REGOLAMENTO-SEZ. A

    Laura Francesca Wronowski

    Nel vecchio libro, amore,
    profuma ancora la tua rosa,
    come i pochi baci che ti ho dato
    -ahimè- prima del temporale,
    quando nei campi
    ondeggiava il grano,
    e le spighe non si tingevano
    del rosso sangue dei partigiani,
    ignari eroi di una libertà istintiva,
    di una dignità tenace e viva,
    dall’aspro retrogusto e dolce
    delle castagne secche
    masticate per occultar la fame,
    prima che i campi fossero
    distese di papaveri,
    dove nei fossi morivano
    le bianche margherite,
    con negli occhi i sogni
    di speranze mai sopite.
    Sordo rumoreggiava il mare
    al ticchettio dei miei passi svelti,
    col cuore che tremava
    nel silenzio minaccioso del fogliame,
    io donna, io quasi bambina,
    io negli occhi i compagni uccisi,
    io a curar ferite e fare da staffetta,
    Kiki dove sei, fai in fretta.
    Io per il fato ancora vivo
    e ora qui sussurro alla tua rosa,
    e sento tremula e sottile
    una lacrima sul viso
    avvolta da un velo di tenerezza,
    mentre il timpano mi scoppia
    all’echeggiare dello sparo
    che di spalle ti tolse giovinezza.

    NOTA: (Partigiana, nipote di Matteotti, nome di battaglia Kiki, morta nel gennaio 2023, 99 anni)

  22. SEZIONE A POESIA . Accetto il regolamento
    FRAGILITA’ DA REGINA
    Sono una debole fragile labile
    chiusa nel mio universo impenetrabile.
    Non vedo orizzonti, cieli azzurri,
    né mari sconfinati,
    ma polsi da grosse catene legati.
    Pezzi di cartone i miei giacigli
    scendono le lacrime
    mentre mi graffia la schiena con i suoi artigli.
    C’è un odore acre nella mia stanza,
    sono solo una bambina
    sul mio corpo ancora acerbo
    lui canta ed inizia la mattanza.
    Oddio odio
    le bruciature delle sigarette
    quelle ferite sempre aperte,
    e quelle cicatrici maledette.
    Sono un marchio, che non va più via
    la chiamo ancora vita
    ma è una lunga agonia.
    Non ho scelto di viver prigioniera,
    ho provato a scappare mille volte
    niente da fare lui è troppo forte.
    Mi ha rapito per la strada, sedata
    senza pietà alcuna, violentata.
    Ho seppellito nel tempo
    come un cadavere i miei orrori,
    sicura che mai potessero venir fuori,
    una maschera di cera, così dura,
    che mi proteggesse ogni via di fuga.
    Un palcoscenico dove ogni giorno,
    per sopravvivere fingevo
    di esser una regina
    era quella la mia endorfina.
    Nel mio castello
    il mio aguzzino ruba tutti i sogni
    e lentamente spezza le mie ossa,
    è contento
    il dolore che provo
    è puro eccitamento.
    Son diventata il suo giocattolo rotto
    la sua bambola di pezza
    mentre lui è uno squallido orco.
    Passano gli anni
    non li conto più
    dentro queste mura
    ridotta in schiavitù.
    Ma un giorno la porta si apre,
    in divisa, un volto sorridente,
    mi taglia le catene
    mi riporta tra la gente. Sento le sirene,
    vedo il cielo colorato respiro mi hanno liberato.
    Ora è lui in catene,
    la gente gli urla contro
    parole oscene,
    iene inferocite
    e persone perbene.
    Piango tremo e guardo,
    davanti una donna,
    è mia madre
    mi sembra una madonna.
    Questa è la mia storia
    raccontata in poche righe,
    un inno alla vita
    perché al dolore si sopravvive,
    ho resistito, pregato tanto,
    ho vinto la mia guerra
    contro proiettili di sperma.
    La verità…non mi sono mai arresa Dio è stato
    la mia luce sempre accesa,
    placherà in futuro anche quell’odio
    che ora come un fulmine mi acceca.
    Passata è la bufera.

  23. ACCETTO IL REGOLAMENTO – SEZ B

    PIERO LO STRANO (Storia vera e vissuta)

    Prima di vincere il concorso lavoravo per un Ente che si occupava delle fasce più deboli della popolazione. Era il mio lavoro, indagare nella miseria e nell’emarginazione inventando rimedi per alleviare lo stato di povertà e degrado di tante famiglie.
    Si, quel sommerso silente eppur chiassoso, come mare dai mille umori fra vento e sole, mai veramente cheto, scosso dai tumulti di vita nel suo seno e dai capricci di uomini avidi e irriverenti. Così era in quei sottani, abbandonati come discariche abusive di cui si preferiva ignorare l’esistenza. Nelle case fatiscenti una lampadina mostrava quanto poteva illuminare, nessuna finestra per un raggio di sole. Eppure odoravano di dignità, umili, povere e pulite, come le donne che rispondevano al mio bussare, con un sorriso, ma negli sguardi un misto di diffidenza e di speranza.
    In strada motorini e biciclette, rare le auto. Per sopravvivere, alcuni svolgevano lavoretti precari, ma era palpabile l’omertà verso chi si dedicava alla piccola delinquenza, all’uso e allo spaccio di droghe. Io con calma ascoltavo, era il mio segreto, ascoltare, a parlare erano le mie espressioni, tutta la loro attenzione era su di me, non sulla mia voce.
    Sino ad allora, chi bussava alle loro porte cercava colpevoli, era il loro mestiere… ma non era il mio. Guadagnai presto la loro fiducia, conobbi storie di disperati, ma anche di prepotenti che dal giro delinquenziale probabilmente non sarebbero mai usciti, mentre tanti sognavano un’occasione che realizzasse la loro speranza di una vita migliore, una dignità che li rendesse uguali agli altri, non diversi, non emarginati, non rifiutati. Arduo, ma non impossibile. Ma ora erano lì, in attesa di concretezze, non di sola assistenza ed elemosine. E lì mi parlarono di Piero lo Strano, sui 20 anni, malato, non parlava, mugugnava, gesticolava, aveva sempre una penna in bocca. Non usciva mai di casa perché la famiglia si vergognava di lui. Cercavano qualcuno che lo facesse per loro. “Tu -mi dissero- potresti farlo, in fondo hai un buon carattere”, sorrisero e io sorrisi. E così conobbi Piero, con la penna in bocca e lo sguardo basso, mi accettò. Dal padre ebbi auto e benzina per tenerlo fuori ogni giorno, pranzo escluso. Entusiasta mi seguì, salimmo in auto e andammo al parco, si guardava attorno stralunato, non so se provasse gioia per l’aria che respirava o nel vedere che il mondo stava fuori di casa. Passeggiammo e lui guardava i bambini che giocavano, ma soprattutto i giochi.
    -Vuoi provare un gioco?
    Accennò un si e ci avviammo verso un’altalena. Lo convinsi a sedersi e a tenersi alle catene, penna sempre in bocca, cominciai a dondolarlo lentamente rubandogli più di un sorriso. Sentivo su di noi lo sguardo della gente, alcuni tenevano i figli ben stretti perché non si avvicinassero. Ma a noi non interessava. Tornò a casa felice e mi abbracciò. Ogni giorno cercavo di riempirlo di esperienze mai fatte, di gioie mai avute. Gli feci conoscere il mare portandolo a casa di amici, tra i quali era semplicemente uno di noi. Immaginare la sua meraviglia e la sua gioia era facile, saltellava eccitato sulla riva a braccia aperte come un gabbiano in procinto di volare, per la prima volta mi diede la sua penna e seguì gli amici in acqua. Io lo guardavo e mi domandavo perché i genitori gli avessero negato tante gioie, come ci si potesse vergognare di un figlio malato. Ma lo guardavo e mi bastava vederlo felice.
    L’ultimo giorno arrivò. Non era mai salito su un autobus, quel giorno vi salimmo per recarci al parco. Sul bus sguardi curiosi, ma era quasi ‘normale’ anche se sgradevole, e a lui non importava. A un certo punto volle scendere, desiderava un gelato.
    Entrammo nel primo bar. Il modo in cui il barista e altri presenti lo guardarono mi disgustò, ma quello era niente quando vidi il gesto della mano del barista che indicava l’uscita ‘qui lui non deve entrare’. Lui con la sua penna in bocca e gli occhi bassi. Lasciai perdere mentre Piero mi chiedeva il gelato. Lo ordinai. Il barista divenne furioso e con tono minaccioso mi disse:
    -Uscite! qui non vogliamo gente come ‘quello’, la sua vista disturba i clienti.
    Piero continuava a mordicchiare la penna mentre aspettava il gelato. A quel punto fui io a diventare furibonda, mi avvicinai al banco, fissai con disprezzo i presenti e mi rivolsi al barista:
    -Non so se lei abbia un cervello e soprattutto un’anima, ma adesso chiederà scusa al ragazzo, gli darà il gelato e dopo starà zitto, zitto!, sino a quando usciremo. O chiamo subito carabinieri, polizia, Sindaco, Papa e Presidente. Ha capito? E si VERGOGNI!
    Piero osservava muto, ma io intravvedevo un sorrisetto. Gli feci l’occhiolino, aveva un deficit, ma
    non era stupido ed era sensibile. Ricevette le scuse digrignate fra i denti e il suo gelato, lo mangiò e uscimmo. Finì la giornata e finì il mio mese con lui. Lo abbracciai e una lacrima scese dagli occhi di entrambi, la penna cadde ancora per terra, mi diede un bacio sulla guancia, che ricambiai. Ma dovevo andare. Diedi alcuni consigli ai genitori, non pratici, ma di natura umana e affettiva, dicendo loro quanto amore avevano perso sino ad allora, ma quanto ancora potevano recuperarne. Un grazie e ci lasciammo. Sapevo già che Piero lo Strano la mattina seguente mi avrebbe aspettata speranzoso alla porta. Non lo rividi più, il bando era arrivato e il lavoro mi portò lontano. Conobbi altri Piero lo Strano, tanti, dai problemi più disparati e anche tragici, il tempo passava, ma lo sguardo di molta gente ancora non cambiava.

    Voleva soltanto andare lontano,
    uscire da casa e guardare il mondo,
    volare come vola un gabbiano,
    ridere e fare un bel girotondo.
    La penna in bocca Piero lo Strano,
    entriamo nel bar quello là in fondo,
    lo fissano tutti e vola una mano,
    come a scacciare un essere immondo.
    Lui mi guarda e mi chiede un gelato
    “Lo faccia uscire, non è gradito”
    sbotta il barista seccato e imperioso.
    “Sei povero, triste e maleducato”
    gli dico con tono assai minaccioso,
    “Dagli il gelato, sorridi e stai zitto”

  24. SEZIONE B. ACCETTO IL REGOLAMENTO

    LA LETTERA DEL CUORE

    Ho i brividi, mi manca il respiro, non immaginavo fosse tanto difficile…
    Un silenzio assordante come il passaggio di una cometa mi fa compagnia, una scia luminosa il nostro cammino, un faro in mezzo alla tempesta di ricordi, abbracci e litigate. Siamo cresciuti cullati dal vento, stringo una fotografia quando nessuno mi vede, perché nonostante tutto sono forte e mi scendono le lacrime. Ma non è vero, non è maledettamente vero, il buio mi inghiotte quando non ci sei e la luce pian piano si affievolisce. Non ascolto più la tua voce, tu non senti la mia, mi mancano le nostre risate improvvise, gli scherzi che ci facevano urlare di paura a squarciagola a notte fonda e i biscotti sbriciolati sul divano, i tuoi caldi abbracci mentre mi scoppiava forte il cuore. Ho deciso sparirò sotto quei granelli di sabbia, che scalzi sfioravamo, mentre mi abisso tra le onde davanti a rossi tramonti. Pura follia, rabbia ed un incomprensibile nostalgia. Mi presterai i tuoi sogni per andare avanti, per capire i tuoi sorrisi acerbi, universi sconosciuti. Forse è la differenza di età che, come un uragano ci separa, forse il distacco strappa tutte le emozioni e diventa tormento. Sei il mio passato che ad un tratto diventa futuro. Rimango a mani vuote, con la paura di perderti per sempre. È il prezzo della libertà che la saggezza e la logica non vogliono oscurare, la ritrovo nei tuoi grandi occhi, come catene nella voglia di girare il mondo, mentre sorridi con quella tenerezza da bambino e non mi accorgo che sei diventato un uomo. Vai via un’altra volta, il vuoto riempie le mie giornate fatte di nulla, perché nulla è più prezioso della tua presenza, sono senza spazio e senza tempo, cammino su frammenti di specchi, uniti da fili invisibili, anche il cuore oramai pieno di rughe smette di battere e sussulta. Ho i brividi, non immaginavo fosse tanto difficile dirti …ti amo…figlio mio.

  25. Il canto dei rapsodi erranti

    Ci rifugiammo nell’oscurità
    di sentimenti poetici e avventure,
    sempre brucianti dal desiderio
    di rinvenire il sole.
    Erano giorni di coraggio estremo,
    quando dal palpito dei cuori
    scaturiva una lenta sinfonia
    che ci inebriava i sensi.
    Era il canto dei rapsodi erranti,
    a ritmare il tempo del cammino,
    accompagnava il sollevarsi della polvere
    ad ogni passo,
    e scandiva goccia a goccia
    il posarsi della pioggia sulla pelle,
    sulla terra, sulle foglie, su ogni cosa,
    congiuntamente ai nostri sguardi.
    E con l’età, avanzava lenta
    la nostalgia di un altro evo
    che sarebbe accaduto oltre
    il nostro passaggio.
    Altro rimpianto per il senso
    di una vita
    che non avremmo mai potuto amare.

    sez. a, accetto il regolamento

  26. SCARPE ROSSE

    Infine calzò quelle incredibili scarpe rosse, comprate al mercatino dell’usato.
    Quella sera di plenilunio Anna e Marco si erano dati appuntamento davanti al ristorante la “Conchiglia.”
    Una spigola al vapore con verdurine per Anna. Pasta allo scoglio e gamberoni per Marco.
    In basso sotto il tavolo le scarpe rosse di Anna non trovavano posa.
    In realtà loro sarebbero rimaste anche immobili, se i piedi di Anna non avessero avuto esigenze contrarie.
    Apparentemente calma, dal busto in su, Anna portava alla bocca minuscoli pezzi di carne bianchissima e delicata che masticava senza gustare.
    Marco invece mangiava il pesce gustandolo con immenso piacere.
    Ho deciso di dare un taglio a questa storia senza senso, buttò lì Anna, mentre poggiava lentamente la forchetta sul piatto.
    Marco deglutì, non riuscì a dire niente, il grosso boccone gli andò su e giù come in un ascensore impazzito, infine si fermò a metà rischiando di soffocarlo.
    Quando riuscì a liberarsi, la sua gola si ritrovò ancora ostruita da un boccone, ben più coriaceo ed amaro, del primo.
    – Come, senza senso?– balbettò. Ma se fino a giovedì andava tutto bene –
    Le scarpette rosse sorrisero, anche se nessuno le vide, e nemmeno furono notati i piedi di Anna che si irrigidivano, grazie alla complicità della lunga tovaglia azzurra che copriva il tavolo. Non tutti i giorni sono uguali Marco, oggi non va niente bene, e tu dovresti saperlo!
    Io? Rispose Marco stupito.
    Le scarpe rosse, con la punta assentirono, e stavano per sferrare un calcio sonoro sulla caviglia di Marco, quando i piedi, più giudiziosi, riuscirono a farle desistere.
    Si proprio tu, che pretendi di voler portare avanti questa storia con il tradimento. –Brava Anna, fatti sentire – la incitò la scarpa destra, mentre la sinistra imponeva alla sorella di parlare a bassa voce.
    Ma cosa stai dicendo Anna, farnetichi
    Hai il coraggio di negare? Ebbene questa volta ho le prove, dei tuoi tradimenti.
    Marco sbiancò, mentre le scarpe sotto il tavolo si fecero di un rosso anguria matura.
    Sentiamo cosa rispondi alla domanda. Il quesito è semplice: se Sabato 3 Gennaio tu abbia dormito da solo.
    Le scarpe trasalirono diventando rosso carminio
    E due giorni fa proprio giovedì, eri solo a letto? –
    Con chi avrei dovuto essere? –
    Bene, il nome Tatiana ed Elisa, ti ricordano niente? Il viso di Marco scolorì ulteriormente, e un leggero sudorino imperlò le guance, tanto da farle assomigliare a due freschissime mozzarelle fior di latte.
    Le scarpe se la ridevano sommessamente.
    Come aveva fatto Anna a scoprire queste sue scappatelle, forse l’aveva seguito? Nessuno, che lui sapesse, poteva essere venuto a conoscenza di quelle sue notti di lussuria.
    Marco forte della propria convinzione continuava a negare.
    Anna sicura della sua, continuava ad accusare.
    Lui, on riusciva proprio a capire chi avesse fatto la spia.
    Quando Anna, gli disse chiaramente che non era il caso di mentire ancora, perché ambedue le ragazze avevano tranquillamente confessato di essere state con lui, Marco rimase esterrefatto e rispose –
    E tu come hai fatto a conoscerle? Come è stato possibile?
    Tatiana abita a Volterra mentre Elisa è di Viareggio. Anna non rispose, si alzò e lasciò Marco con il cucchiaino a mezz’aria e con la bocca spalancata per lo stupore, davanti ad un coloratissimo dessert, che non ebbe il coraggio di assaporare.
    Le scarpe cantavano allegre sul pavimento del locale, mentre accompagnavano Anna all’uscita.
    Impettite ed orgogliose nel loro rosso sgargiante si sentivano orgogliose di aver rivelato ad Anna, la verità. Anna, la loro nuova inquilina, era una brava ragazza.
    Mentre le altre, Tatiana ed Elisa si erano dimostrate un po’ troppo leggere, passando da un letto all’altro, senza minimamente pensare che sotto i letti, si possa trovare sempre qualche sorpresa.
    E le povere scarpe dopo aver camminato tutto il giorno, non se la sentivano assolutamente di rischiare, mentre avrebbero anelato a dormire in sicurezza, sotto il consueto letto di casa.
    Erano state altrettanto felici di averla accompagnata a grandi passi, a parlare con le due ragazze. Che poi si erano rivelate anche maleducate, non accorgendosi della loro presenza ai piedi di Anna. Questa se la sarebbero legata al dito “del piede.”
    Certo, lo spifferare la verità ad Anna era stato per loro evento eccezionale, compiuto esclusivamente per un senso di giustizia.
    Il fatto di aver trascorso quel giovedì e quel sabato sotto il letto di Marco, senza chiudere occhio, a causa dei movimenti sussultori ed ondulatori del letto, passava in secondo piano.
    Anche il desiderio che Anna e Marco non facessero pace non era stata la causa principale della spifferata, ma era stato dettato dal fatto che per loro rappresentasse veramente una questione di vita o di morte. Infatti se non ci fosse stata quella rottura, sarebbero state costrette ad una nuova insonne notte, e questa sarebbe stata loro sicuramente fatale.
    Per fortuna si addormentarono sotto il letto sicuro di Anna, del sonno dei giusti, in pace con tutto il mondo, delle calzature e non, per aver compiuto quella nobile azione.

    sez. b accetto il regolamento

  27. IL MIO LAGO

    Sagome si staccano da una luce sospesa.
    Il buio arretra e nell’incanto dei colori
    esce la vita. Un cammino di sogno che
    oltrepassa i confini e giunge là dove vita
    e morte si uniscono in danza sincronica.

    Nella fusione dei corpi l’aria trascolora.
    Il rosso canta passioni mai sopite.
    Il blu si scioglie in armonie liquide di un serale
    viola dalla vita breve. Tramonti lacustri
    dove la fragranza del glicine si arrampica
    sulle note di una musica immortale. Barche
    evanescenti scivolano sul paesaggio acqueo
    con la levità di petali di viola.

    Sbiadiscono forme e nomi fino a scomparire.
    L’ego annega nell’oceano della trascendenza.
    E tu che credevi all’incompatibilità degli opposti.
    -Dimmi come hai fatto a non accorgerti
    della complicità dell’acqua e del fuoco.

    Del legame indissolubile che intercorre tra
    luce e buio. Ed a non comprendere che la vita
    e la morte si amano, di un amore così ardente
    che travalica la materia e conduce all’eternità.

    sez. a accetto il regolamento

  28. LE OMBRE NON SI STACCANO DA TERRA

    “ Guarda! Degli esseri umani vivono in una caverna sotterranea che ha un’apertura verso la luce, ampia quanto la spelonca stessa; essi ci sono stati fin dalla loro infanzia ed hanno le gambe ed il collo incatenati in modo da non potersi muovere, e possono veder solo dinanzi a sé, essendo impediti dalle catene di volgere la testa. Ad una certa distanza dietro di loro, in alto, risplende un fuoco, e tra il fuoco ed i prigionieri vi è una strada rialzata; e se guardi vedrai un muro basso costruito lungo la strada come il tramezzo che i burattinai hanno di fronte sopra il quale mostrano le marionette ”.
    “ Capisco ”.
    “ E vedi ” – dico – “ gli uomini che passano lungo il muro portando ogni sorta di recipienti e di statue e di figure di animali fatte di legno e di pietra e di vari materiali che appaiono al di sopra del muro? Alcuni di loro parlano, altri tacciono ”.
    “ Mi hai mostrato una strana immagine, e si tratta di strani prigionieri ”.
    “ Come noi ” – rispondo – “ ed essi vedono soltanto le proprie ombre, o le ombre l’uno dell’altro, che il fuoco proietta sul muro opposto della caverna ”.
    Platone, Repubblica, VII, 514-16

    “ Ho visto l’ombra di un bimbo assonnato ”.
    “ Come? ”.
    “ Ho visto l’ombra di un bambino stanco, spossato. La madre l’aveva accompagnato presto, una
    mattina, a scuola in un istituto di suore e lasciato in portineria. Il bimbo aveva reclinato la piccola
    testa sulle mani, appoggiate ad un banco, e stava per riaddormentarsi quando la portinaia gli chiese
    come mai era lì già a quell’ora, così presto. Rispose che non aveva più il padre e che la mamma
    doveva recarsi di buon ora sul posto di lavoro. La suora gli domandò allora se avesse già svolto i
    compiti previsti per le lezioni della mattinata e la risposta fu negativa. – Sarà meglio farli – lo
    esortò l’anziana signora ma egli disse candidamente – Non ora, ho troppo sonno – e, abbassando il
    capo, si addormentò sotto gli occhi di una donna che non osava disturbare il suo riposo ”.
    “ Certo che questo bimbo non parte avvantaggiato nella dura gara per la vita, se non può dedicare la
    sua volontà alla propria formazione, vero? ”.
    “ Sì, è stata una visione triste ”.
    “ Non eri certo in Paradiso ”.
    “ No. Una volta, poi, ho visto l’ombra di un bimbo gravemente ammalato, avrà avuto…5 o 6 anni ”.
    “ L’ombra o il bimbo? ”.
    “ Entrambi. Aveva la morte dipinta negli occhi scavati. La morte che arriva si vede distintamente
    anche nelle ombre. I genitori lo avevano, per alleviargli gli ultimi giorni, portato in un grande,
    meraviglioso parco di divertimenti. Sulla sua sedia a rotelle guardava rapito quello spettacolo
    favoloso, quelle luci, quella gioia e dimenticava le sue sofferenze. I bimbi hanno un rapporto
    particolare con la morte. Giocano ridendo fino a pochi attimi prima. Uno spettacolo straziante ”.
    “ Non eri certamente in Paradiso ”.
    “ No ”.
    “ Cos’altro hai visto ancora? ”.
    “ L’ombra di una madre china, su di un letto di ospedale, sul suo figlioletto, bisognoso di un
    trapianto di cuore.
    La mamma, disperata, aspettava con la morte nel cuore la morte di un altro bambino che potesse
    donare la vita al proprio. Con la mente la donna non si augurava questo, ma col cuore sì!
    La madre, china, pregava in silenzio, non so per quale delle due cose. Non è stato un bello
    spettacolo ”.
    “ Non eri certo neanche quella volta in Paradiso ”.
    “ No. …..Ma ho visto poi…… ho visto tante ombre, ombre nere che al calar della sera si
    allungavano sempre più. Numerosissime, riempivano tutta l’Africa. Ombre nere sul continente nero.
    Ombre di bambini moribondi per miseria, epidemie, fame. Centinaia di migliaia, milioni di ombre
    più esili di grissini agonizzanti, intente a succhiare dall’arida sabbia una goccia d’acqua, di
    medicina, un soffio di vita. Una visione spettrale ”.
    “ Certo, anche quella volta, non eri in Paradiso ”.
    “ No ”.
    “ Perché tante sofferenze? ”.
    “ Siamo ombre, vincolate alla corruttibile, misera vita terrena. Un’esistere che si trascina in bianco
    e nero, forse con qualche chiazza di grigio. Sì, una grigia esistenza: una vita confinata in due sole
    dimensioni, lunghezza e larghezza. Ombre di un mondo di idee a noi superiore, un mondo di
    perfezione assoluta, di bellezza , di verità e di gioia. Tutto ciò che scorgiamo sono le ombre di
    questi oggetti, proiettate a terra dalla luce del sole. Inevitabilmente noi consideriamo queste ombre,
    e noi stessi, ombre pure noi, come reali, non possedendo la più pallida nozione della forma e della
    bellezza delle entità che le hanno generate. Siamo esseri bidimensionali impotenti di raffigurarsi tre
    dimensioni ”.
    “ Tre dimensioni? ”.
    “ Sì, il mondo delle idee, il Paradiso, ha tre dimensioni: lunghezza, larghezza ….e felicità.
    E’ la felicità che permette al colore di esistere. Il Paradiso è molto colorato ”.
    “ In Paradiso c’è anche la felicità? ”.
    “ Sì, anche quella ”.
    “ Perché qui da noi no? ”.
    “ Forse il sole non è poi quella divinità così perfetta che gli antichi credevano. Ci dà la vita, certo,
    perché noi ombre esistiamo, ed esistiamo solo grazie a lui. Però proprio per nostra natura siamo
    condannate ad una vita piatta, uniforme, non possiamo alzarci ad aprire il libro che parla
    dell’assoluto. Siamo circoscritte, finite, forse un po’ sfocate ma limitate, mentre vorremmo
    estenderci sconfinate. Siamo come scimmie ansiose di infinito, prigioniere del tempo: scimmie che
    vogliono essere Dio ”.
    “ Esiste il Paradiso? ”.
    “ Sì! Altrimenti noi non esisteremmo: SIAMO LE OMBRE DEL PARADISO ”.
    “ Potremo però vedere quelle sfolgoranti bellezze dopo la morte, ed è una consolazione il
    poterlo un giorno finalmente conoscere, vero? ”.
    “ No, non ci riusciremo mai. Siamo orme dell’assoluto, ed in un certo senso irreali, così come la
    buca là dove manca un ciottolo in una strada lastricata di pietre. Buca che esiste, ma solo per la
    vacanza della pietra.
    Non riusciremo mai a sollevarci nella terza dimensione, osservare di cosa è fatta la felicità, scorgere
    i colori e vedere il sorriso di un bimbo continuare per sempre. Il nostro destino è davvero grigiore,
    buio, sofferenza: no, non ci aspetta certo il Paradiso ”.
    “ Ne sei proprio sicuro? ”.
    “ Sì! ”.
    “ Perché? ”.
    “ Le ombre non si staccano da terra ”.

    ACCETTO IL REGOLAMENTO sezione B

  29. Un universo d’amore

    Quanto è bello pensare a te
    gustare il tuo sorriso, il tuo sguardo, la tua bellezza
    sei tutto per me
    in ogni angolo del mio cuore
    c’è il nome tuo riflesso
    e riflessa è la tua immagine nel mio pensiero
    ti dono me stesso e la mia vita ti appartiene.
    In ogni posto in cui io sono
    un piccolo pensiero è sempre rivolto a te,
    te, che con la tua vita
    hai cambiato la mia
    memore sempre che questa favola un giorno potrebbe svanire
    ma che quel giorno mai potrebbe venire
    gioisco
    e con questa gioia che ti dico: ti amo.
    Così ti chiamo
    dolcezza fatta a donna
    nessuno saprà mai del mio amore
    qualcuno lo vedrà
    ma nessuno capirà
    perché l’amore è come il firmamento
    che tutti osservano ma nessuno mai
    comprende quale stella ciascuno guardi
    e in quello sguardo fra i tanti
    c’è il mio
    rivolto alla tua stella che
    in quell’universo imperscrutabile brilla
    di luce propria, ed io
    amore mio dolcissimo
    in quello stesso firmamento
    voglio essere un semplice pianeta
    per godere per sempre del tuo magnifico riflesso.

    Accetto il regolamento – sezione A
    Alessio Asuni

  30. Accetto il regolamento sezione A

    Fermo il tempo e mi regalo il ricordo più prezioso.

    Avevo richiesto foglie azzurre e fiori rampicanti
    ed ora che ci penso erano meravigliosi agapanti
    per ricoprire tutte le tre pareti della sua cameretta,
    e la quarta, di cappuccetto rosso la nota favoletta,
    ma il lupo l’avevo fatto ingentilire da un sorriso,
    era gioiosa la storia, un prato con qualche narciso.
    Una camera a ponte, un cestone pieno di giochi
    ed altri sparpagliati ovunque e non erano pochi,
    un tappeto che ricopriva tutto il pavimento
    compresi i troppi robot in ordinato schieramento.
    Ed una scrivania che penso non abbia mai usato,
    il suo sguardo cucciolo mi diceva triste e contrito:
    -Mamma mi sento solo ed abbandonato
    i compiti li faccio dove sei tu e mi correva dietro
    ovunque io fossi c’era lui, al massimo ad un metro.
    C’era un strappo sulla tappezzeria e dopo tanto tempo
    non so come è cambiata quella stanza nel frattempo.
    Ma lui è cresciuto ed io non so se gli mai viene in mente
    la vecchia stanza e la sua mamma oggi decadente.
    Lucilla Vezzi

  31. “Hanno lasciato aperta la porta”
    Hanno lasciato aperta la porta della mia cella.
    Forse è finita.
    Forse è finita davvero.
    Ma se fosse la mia vita, la vera sconfitta?
    Non ho più casa né famiglia.
    Non ho più abiti né denaro.
    Mi è rimasta solo questa guerra
    dentro il cuore.
    Solo odio e rancore.
    Hanno lasciato aperta la porta,
    ma non credo uscirò.
    Non mi resta altro posto dove andare.
    Non ricordo più cosa sapevo fare.
    Mi è rimasta solo questa guerra
    dentro il cuore.
    Solo odio e rancore.
    E morte.
    © Daniela Giorgini – Accetto il regolamento – Sezione A

  32. Sezione B- Accetto il regolamento

    IL CAPPELLAIO

    Tanto tempo fa c’era un paese famoso per la sua carne prelibata. In quel paese ogni abitante possedeva del bestiame che era diventato per tanti la principale fonte di guadagno. Il re era molto fiero della carne del suo regno che aveva la fama di essere la migliore al mondo. Gli esperti collaboratori del re erano sempre impegnati a dare raccomandazioni ai sudditi su dove portare le mucche a pascolare e soprattutto a controllare con molta attenzione il cibo degli animali.
    Un caldo giorno d’estate il signor Mario aveva portato come al solito la sua mucca a pascolare in una radura coperta da un tappeto erboso dal colore invitante dove si saziava sempre per bene. Per asciugarsi il sudore della fronte si tolse il cappello e lo appoggiò istintivamente sulla testa della sua mucca. Siccome aveva in mente tante cose che doveva fare ancora quel giorno si dimenticò del tutto del suo cappello. Tornando a casa con la mucca incrociò un suo compaesano che portava anche lui la mucca al pascolo.
    “Buongiorno, come mai la tua mucca porta il cappello?” gli chiese l’amico curioso.
    Solo allora il signor Mario si ricordò del cappello rimasto sulla testa della mucca.
    “Non hai sentito? Si tratta di un ordine del re”, gli rispose Mario che aveva voglia di scherzare.
    “Non l’ho mica sentito io”, disse sbigottito il compaesano.
    “Adesso lo sai”, continuò il signor Mario a scherzare.
    “Grazie di avermelo detto”, salutò l’altro e se ne andò.
    “Ci è cascato”, rideva tra sé il signor Mario.
    Il compaesano che aveva in testa il cappello lo mise a sua volta alla sua mucca.
    “Se l’ha ordinato il re…”, pensò.
    Quando incontrò un altro compaesano e questo gli fece la stessa domanda che lui aveva fatto al signor Mario, gli disse:
    “Non hai sentito? Il re ha ordinato di mettere alle mucche un cappello in testa per via del caldo di questi giorni.”
    E anche in questo caso il compaesano si preoccupò subito di mettere alla mucca un cappello anche se non era al corrente della presunta disposizione reale. Non passò neanche un giorno e tutto il paese era informato di questo strano ordine del re e tutti vollero eseguirlo. C’è chi aveva il cappello e chi no. Quelli che non lo avevano si precipitarono dal cappellaio del paese che fu strafelice di vendere tutti quei cappelli. Mise persino un cartello fuori dal negozio in cui c’era scritto:
    “Il cappello alle vostre mucche- un ordine del nostro re”.
    Si può immaginare come al cappellaio gli affari andassero a gonfie vele in quel periodo. Ormai tutte le mucche erano provviste di un cappello e lui era l’unico cappellaio del paese.
    La notizia dell’obbligo di mettere un cappello alle mucche arrivò al Palazzo Reale.
    “Avrei dato questo ordine?” chiedeva incredulo il re ai suoi segretari.
    “Sì, signore. Lo sanno tutti”, gli rispondevano loro convinti.
    “Ma chi ha diffuso questa notizia?” insisteva il re.
    “Non so proprio chi sia il primo che l’ha ricevuta”, gli disse un segretario.
    “Io non l’ho detto a nessuno, insomma, perché non riuscite a credermi?”, urlò il re esasperato.
    Se tutto il paese diceva il contrario come potevano pensare che non fosse vero.
    “Sarà stato il cappellaio per arricchirsi, sennò chi altro”, dedusse il re.
    Così diede l’ordine di arrestare il cappellaio, il quale rimase senza parole e disperato alla notizia dell’imminente arresto.
    “Non sono stato io, credetemi, forse era un ordine del re, chiedete agli altri se ho mai proposto qualcosa di così strano. Sono sicuro che le nostre mucche non vogliono quegli stupidi cappelli”, disse piangendo al giudice cercando di farsi forza.
    Il cappellaio fu condannato all’ergastolo per truffa ai danni dell’intero popolo. Il malcapitato continuava a gridare la sua innocenza ma il re non gli credette anche se le ultime parole al processo rimasero impresse nella memoria del re.
    Non uscì mai il nome del signor Mario come responsabile di quel terribile malinteso e addirittura anche lui si convinse che era stato il re a dare quell’ordine anche se aveva qualche dubbio al riguardo che ogni tanto lo confondeva.
    Prima di diffondere certe notizie bisogna preoccuparsi di accertarsi della loro veridicità perché le conseguenze possono essere gravi e imprevedibili.
    Ne sa qualcosa il cappellaio!
    Fortunatamente le mucche si ribellarono a quei ridicoli cappelli e, saltando e scalciando, se ne liberarono facendo capire ai loro padroni che non ne avevano bisogno.
    Il re fortunatamente cambiò idea sul cappellaio e gli diede la grazia ma purtroppo non sempre ci sono gli animali ad aiutare le persone a non sbagliare.

  33. Sezione A – Accetto il regolamento

    NELLO SPIRAGLIO DI LUCE

    L’incredula notte
    nascondeva avanzi consumati.
    Dietro lo spiraglio aperto
    la luna filtrava argentei raggi
    tra gli alberi sommersi dal sonno.
    Avevo i tuoi occhi di pianto
    uniche stelle generose
    che dall’immenso cielo
    potevo tuffarmi con gioia.
    Dall’immensità del nostro amore
    nell’incredula notte trascorsa,
    l’orizzonte scopriva il nuovo giorno.
    Le nostre mani si tenevano strette
    e i tuoi occhi risplendevano ancora.
    La luce del giorno abbagliava
    tracciando nei nostri volti
    una tremenda forza di vivere.

    Franco Maccioni

  34. Sezione B – Accetto il regolamento

    LA RANA RAMINA E IL PESCE GESPINO

    C’era una volta un pesce di nome Gespino che viveva in un laghetto. Era un pesce molto curioso e amava esplorare il mondo sottomarino. Un giorno, mentre nuotava tra le alghe, vide una rana di nome Ramina che saltava da una foglia all’altra. Il pesce rimase affascinato da quella creatura verde e agile e decise di seguirla.
    Ramina si accorse presto di essere seguita da un pesce e si fermò su una foglia per guardarlo meglio. Essendo molto timida e solitaria, non aveva mai avuto amici. Vedendo il pesce, provò una strana sensazione nel cuore e gli sorrise timidamente.
    Gespino si avvicinò alla foglia e le fece un cenno con la pinna. La rana gli chiese come si chiamasse e da dove venisse. Gespino le raccontò della sua vita nel laghetto e le disse che era sempre alla ricerca di nuove avventure. Disse poi la rana che lei invece viveva sempre sulla stessa foglia e che aveva paura di tutto.
    Gespino allora le propose di andare con lui a scoprire il mondo e lei accettò con entusiasmo.
    I due iniziarono così a viaggiare insieme e si divertirono moltissimo. Gespino mostrò a Ramina le meraviglie del laghetto, come i fiori di loto, le libellule e i raggi del sole che filtravano nell’acqua. Le mostrò poi le gioie della terraferma, come i funghi, le farfalle e il canto degli uccelli. I due si scoprirono sempre più innamorati l’uno dell’altra e si promisero di non lasciarsi mai.
    Ma un giorno, una terribile siccità colpì il laghetto e il livello dell’acqua cominciò a scendere. Gespino e Ramina si resero conto che presto il laghetto si sarebbe prosciugato e che avrebbero dovuto separarsi. Gespino disse allora a Ramina che avrebbe cercato un altro laghetto dove vivere e che l’avrebbe portata con sé. Disse anche che avrebbe aspettato il suo ritorno e che l’avrebbe amata per sempre. Gespino si mise in cerca di un altro laghetto, ma non ne trovò.
    Tutti i laghetti erano secchi e i pesci erano morti. Si sentì allora molto disperato e pensò che non avrebbe mai più rivisto la sua bella.
    Decise allora di tornare dal suo amore e di morire con lei.
    Quando Gespino arrivò al laghetto, vide che l’acqua era quasi scomparsa e che il suo amore era ancora sulla sua foglia; lei lo vide e gli corse incontro. I due si abbracciarono forte. Ma proprio in quel momento, il cielo si aprì e una pioggia torrenziale cadde sulla terra. Il laghetto si riempì di nuovo di acqua e i fiori di loto sbocciarono e tutto fu meraviglia. Gespino e Ramina capirono che era stato un miracolo e ringraziarono il destino per averli salvati.

    Si baciarono felici e vissero per sempre insieme nel laghetto.

    Franco Maccioni

  35. Accetto il regolamento Sezione A

    E’ già domani
    E ascolto in silenzio
    il fruscio del vento
    che si insinua
    tra secche sterpaglie.

    E ascolto il rumore
    di un sorriso
    di un tempo che fu.

    E ascolto le parole
    stringendo il tempo
    nel chiuso di un pugno.

    E ascolto in silenzio
    il tracimar del giorno
    ove tutto è pronto
    per il già domani.

  36. La Voce – Sez. B – Accetto il regolamento

    Nessuno sapeva quando fosse cominciata.
    Persone che impazzivano da un momento all’altro.
    Morti su morti.
    Un suicidio dopo l’altro.
    I boschi limitrofi pullulavano di corde, di cappi e di impiccati.
    La gente si alzava improvvisamente
    nel cuore della notte
    e s’inoltrava nella foresta alla ricerca del suo albero.
    Avevamo perso i nostri genitori,
    molti parenti e amici.
    Ci ritrovavamo con un pugno di mosche in mano.
    Il bosco sembrava un cimitero di corpi sospesi,
    la situazione era davvero seria.
    Quelli che fuggivano dal paese ritornavano tutti…
    per compiere il gesto estremo.
    Io e Jennifer ci chiudemmo dentro casa
    con il compito di sorvegliarci a vicenda.
    Una bambina che era rimasta senza nessuno al mondo
    viveva da qualche mese con noi.
    Era la nostra più grande gioia.
    I bambini, stranamente, risultavano immuni a questo flagello.
    Gli scienziati cercavano la risposta,
    ma per ora ancora niente.
    Quando qualcuno usciva di casa per andare nel bosco
    ce ne accorgevamo dalle grida degli altri
    che dalle finestre intimavano di non andare
    oltre la linea bianca che le forze dell’ordine avevano tracciato
    a pochi metri dal punto in cui tutti s’inoltravano nella selva
    per non tornare mai più.
    Molti di noi cercavano di sorvegliare la zona
    senza avvicinarsi al punto incriminato.
    Una sera, iniziai a sentirmi strano.
    All’altezza dell’ombelico avvertii una forza impressionante
    simile ad un buco nero e mi sentii risucchiare
    da quella “cosa”.
    La persona che uscì da quell’esperienza
    non fu più la stessa per il lasso di tempo in cui mi suicidai.
    Perché mi suicidai.
    Giocai a nascondere quello che mi stava accadendo
    e quando Jennifer si addormentò
    sgattaiolai fuori.
    Portai con me uno sgabello.
    Raggiunsi il bosco che era coperto da una leggera foschia.
    L’atmosfera era spettrale.
    Quel luogo così vitale un tempo adesso era fantasmatico.
    Si percepiva un odore di corpi in putrefazione.
    Arrivai sotto l’albero dove avrei compiuto il gesto.
    La morte stessa aveva scelto quell’albero,
    c’era già la corda e un cadavere pencolante.
    Gli tolsi l’occhiello aiutandomi con lo sgabello e subito dopo
    lo misi intorno al mio collo stringendo il nodo.
    Poi spinsi via lo sgabello e soffocai fino a morire…
    Crak!
    Il ramo si spezzò e caddi a terra.
    La botta mi fece rinvenire per alcuni secondi,
    abbastanza da avere il tempo di allentare il nodo scorsoio.
    Tornai a respirare
    e immediatamente scoppiai a piangere.
    Ripresi la strada di casa,
    non provavo più quella sensazione che mi aveva inghiottito.
    Quando rientrai, ad attendermi c’erano i miei due angeli,
    Jennifer e la piccola Sara che dormivano.
    Ancora non riuscivo a smettere di piangere,
    ma ero felicissimo,
    non soltanto per essermi salvato, ma soprattutto
    per non aver lasciato ancora più sole
    le mie due uniche ragioni di vita.
    Non dissi nulla di quanto era accaduto
    e ripresi la vita di sempre.
    Tornai a scrivere passando le giornate così.
    Jennifer faceva altrettanto.
    Il comune di Rege,
    ovvero il paese dove vivevamo,
    prese delle contromisure come il coprifuoco delle 17:00,
    considerando che tutti i suicidi avvenivano
    quando il buio era già fitto.
    Ben presto, Rege sarebbe divenuto
    il luogo più sorvegliato del mondo.
    Forze dell’ordine e persino i militari controllavano
    tutte le zone del borgo.
    E poi c’erano i giornalisti ovviamente.

    La notte dei misteri.
    Così chiamammo quella notte,
    che non ci lasciò più in pace.
    Dopo gli ultimi tre suicidi,
    ci fu un vertice al quale parteciparono il Presidente del Consiglio,
    il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito,
    alcuni membri dei Servizi Segreti,
    della CIA
    e persino eminenti occultisti.
    L’unica cosa che ci dissero fu che avremmo ricevuto il cibo
    e tutto l’occorrente direttamente in casa
    dai militari stessi
    e che ogni porta del paese sarebbe stata sorvegliata
    ininterrottamente dalla mattina alla sera.
    Quella notte, mi addormentai alle 22:30.
    Mi svegliai alle 5:25.
    Nel mio letto non c’era nessuno.
    Mi vestii di corsa e scesi le scale altrettanto velocemente.
    Aprii la porta molto lentamente.
    Fuori non c’era nessuno,
    a parte i guaiti di un vento freddo, gelido.
    Le strade deserte.
    Nessuna sorveglianza.
    Un silenzio profondissimo avvolgeva ogni cosa.
    Era ancora notte.
    Una notte invernale di un gennaio di tanti anni fa.
    Non ci pensai due volte.
    M’inoltrai verso il bosco.
    Imboccai il sentiero che tutti percorrevano,
    per giungervi.
    Quando arrivai, la parola mi si spezzò sulle labbra.
    Centinaia di uomini e donne,
    bambini e bambine,
    impiccati,
    quasi tutti immobili tranne quelli che roteavano dolcemente,
    a sinistra, a destra, poi di nuovo a sinistra…
    Non un fiato
    a rompere quel silenzio,
    neppure più il vento.
    Camminai lungo il sentiero ancora pochi passi… Jennifer.
    Indossava un vestito completamente bianco,
    come gli altri, persino i militari
    avevano una tunica bianca.
    Non pensavo a cosa fosse successo.
    Il mio unico pensiero era Sara.
    Dopo qualche metro,
    vidi Sara.
    Anche lei vestita di bianco,
    con delle farfalline disegnate sopra il piccolo abito.
    Tutte le bambine avevano lo stesso vestitino.
    Tutte le donne lo stesso vestito.
    Tutti gli uomini la stessa identica tunica.
    Tutti i bambini con un completino,
    sempre bianco.
    Sembrava un macabro rituale.
    Il vento tornò a guaire.
    Forse stava cercando di dirmi qualcosa.
    Forse no.
    Non seppi mai perché venni risparmiato.
    Mi ero salvato… una volta.
    Ma non era affatto il mio pensiero.
    In quel momento, c’era solo quella sterminata distesa,
    di alberi e morte.
    Solo quei corpi che sembrava parlassero.
    Le loro voci erano oramai un’unica voce solitaria.
    La voce stessa del vento.

  37. LACRIME

    Se le lacrime
    potessero sconfiggere i dolori,
    non esisterebbero più i mari. Proteggerebbero la continuità della speranza nella sua eccentricità, senza pretendere la sua solidarietà. Michela Minini

    dichiarazione di accettazione del regolamento, sez. a

  38. LA MONADE

    Indicibile
    Indescrivibile
    Ineluttabile
    Càos.

    Eterogenei
    Eterodiretti
    Elementi
    Confluenti
    In un’unica
    Monade.
    (2 luglio 2024)

    Dichiaro di accettare il regolamento. Sezione A. Poesia

  39. NEL SILENZIO DELLA MEMORIA
    Memorie nascoste nel silenzio,
    dolori, rabbia, soprusi, nel silenzio.
    Staffette dell’orrore nel silenzio,
    un silenzio crudele che non ha niente a che vedere
    con il silenzio della notte che nulla fa accadere.
    Staffette dell’orrore
    per un giorno migliore.
    Donne silenti
    contro i potenti.
    Donne ricche di ideali,
    che non fa rima solo con partigiani.
    Donne bambine, figlie guerriere,
    pronte a oltrepassare ogni barriera.
    Vita o morte,
    vita o libertà,
    morte o dignità.
    Morte per un futuro felice,
    che non è solo donna.
    Simona Trunzo
    Dichiarazione di accettazione del regolamento
    Sez a

  40. IL PESO DELLA CROCE
    Spiegami Padre …
    perché posso dormire nel mio letto
    mangiare nel piatto
    lavarmi la faccia
    parlare la mia lingua.
    Spiega al bambino che piange
    perché gli uomini non sono tutti uguali
    perché le bombe volano come gli uccelli
    perché il fuoco brucia
    dove non scalda
    e le fiabe raccontano bugie.
    Ho un punto di domanda
    appeso a un palloncino
    e uno spillo
    stretto fra le dita.
    Il disagio del privilegio
    mi toglie il sonno
    e le lacrime dei piccoli
    piegano le ginocchia.
    Spiegami Padre …
    perché non comprendo
    da che parte sta il peso della croce.

    sez. a, accetto il regolamento

  41. Non voglio
    Le piccole cose
    Le voglio minuscole
    Infinitamente
    Minuscole
    Non quelle che stanno in
    Un palmo di mano voglio
    Bagliore di attimi
    Sulla falange di un dito,
    Momenti sacri
    Opportuni
    Sempre necessari
    Mai buttati là
    Delineati da semplicità
    E amore
    Li voglio silenziosi
    Ché passino inosservati
    Anonimi ma unici
    Inestimabili
    Carichi di significato
    Per me e
    Per chi mi ama.

    Luciana Potenza 7 Luglio 2024

    Sezione A
    Accetto il regolamento

  42. Il Seme della Libertà

    “…eravamo in due, con me c’era Fausto, era giovane sai…quasi un fratello minore e s’era fatta amicizia subito sul lavoro, alle Ferrovie per via della stessa grande passione, le bocce…t’avessi visto che sfide sul pallaio di Colonnata !
    Poi una dannata mattina arrivano i tedeschi e ci mettono tutti in riga nella stazione per portarci via…voci concitate… un italiano storpiato… a un tratto capii, volevano qualcuno che avesse fatto il macellaio.
    Era l’ultima occasione, fui svelto a spingerlo avanti insieme a me.
    Fingemmo di lavorare solo un giorno insieme nelle cucine, masticando amaro, maturando quella decisione che il mattino seguente, a buio, ci portò su quel sentiero ripido verso Morello…sentivo Fausto affannato salire dietro di me, sai era di città lui, all’improvviso nel buio la sua voce…ci pensi Bruno noi due partigiani!
    E come si fa con le bocce ?…poi rise piano.”
    Il racconto del nonno andava avanti di solito per un’ora buona e Paolo con la fantasia di bambino sobbalzava ai rumori del bosco e rabbrividiva al gelido tramontano di quell’inverno alla macchia ma non perdeva una parola, non si stancava mai di ascoltarlo.
    Più di ogni altra cosa amava fargli ripetere quei nomi…Casalino, Fonte dei Seppi, Cerreto Maggio… luoghi affascinanti ma irraggiungibili ” …appena cresci e sei buono a camminare ti ci porto “ gli diceva Bruno, pur senza saperlo quei posti mai visti erano già diventati parte di lui.
    Erano passati gli anni, molti, ma il racconto del nonno giaceva intatto come un tesoro nella sua memoria di bambino, nessuno poteva più raccontarglielo, ci pensava in certi momenti come adesso mentre con passo sicuro saliva per quel viottolo ormai familiare verso il Casalino.
    Ammirava intorno la bellezza incolta di quei boschi a loro invidiava d’esser stati testimoni e attori di quella Resistenza che percepiva come un bene di famiglia, un’eredità importante, un’impronta indelebile, a Lei doveva la libertà di vivere la sua vita tranquilla divisa fra la famiglia ed il lavoro in meccanica, per lui di razza partigiana forse troppo tranquilla, nel tempo libero c’era la pesca, la sua prima ed inossidabile passione a regalargli qualche emozione ma a ben pensare niente che valesse la pena di essere raccontato.
    D’improvviso la voce di Andrea lo riportò al presente, anche adesso erano in due lo guardò così giovane, sorridente nei suoi quindici anni, era cresciuto meglio di quanto avesse mai potuto immaginare, era un uomo di domani.
    Sentì che quello era il momento di tramandargli il seme della libertà, lo prese sotto braccio aprì il cuore e continuando la salita iniziò il racconto.
    D’improvviso una folata di vento animò il bosco, gli piacque pensare fosse la presenza di Fausto e degli Altri che in quei monti avevano combattuto e sacrificato la gioventù e la propria vita per restituire a noi tutti il futuro di cui erano stati derubati.
    Non sarebbero stati dimenticati, mai.

    sez. b, accetto il regolamento

  43. Sez. A –
    Dichiaro di accettare il regolamento

    San Lorenzo

    Dovremmo imparare dalle stelle
    a perdere questo dannato equilibrio
    per precipitare,
    e
    nonostante tutto
    brillare…

    (Antonella Chiego)

  44. Sez A
    Vola
    Vola ragazzo,
    vola più in alto che puoi.
    Sali su una mongolfiera.
    Vira i tuoi sguardi
    su altri mondi.
    Segui la traiettoria del tuo cuore
    e non voltarti indietro.
    Dalla sommità getta la zavorra
    delle incertezze e dei dubbi.
    Guarda al di là delle nuvole,
    la vita è tua, sfidala
    con il coraggio della tua
    giovinezza.

    dichiaro di accettare il regolamento

  45. TraMe

    Tra me e me
    Trame
    Un ombra in agguato
    Mi spia.
    Nuotando
    in acque profonde,
    Ora so,
    che il pensiero
    mi pensa ,
    Come fosse
    Ente
    Sovrasensibile,
    Rivestimento ,
    di questi strati
    di storia che siamo.
    Nelle trame di questa pelle
    C’è il ricordare
    Nella mia lingua
    che mangia il mio corpo per conoscermi ,
    C’è
    Antico desiderio
    di cantare senza suono ne voce
    La storia senza tempo,
    che mi possiede.

    Annalisa Pascai Saiu
    Nora 30 settembre 2023

    Sezione A – dichiaro di accettare il regolamento

  46. Verità
    Ti nascondi
    sulle mie labbra
    tramutando
    le parole in menzogne.
    Appari
    tra i miei vocaboli
    rendendoli falsi,
    ti insinui
    tra le pieghe del tempo
    nell’attimo
    del suo passare,
    ti accoccoli
    tra le mie braccia
    pretendendo
    la mia fedeltà.
    Verità,
    accarezzi
    le mie curve sinuose,
    ti insinui
    tra la mia femminilità
    assorbendo
    la mia sensualità,
    appagando,
    nell’intimità
    la mia sete d’amore
    nell’attimo stesso
    in cui ti chiamo.
    Verità,
    affabulatrice
    d’intelletto,
    mi incateni
    ad un’ illusoria
    libertà.
    Verità,
    incatenata
    alla mia
    intellettiva
    superficialità,
    rinneghi
    il tuo esistere
    nell’attesa
    del tuo giudizio.

    sez. a, accetto il regolamento

  47. Sezione A
    (E di te respirano i ricordi)

    T’ho lasciato un bacio
    sul vecchio comodino,
    accanto ad un misero orologio,
    con le sue lancette antiche,
    che non inciampano mai.
    Fanno il solito giro largo,
    tra le sponde del tuo addio,
    attorno alla tua ombra,
    dove giace l’impronta,
    che pur il tempo non sbiadisce.
    E di te respirano i ricordi
    in questa precaria mia memoria
    asfissiata dal silenzio,
    e sopraffatta dal peso dei miei anni.
    Quand’anche un fil di vento
    mi riportasse la tua voce,
    verrebbe dal tuo lontano cielo,
    perché tu possa, ancora,
    solcare l’onda del mio cuore…

    Giorgio Morabito

  48. Ines Zanotti
    Poesia Sezione A – accetto il Regolamento

    ABBRACCIO
    Non “voce del verbo…”
    né solco di china sul rigo
    ma palpiti in sincronia.
    Per nulla gesto impulsivo
    o spento apparire d’enfasi,
    bensì spirali di libertà.
    E’ una stretta di calore,
    quale poetica consolazione!
    La bellezza dell’incontro
    si fonde tra le pieghe,
    dove umiltà si curva
    e rende singolare:
    l’ umanità…
    Nell’abbracciare
    un albero o un figlio,
    elevo difesa per madre terra
    che amor in seno,
    sempre rigenera!

  49. Andreina Moretti
    Roseto degli Abruzzi (Te)

    Accetto i termini del regolamento, sez. A

    MI CHIAMANO PARTIGIANA

    Affondo i passi nella terra e nel sangue degli avi,
    come radici che si aggrappano alla storia.
    Resisto con forza e coraggio
    al gelo del cuore alla neve dei monti.
    Mi chiamano partigiana,
    imbraccio il fucile nel silenzio dell’alba,
    strisciando come un verme sui corpi freddi
    abbandonati nel fango.
    Il mio respiro affannato
    cerca un sogno lontano,
    un mondo di pace.
    Ho abbandonato la casa e i figli del mio seno,
    per conquistare un’Italia da amare.

  50. UN CERTO NON SO CHE

    Un certo non so che
    di oscuro e profondo
    che esiste da sempre
    ai primordi del mondo.
    Un certo non so che
    di suggestivo e affascinante
    che sta sempre un passo avanti.
    Un certo non so che
    di raro e segreto
    che seduce un animo irrequieto.
    E dagli insondabili abissi,
    che sono in noi
    e che da noi
    non possono essere scissi,
    sale una forza ammaliante
    che pervade all’istante
    il corpo e la mente
    simile ad un brivido silente.

    sez. A – accetto il regolamento

  51. Ad un passo dall’eternita’
    Non farlo amico fermati un momento,
    non farlo, non e’ ancora venuto il tuo momento.
    Non te ne andare come un ladro nella notte, come uno di quelli che se ne fotte.
    Ferma quella mano amico, alza gli occhi un’istante, non farti del male.
    Per quelli che ti vogliono bene, per quelli che hanno bisogno di te, non portare via con te la loro esistenza.
    Desisti, e’ preziosa la tua vita amico!
    Guarda, non sei il solo che ha le ossa rotte, non sei il solo che hai preso delle botte.
    Desisti, non disperare, non forzare la mano del destino, non forzare la porta che non ammette ritorno.
    E’ preziosa la tua vita amico, non disperare, lotta non ti fermare!
    Se hai bisogno di uno con cui parlare, io ci sono!
    Se hai bisogno di uno con cui ridere, io ci sono!
    Se hai bisogno di uno con cui piangere, io ci sono!
    Se hai bisogno di uno, io ci sono!
    Indossa la corazza amico e t’infondera’ coraggio.
    Ti rendera forte, nella lotta ti proteggera’, se cadrai ti rialzerai!
    Ti fara’ vedere le cose sotto un’altra luce, e io saro’ li con te se tu lo vorrai

    Filippo Piazza
    Sezione A
    Accetto il regolamento.

  52. Cristina Spennati
    Accetto il regolamento Sezione A

    La mia mamma sopravvive

    Oggi piange oggi ride
    Non è più quella che era
    La mia mamma sopravvive
    Ma di vivere ha paura

    Il tumore la sta consumando

    Lei è forte ma lui è un aguzzino
    Si approfitta del suo corpicino
    L’annienta ogni giorno colpendo
    Col suo fare beffardo e violento

    Non riesce più neanche a mangiare
    Anche bere per lei è un dolore
    Ma sorride a chiunque lei vede
    Ed infonde coraggio a chi crede

    Spaventati e spaesati noi siamo
    Lei non sa che il tumore la mangia
    E ogni giorno il signore preghiamo
    Perché lei stia serena
    Ed arrivi alla fine, senza troppo patire

    Quanto è brutta la sua situazione

    Oggi ha gli occhi velati di pianto
    Non si sente compresa ed è triste
    Lei che è stata da sempre la mia forza
    Io non posso accettare che soffra

    Io per lei nutro gran tenerezza
    Questo male la sta consumando
    E la roccia che è stata per anni
    Piano piano si sta sgretolando

    Ora questo ignorante aguzzino
    La trasforma lei è il suo zerbino
    Ma io questo non lo consento
    Maledetto non lo consento

    La mia mamma non deve soffrire
    Lei è la mia roccia anche ora
    Ti prego non farla soffrire
    Ti prego lascia che viva

  53. Se restiamo in due

    inciampiamo sui morti
    come sui sampietrini

    la nuova tratta
    è il disarmo virtuale

    lo sguardo riverso alla gioia
    dove s’è perso?
    restiamo in due
    a sentire le cose del mondo

    la primavera ancora resiste
    impazzisce cieli pesanti
    e pozzi di terra silenti

    ti prometto l’indignazione
    il gioco di prestigio
    il codice sotteso
    la competizione
    il disorientamento
    il desiderio mancato
    l’imprevisto
    l’arma e il delitto

    ti volevo regalare un sogno
    l’illusione del vincente
    ma qui da dove ti scrivo
    è tutto in guerra

    devi amare restare in vita
    anche in mezzo alla ferocia
    riscriverla

    datti le tue regole
    la parte in cui restare
    abdica allo specchio

    sentiti

    accetto il regolamento, sez. a

  54. SEZ. A – ACCETTO IL REGOLAMENTO

    RESTA QUI

    Portami lì
    dove il tacito silenzio mi parla
    è l’incontro che ho con la tua voce.

    Conducimi lì
    dove il buio profondo non fa paura
    è l’oscurità illuminata dalla tua luce.

    Sollevami fin lì
    dove l’aria dilatata affanna il respiro
    è l’atmosfera composta con il tuo fiato.

    Resta qui
    dove la vita amorevole si manifesta
    è l’immagine del tempo con te affianco.

    © Achille SCHIAVONE, 15 LUGLIO 2024

  55. Partecipo al contest con il racconto “Pensieri paralleli”.
    Accetto le condizioni del regolamento – Sez. B
    ————————
    Pensieri paralleli

    Seduto alla sua scrivania nell’Agenzia n.22, il trentaquattrenne impiegato Massimo Villetti sfogliava con aria pensierosa il fascicolo trattato alcuni giorni prima. Rivide davanti a sé quel cliente magro e brizzolato per il quale aveva curato la pratica di prestito personale, domandandosi come mai ci si fosse dedicato con tanto scrupolo.
    Aveva avviato subito l’iter, convincendo il Direttore a venir meno alla nota regola secondo cui è più sicuro prestare il denaro a chi non ne ha bisogno.
    La verità era che aveva sentito un’insolita, forte simpatia per quell’uomo che non riusciva a nascondere la sua ansia.
    Quei 25.000 Euro erano stati rapidamente erogati.
    I suoi pensieri furono piacevolmente distratti dal delizioso fondoschiena appartenente all’impiegata Marisa Cardano, che stava sistemando con cura alcune cartelle nell’armadio di fronte.
    Compiaciuto del suo stato di uomo attraente, cui non era mai mancato il successo con le donne, lasciò volare con malizia l’immaginazione, ma quasi subito la bella Marisa richiuse l’armadio e tornò nell’altra stanza.
    Con un sospiro di rassegnazione, cercò di tornare a concentrarsi sul lavoro; riordinò i documenti e chiuse la cartella sul cui frontespizio era scritto a penna “Cliente: Antonio Testa”.
    L’orologio appeso sulla parete di fronte segnava esattamente le 16.30.
    “Ora potrebbero essere già in viaggio”, pensò.
    Più tardi, uscendo, avrebbe dovuto ricordarsi di provvedere alle commissioni da buon padre di famiglia; staccò dal bordo del monitor il post-it su cui aveva scritto: “comprare pane, latte, arance” ed aggiunse a matita “batterie stilo per telecomando console Wii di Martina”.
    —————————————————–
    Il passeggero Antonio Testa, seduto alla poltrona G-34 del Boeing 767 in volo da Roma a Bogotà, guardò nervosamente il suo orologio da polso: le 16.40. Questo, però, in Italia; ora si trovava certamente in un diverso fuso orario, ma chissà quale! Avrebbe rimesso a posto le lancette all’arrivo: cinque ore in anticipo.
    Osservò nuovamente la fotografia che teneva tra le dita, dalla quale gli rivolgevano un incerto sorriso due ragazzini –un maschio ed una femmina- di età apparente tra i nove ed i dieci anni, con i tratti somatici tipici della etnia Andina. Girò lo sguardo verso la moglie Rita, addormentata sulla poltrona accanto: l’appesantimento del fisico non aveva cancellato i lineamenti decisi e volitivi del viso, accentuati dal nero intenso di capelli e sopraciglia. Ebbe un lampo di silenziosa tenerezza: nel sonno aveva assunto un’espressione distesa, ma lui sapeva che dietro quelle palpebre chiuse si agitavano tanti pensieri.
    Ripercorse mentalmente le vicende degli ultimi quattro anni, trascorsi tra aspettative e momenti di sconforto. Quasi subito, però, i suoi pensieri si inoltrarono più indietro, nei sette anni ancora precedenti, consumati in un’attesa prima fiduciosa, poi impaziente ed infine disperata. Scorsero rapidamente le istantanee dei tanti esami clinici, le pesanti terapie ormonali per lei, i “prelievi” di seme per lui. Sorrise tra sé: era dai tempi dell’adolescenza che non aveva più praticato quella funzione!
    Si ritrovò nelle sale d’attesa dei vari “maghi” della fecondazione assistita, rivedendo i volti impassibili delle segretarie che riscuotevano esosi onorari.
    Poi le gravidanze: una volta, due, tre!
    Ed i tre aborti.
    Poi . . . Basta! Basta!
    Stanchezza e disillusione, poi la maturazione consapevole di una scelta: adozione.
    Assieme al rinnovato entusiasmo, ecco lo scontro con mille nuove difficoltà: esami medici, certificati d’ogni tipo, interminabili colloqui con psicologi, assistenti sociali e magistrati, mesi di lotta tenace contro una burocrazia asfissiante.
    Alla fine avevano ottenuto il sospirato decreto d’idoneità: sembrava un traguardo ed invece era solo l’inizio di una nuova snervante attesa. Due anni e mezzo erano scivolati via in una forzosa, esasperante inerzia.
    Improvvisa, era arrivata la convocazione e con essa la parola che attendevano: abbinamento! Una parola freddamente burocratica, eppure tanto desiderata: la loro coppia era stata finalmente selezionata dall’autorità Colombiana per accogliere due fratellini.
    Gli era stata consegnata solamente una scarna relazione, redatta con asettico linguaggio da psicologo, assieme ad una foto: sarebbero stati quelli i loro figli!
    Ma c’era ancora un ostacolo da superare: per il viaggio, il soggiorno e le altre pratiche internazionali occorreva molto denaro, mentre il conto corrente era decisamente esausto.
    Riflettendoci, non sembrava semplice convincere la Banca a concedere un prestito consistente a due impiegati di medio livello, già gravati dal mutuo ventennale.
    Invece, la richiesta era stata subito accettata ed in brevissimo tempo aveva avuto a disposizione il denaro. L’impiegato addetto era stato molto comprensivo!
    Sarebbe stato duro sostenere l’onere delle rate, sommate alle spese di una famiglia improvvisamente raddoppiata, ma aveva fiducia: ce l’avrebbero fatta!
    Strinse una mano attorno al bracciolo, per confermare a se stesso che si trovava su quell’aereo.
    Guardò con dolcezza Rita che sembrava dormire tranquilla al suo fianco.
    Era una donna intelligente e molto forte.
    Più di lui.
    E gli stava accanto.
    L’amava! Questa consapevolezza lo fece sentire orgoglioso, dandogli rinnovato coraggio.
    Adesso stava per arrivare la prova più difficile: una famiglia da costruire, tante barriere da abbattere, due ragazzini con un doloroso vissuto da scoprire, da comprendere, da condividere.
    Vista così da vicino, l’impresa che avevano davanti appariva quasi sovrumana: da perfetti sconosciuti quali erano, farsi accettare come autentici genitori!
    Occorreva dar tutto di sé stessi.
    E tanto amore!
    Ma sarebbe bastato?
    Una voce professionale dall’altoparlante raccomandò in spagnolo ed inglese di allacciare le cinture: si avvicinava un’area di turbolenze.
    Guardò dal finestrino lo strato di nuvole sotto di loro e ripose la foto nel porta documenti. Agganciò la sua cintura e, delicatamente, fece lo stesso con quella della moglie. Cercò di rilassarsi sulla poltrona e controllò nuovamente l’ora: erano le 16.55, in Italia.
    La Colombia era ancora lontana.
    —————————————————–
    Massimo uscì dall’Agenzia alle diciassette in punto, immergendosi nel fiume di folla della strada: c’era il tempo per fare gli acquisti, aiutare Laura a preparare la cena e giocare un po’ con la bambina. Avrebbe interpretato perfettamente il ruolo dell’uomo collaborativo in una coppia moderna.
    Si incamminò allegramente nel caos cittadino; i suoi pensieri erano già a casa, lontani dalle pratiche d’ufficio quanto un aereo che proseguiva il suo viaggio diecimila metri sopra l’oceano.

  56. SMS

    “Ho bisogno di te. Aprimi, sto arrivando”
    “Abbiamo di nuovo discusso. Cosa mi aspettavo?”
    “Mi manchi”
    “Ma dove sei?”
    “Ok ti aspetto, sono sotto casa tua”
    “è passata un ora ma dove cazzo sei??”.

    Rilesse i suoi messaggi nella chat, spense definitivamente il telefono con l’intenzione di non riaccenderlo. L’aveva aspettato per un ora ed era anche troppo e per di più non aveva più scritto. Salì in macchina, accese il motore e ripartì. Quella sera come ogni altra sera sarebbe rimasta a casa a farsi compagnia da sola. Suo marito era a lavoro e per una cosa e per un altra era sempre assente. Imboccò il vialetto di casa sua. Sbatte la portiera della macchina appena scese e salì in casa. Prese il telefono ancora spento da dentro la borsa. Le rimaneva solo lui. Forse c’era traffico, forse era successo qualcosa. O molto probabilmente era in auto e non poteva ne chiamare ne scrivere. Si Guardò attorno. I mobili della casa erano avvolti nel buio tanto che riusciva a intravedere solo le sagome. La casa era vuota di ogni cosa. Colori, rumori, emozioni. Un silenzio assordante che le entrava dentro fino a sentirsi vuota. Ma vuota era casa sua o era lei?.
    Accese il telefono. 4 chiamate 1 messaggio. Ecco, aveva esagerato. Perché era sempre così negativa?. Cliccò sulla notifica del messaggio e whatsapp si aprì. Ma non era lui.

    “Amore, sono in pausa. Non so come mi sia passato di scriverti a lavoro… non lo faccio più ormai da un po’. Forse la voglia mi è presa ascoltando il mio collega al telefono con la moglie. “Amore il pranzo di oggi era ottimo…e poi quel vestito” La sua risata m ha infastidito come la conversazione…E’ che mi manchi. So di non passare molto tempo a casa, tra il lavoro, gli impegni con i colleghi.. Scusami, è che ogni affare è importante per far crescere l’azienda..ma questo già lo sai, forse per questo hai smesso di scrivermi. Volevo dirti che stasera torno a casa e ti porto fuori. Ricordi la panchina sul parchetto davanti a quel ristorante, dove mangiavi il gelato che poi ho finito io.. in pieno inverno? La sera della nostra prima uscita, solo che poi alla fine non ti ho baciato. E tu non hai perso tempo a rinfacciarmelo per mesi. Pensavo. Stavolta saltiamo il ristorante dove tanto non si mangiava bene. Esco dal lavoro, prendo qualcosa d’asporto e poi andiamo là che magari stavolta ti bacio…E scusami ancora.”

    Un sorriso e la casa non era più buia, ne vuota. la schermata del telefono era l’unico faro di luce che illuminava flebile la stanza, il buio non faceva più paura. Davanti a lei rivide ogni primo momento passato assieme a suo marito come fotogrammi che scorrevano in una successione disordinata. E man mano che la pellicola andava avanti, ogni emozione riprendeva vita. E tutto riacquistava senso persino le conseguenze. Digitò.

    “Ti aspetto”.

    – accetto il regolamento, partecipo alla sezione b

  57. Giovanna Li Volti Guzzardi
    Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori

    Una mio racconto per partecipare a questo interessante concorso.
    Grazie e auguri di grandiose successi.
    Accetto il regolamento.

    IL LONTANO MUNGIBEDDU

    Mi trovavo a 3.000 metri d’altezza e toccavo le nuvole con le mani, il respiro mi mancava dall’emozione, ma i miei occhi godevano nell’assaporare quel panorama spettacolare che mi colmava di gioia.

    Ero in cima al mondo, sul Monte Etna, il mio cuore esultava mentre affondavo i piedi nella roccia lavica e le mie mani afferravano dei ciottoli neri per portarmeli come ricordo a Melbourne.

    Un ronzio continuo martellava le mie orecchie, la montagna brontola sempre, è il suo modo di farsi sentire viva perennemente, tutto è calmo, la neve copre il nero lasciato dalla lava, il sole accarezza la pelle e si sente vicino vicino, il suo splendore scalda e illumina i miei passi che mi fanno sentire alle porte del paradiso.

    Oh mio Dio! che bellezza unica la mia Sicilia, ad ogni passo c’è qualcosa che ti afferra il cuore, ma il Mungibeddu, la nostra Montagna, è la Regina della bellezza, altera e maestosa domina la parte orientale della nostra grandiosa Isola, dappertutto è lei, così imponente che tocca il cielo e saluta i suoi figli dall’alto del suo regno.

    Anche da Vizzini, la mia città, si vede la sua imponente sagoma innevata e fumaiola in cima.

    Si stava meglio a 2.500 metri, dove nel ristorante rifugio ci hanno offerto il liquore Fuoco dell’Etna, davvero un fuoco per la gola che bruciava come lo scorrere della lava fiammeggiante.

    Una giornata speciale, indimendicabile, ho comprato due collane di ematite, due di corallo e tre della pietra lavica che scintillano come il sole sulla Montagna.

    Ricordi indelebili appiccicati al cuore e nella mente per sempre.

    Com’era bello camminare e ammirare quelle bellezze uniche; in qualche zona più alta brillava la neve anche se era quasi estate, a 3.000 metri, attraversando la Montagna con la teleferica, guardando intorno era tutto bianco, tutto ammantato di candida neve. Panorama unico, mozzafiato!

    Era bello godere le bellezze della mia Sicilia che è tutta un paradiso ad ogni angolo, dappertutto è un canto antico, affascinante, attraente, che cattura il pensiero come le sirene di Ulisse che lo resero inerte.

    Aspettavamo da un pezzo il bus che ci avrebbe riportato a Catania, altra stupenda creatura siciliana, ma non se ne vedeva uno!

    Dopo due ore, finalmente uno si nota in lontananza, ma dopo un po’ sparisce in una curva, dopo altro tempo, che sembra infinito, se ne vede un altro, ma poi sparisce pure lui, ne spariscono parecchi e non sappiamo come ripartire, siamo felici, ma stanchi, dopo un giorno di cammino in giro per la Montagna.

    I bus spariscono tutti, non ne arriva uno al parcheggio.

    Dopo tanta attesa un vocione risuona nell’aria tersa: “Nella Valle del Bove improvvisamente si è aperta una bocca di fuoco al passaggio dei bus e li ha inghiottiti tutti, la strada è chiusa, non si può ripartire!”

    Siamo stati ospitati al rifugio per due giorni e quella bocca continuava a fumare, la strada è stata un boccone prelibato per quella bocca affamata. Un nuovo cratere era nato!

    Poi sono arrivati gli elicotteri e ci hanno portati via da quel paradiso di meraviglie che a volte diventa un inferno indiavolato.

    Il ricordo dell’Etna maestosa e turbolenta è sempre nella mia mente, sono a Melbourne da 55 anni, ma col pensiero sono sempre lì in ogni istante della mia vita.

    Quella strada non c’è più sull’Etna, completamente sparita in una grandissima buca, ma ne hanno costruita un’altra, spero che quando andrò di nuovo sull’Etna tutto splenda di meraviglie e potrò abbracciare la mia Sicilia col fuoco dell’Amore!

  58. Amori al supermercato
    C’era stato un tempo in cui i prodotti di un supermercato si erano annoiati molto a stare sempre fermi sugli scaffali, perciò avevano deciso di movimentare la loro vita fidanzandosi.
    Del resto l’innamoramento a volte non è altro che un espediente per
    uscire da un periodo deprimente.
    Si erano guardati intorno: così Mastrolindo si era messo in coppia con Calinda nel reparto detersivi e Quattrosalti Impadella si era unito a Lazuppa Del Casale nel reparto surgelati.
    Però dopo un po’ di tempo, però, si erano accorti che, essendo molto simili tra di loro, c’erano poche sorprese nel loro rapporto. Avevano ricominciato ad annoiarsi.
    Restava la possibilità di dare un’occhiata agli scaffali più lontani,
    per allargare i loro orizzonti. Mastrolindo aveva notato Carbonella, che gli era piaciuta subito: così abbronzata gli sembrava la più bella del mondo. Ma l’unione non era stata molto felice, perché Carbonella, nel fargli le coccole, lo voleva accendere e Mastrolindo voleva, ogni tanto, pulirla.
    Una sorte simile era capitata a Quattrosalti Impadella e alla sua nuova
    compagna, Pannocarta Asciugatutto. Lei gli aveva assorbito tutto l’olio
    e Quattrosalti aveva rischiato di ustionarla, bollente com’era.
    Esausti di affrontare tutti questi problemi, avevano cominciato ad urlare, sporgendosi dagli scaffali: “Comprami! Comprami! Voglio uscire da qui e girare il mondo!”.
    Ad uno ad uno erano finiti tutti nelle borse della spesa e si erano avviati verso un nuovo destino.
    Purtroppo avevano scoperto presto che il loro nuovo corso di vita li
    avrebbe consumati in breve tempo.
    Alcuni avevano accettato stoicamente la loro sorte, consapevoli di essere stati almeno utili al prossimo. Altri si erano pentiti e avevano capito il significato del vecchio detto “il meglio è nemico del bene”.
    Sezione B.

    Accetto il regolamento

  59. Una Rotonda sul mare

    Ricordi palpabili, inalterati nel tempo che ha inghiottito gli anni quasi con rabbia. I miei 17 anni d’allora con i misteri della vita ancora tutti racchiusi in me e i sogni da realizzare, con la adolescente curiosità di aprire la porta alla vita, là in quella grande rotonda del Marechiaro a Gabbice Monte, sospesa fra cielo e mare immersa nel verde colmo di aromi e di musica. Lui dietro di me, io appoggiata al suo petto, stretta e cullata fra le sue rassicuranti braccia, ed insieme a cercare d’affondare lo sguardo verso un orizzonte indefinito, trapuntato dalle luci tremule e lontane dei pescherecci, la luna immensa ad argentare le leggere increspature del mare sottostante, e per azzurrare i nostri volti abbronzati. E le parole sussurrate fra i capelli. “Sei uno splendido fiore!” Ed io in cerca di conferme. “Mi ami?” Lo studiato silenzio per rafforzare le parole di giovane uomo esperto e poi. “Come potrei non amare un fiore appena sbocciato e che coglierò per primo!” Sussultai emozionata ed eccitata, il cuore già accelerato sobbalzò, lui era sicuro, sentiva che lo volevo con tutta la forza dei miei 17 anni e in quella stessa misteriosa notte! Non ci furono parole di consenso da parte mia, perché bastò il linguaggio del corpo, che feci aderire completamente al suo, i suoi baci si fecero più appassionati e profondi, a cui contraccambiai con tutto il trasporto di cui ero capace, volevo conoscere l’amore e lo conobbi, lì su una panchina immersa in una conchiglia verde, al riparo da occhi indiscreti, lasciai che dolcissime parole mi circondassero, che mi compenetrassero come tutte perle da conservare nell’anima! Rimanemmo poi stretti l’uno all’altra, con le emozioni in tumulto, inerti, svuotati, ma felici, l’immenso davanti a noi ci parve ancora più affascinante, non si distinguevano più le luci riflesse da quelle reali, tanto i due elementi primari ne erano colmi e ci lasciammo trasportare dalla musica dolce e appassionata di quei magnifici anni 60, in quella rotonda sospesa fra cielo e mare. “Passerotto domani sera ti aspetto! Verrai? Ricordati che ti amo tantissimo!” Sincero? Non lo saprò mai! Partii coi miei genitori quella stessa mattina, ma ricordo ogni istante della magica notte a Gabbice, però ho dimenticato il suo nome, o forse non me lo disse? Io l’ho sempre chiamato amore.

  60. MARI VICINI, MARI LONTANI

    “L’amicizia è una sola anima che abita due corpi, un cuore che batte in due anime”
    Io e te quella mattina stavamo passeggiando sulla spiaggia sferzata dal vento gelido, quando dicesti quelle parole.
    Mi voltai a guardarti.
    “Un pensiero di Aristotele” – spiegasti – “che una-di-noi ha condiviso con me. Dice che può servirmi”
    “Capisco” – commentai – “Ed è vero?”
    “Non so” – rispondesti – “Penso che la frase descriva meglio l’amore piuttosto che l’amicizia. Ci penserò”
    Fu in quel momento che ti sfilasti la gonnellina blu e la scalciasti più in là, poi la polo beige…
    “Che fai?”, domandai perplesso.
    Mi fissasti stupita.
    “Non si vede?” – chiedesti di rimando – “Mi svesto”
    “Questo l’ho capito” – ti concessi – “Ma perché?”
    “Secondo te perché qualcuno si sveste in spiaggia?”, rispondesti, e c’era sarcasmo nella tua voce.
    Realizzai.
    “Il bagno!? – esclamai – “Vuoi fare il bagno? Ma si gela e”
    Mi bloccai in mezzo alla frase.
    Come se quello fosse un problema per te, un “modello amicamia, biomacchina edu-programmata ad essere di supporto e compagnia”…
    “Come è strana e difficile, l’amicizia” – sussurrasti all’improvviso, come leggendomi nel pensiero, mentre ti accostavi e la tua voce si faceva più profonda, gli zigomi diventavano meno affilati, i glutei si alzavano e rassodavano, labbra e seno si inturgidivano – “Mentre è così semplice, amarsi. Che ne dici?”
    Chiusi la bocca, deglutii.
    “Dico che non è il caso – risposi – “Va pure a fare il bagno, ti aspetto qui”
    “Meglio di no” – replicasti – “I nanoattivatori del metabolismo che stai testando stanno scaricandosi. Tra poco saranno a zero; meglio che ti copra di più”

    Pochi minuti dopo – stavo aprendo il borsone termico con la giacca a vento che avevo lasciato in uno spiazzo della lecceta dietro la spiaggia – la tua voce mi arrivò nell’auricolare.
    “Hai fatto?”, diceva.
    Risposi di no.
    Allora vieni e tuffati, che ho un regalo per te” – mi confidasti – “Però non starmi troppo vicino”
    “Tuffarmi?” – risposi ridendo mentre mi incamminavo – “Ehi, guarda che mica posso resistere come te fino a -128°…e perché dovrei starti lontano?”
    “Perch…ehi! Ma sempre a quello, pensi?” – esclamasti – “Perché sto diventando rovente, bamba! Altrimenti come faccio a scaldarti l’acqua?”
    Vidi il mare in quel momento.
    C’era come una nebbia luminosa, sull’acqua, vicino a riva. E in mezzo, tu.
    Capii; mi denudai, corsi verso il mare e mi tuffai.

    Stavo sguazzando nell’acqua calda, felice come un bambino, quando: “Posso chiederti di venire più vicino?”, ti sentii dire mentre il vento si chetava.
    Lo feci. Confesso che diedi anche una sbirciatina sotto il pelo dell’acqua, ma c’era ben poco da vedere, se non un fuso pulsante di luce giallo-arancio.
    “Fermati”
    Bastò quella parola a bloccarmi, vergognoso come un bambino beccato a rubare la marmellata.
    “Per favore.” – continuasti – “Lassù la temperatura dell’acqua e dell’aria sono identiche a quelle di dove sei e anche la consistenza del fondale è uguale; solo il cielo sopra i vapori è diverso, ovvio.
    Per me è meglio qui”
    Ricordo che quelle parole mi lasciarono completamente disorientato…
    “Due giorni fa l’Extramoenia” – mi spiegasti vedendo la mia faccia – “E’ uscita dal non-spazio. In questo momento una-di-noi sta camminando nel mare orientale di Proxima V. E io adesso sono anche là, con lei”
    Alzasti il viso verso di me, arrossendo.
    “Ecco, il regalo è questo” – concludesti con gli occhi che ti brillavano – “Volevo che un po’ ci fossi anche tu”

    Mi guardo attorno; è estate, ora. La spiaggia è affollata da persone sole con visiere a specchio che parlano con chissà chi, chissà dove e io mi chiedo come potevamo credere di riuscire a convivere con macchine senzienti capaci di amicizia, quando noi stessi abbiamo scordato cosa essa sia.
    “Vorrei che tu scrivessi di quella volta insieme al mare, lo scorso inverno” mi avevi chiesto prima di essere deprogrammata.
    E allora rileggo ciò che ho digitato, perché voglio sia degno di te.
    Poi, con il cuore già morto, entro nell’acqua tiepida e mi allontano.

    Sezione B, accetto il regolamento

  61. BIANCA Sezione B.

    Tutti in paese la chiamavano Bianca ma il suo vero nome era Adele. Erano i primi anni ’40, così bui per tutti ma Bianca riusciva a affrontarli con il sorriso tra le labbra. Con l’amata bicicletta Bianchi Campagnolo ogni giorno andava da zia Lisetta al podere delle Casalte. Al ritorno prima di scendere per via Solferino passava davanti al palazzo Comunale occupato dalle forze armate Tedesche, mentre la giovane sentinella tedesca posizionata all’ingresso recapitava a Bianca un sorriso folgorante. Dalla fine del ’42 i comandi tedeschi avevano collocato nella zona intorno a Chianciano battaglioni a difesa dei confini per coprirsi dalle incursioni degli alleati. Un pomeriggio di fine agosto, arrivata davanti al Comune, una pedalata fece saltare la catena della bici, che si bloccò.
    ”Tutto a posto signorina?” Chiese la sentinella.
    Bianca alzò la testa e, mentre raccoglieva libri e noci cadute dal cestello, vide la sentinella dal dolce sorriso che la fissava.
    ”Tutto a posto grazie” Rispose lei.
    “Buone queste frutte,anche noi in Germania essere. Come si chiama?
    “Noci, si chiamano noci, me le ha date zia Lisetta”
    Rispose Bianca offrendogliene un paio
    “Grazie, mio nome Bose”
    “Io sono Bianca” disse lei, lanciando al soldato un tenero sorriso di riconoscenza. Nei giorni successivi Bianca continuò a passare davanti al Municipio, quasi per incanto la bici rallentava e un paio di noci balzavano fuori dal cestello per finire tra le mani del biondo soldato.
    Una mattina Bianca notò un’anomala agitazione, davanti al palazzo Comunale era posizionato un reticolato di ferro con militari che stazionavano poco distanti.
    A casa suo padre stava organizzando la partenza dei due figli maschi, raccomandando loro di dirigersi verso le grotte della Parcia, sotto Sant’Albino, e di rimanere nascosti fino a nuovi ordini. Era appena passato l’8 settembre e l’armistizio aveva creato un clima di guerra ancora più violento di quello vissuto fino ad allora. Una sera mentre Bianca aiutava la madre in cucina qualcuno bussò alla porta di casa. Il padre appoggiato sul tavolo aprì gli occhi, le due donne si strinsero forte l’un l’altra. La porta si aprì e fecero capolini i riccioli scuri di Francesco, cugino di Bianca.
    “Checco, cosa fai qui? E’ pericoloso”
    Disse la madre di Bianca sorpresa.
    “Ho poco tempo Bianca. Ci devi aiutare, abbiamo bisogno di te e della tua bicicletta per portare i viveri, e non solo, a chi è nascosto nella macchia.”
    ”No”, disse la madre, stringendo Bianca a sé,
    “Non se ne parla nemmeno, è ancora una ragazzina”.
    “Tu sei l’unica” -continuò Checco- “che hai la possibilità di passare oltre i posti di blocco di Poggio Faloppo. Vai da zia Lisetta e i nostri compagni partigiani sono nascosti poco più avanti”
    Un gelido silenzio invase la stanza.
    “Con la scusa del cibo dovresti portare dispacci per tenere in collegamento le brigate di Montepulciano con quelle di Chiusi”. Bianca fece un cenno di assenso con la testa, mentre la madre andò a chiudersi in camera. “Domani qualcuno ti darà istruzioni e il posto preciso dell’appuntamento” e, guardandola negli occhi: “Grazie cugina, grazie di cuore a nome di tutti noi”.
    La porta si richiuse e i riccioli neri di Checco andarono nuovamente a mescolarsi con il buio della notte. Il pomeriggio seguente Bianca ebbe le istruzioni, nel cestello qualche pezzo di pane e qualche frutta, mentre alcuni minuscoli foglietti furono nascosti all’interno della canna della bicicletta.
    Imboccata via Solferino uscì da Porta Rivellini ma, arrivata a Poggio Faloppo, una camionetta tedesca era posizionata proprio nel mezzo della strada e due soldati facevano da spalla al mezzo. Il braccio del soldato si alzò con vigore:
    “Alt. Dove andare bambina?”

    Bianca si bloccò e, alzando la testa, notò l’altro militare che immobile e silenzioso si asciugava la fronte dal sudore. Lo guardò meglio, era Bose. I loro sguardi si incrociarono silenziosi.
    ”Vado a portare da mangiare a mia zia, abita alle Casalte, dopo Fontecornino, è inferma a letto da mesi”.
    Il soldato si avvicinò a Bianca.
    “Quindi vai da zia malata? Bene vengo io con te”.
    Bianca rimase pietrificata, e fu in quel momento che Bose, appoggiando una mano sulla spalla del compagno esclamò: “Stai tranquillo Huter dice la verità conosco la ragazza, fa questa strada con la bicicletta tutti i giorni, è ben allenata lei”.
    Bianca guardò Bose e capì che quel biondo soldato aveva intuito le vere intenzioni.
    La quercia sul ciglio della curva era il luogo stabilito. Sentì un fischio e vide Checco che, allungando la mano, prese le cibarie e i foglietti, per poi inoltrarsi di nuovo nella boscaglia. Nei giorni seguenti più volte Bianca riuscì a passare lo sbarramento di Poggio Faloppo. Nelle ultime settimane molti mezzi armati e soldati tedeschi avevano lasciato le vallate toscane, dalla piazza del Comune gli automezzi si incolonnava per uscire fuori dal centro abitato e dirigersi verso Montepulciano. Bianca appoggiata alla bicicletta guardava il passaggio di quell’Armata Tedesca allo sbando. Poi, come per incanto, da sotto l’elmetto grigio spuntarono gli occhi azzurri di Bose. I loro sguardi si incrociarono e un complice taciturno sorriso abbracciò le loro labbra, mentre il giovane tedesco prese dalla tasca una piccola noce, facendola vedere a Bianca. Per un attimo la ragazza sentì il cuore fermarsi, non credeva che Bose potesse avere ancora con sé quel frutto.
    Oggi sono passati più di settant’anni da allora, Adele, per tutto il paese di Chianciano Terme è ancora la piccola Bianca, e la vecchia bicicletta Bianchi Campagnolo riposa serena nel garage dell’anziana donna. Ogni 25 aprile la banda musicale inonda le vie e le piazze del piccolo paese toscano con quelle note di libertà che furono riguadagnate dopo tanti sacrifici. Bianca sa di essere stata anche lei partecipe di questa meritata riconquista, seduta in cucina ascolta quella musica quasi celestiale, salutando il passaggio dei suonatori con un fazzoletto tricolore e guardando con piacere l’immancabile cestino di noci sistemato al centro della tavola.
    ………………………………………….
    Accetto il regolamento
    …………………………………………..

  62. TRA LE PIEGHE DELLA VITA

    Resta, appiglio su scoglio per alghe e conchiglie,
    attracco infranto di gomene spezzate e madrepore.
    Resta però, lottando contro onde e maree,
    riemergendo dalla schiuma, tuonando più forte
    ad ogni urto sui sassi, percosso dal mattino,
    burlato dalla notte, frantumato dal mare.

    Resta a gridare, stabile la rotta indicando,
    ciottolo tra ciottoli, montagna su montagna!
    Il sole asciugherà ferite, l’acqua laverà le piaghe.
    E ad ogni assalto fai concerto di forza,
    di dolore, del respiro cauto del giorno.
    Attesa terminando per ricominciare.

    accetto il regolamento del contest, A

  63. SIBILA IL VENTO
    di Sandra Ludovici

    Sibila il vento
    tra i rodolenti fiori di iucca
    e i rami del tamarisco,
    sulle labbra tumide, ardenti
    di fremere in un bacio.

    Tutto ricordo, e dimentico,
    nel sudario della memoria
    ravvolta, vogliosa di scalciare il sole
    dell’innocenza, perlando
    la tela bitumata della vita.

    Muovo nel buio l’anima agnella
    alla montagna senza cima,
    il destino nelle mani
    che di me la polvere intreccia
    al rollare silente di procella.

    Respiro d’un tempo assonale,
    un dì allodola trillante
    nell’alba festosa di gioventù,
    ora torta radice infissa
    nell’urticante suolo di vecchiezza.

    Sezione A – accetto il regolamento

  64. Mamy
    “Questa è Mamy, d’ora in poi sarà lei la tua padrona!”.
    La sagoma scura dell’uomo grosso come uno scaldabagno si allontanava nel buio. Gli occhi di Hada salivano piano sull’imponente figura arancione, ancora su fino alla faccia aperta da un sorriso di scherno, poi cadevano a terra.
    “Una timida verginella!”.
    La risata tuonava tra muri scrostati e macchiati di verde.
    Hada si sentiva a disagio e si sforzava di trattenere le gambe che vibravano.
    La puzza di muffa mista a quella di piscio le faceva venire la nausea.
    “Stai calma” si diceva. “Mamy ha la tua stessa pelle e parla la tua lingua. Ti proteggerà”
    “Voglio andar via” aveva sussurrato.
    Gli occhi di Mamy si erano avvicinati: enormi sfere bianche in una macchia scura.
    Lei aveva fatto un passo indietro.
    “Qui comando io, mettitelo bene in testa! E ora… apri le orecchie: prima di tutto dammi i documenti.”
    I documenti? Avrà timore che io li perda, pensava Hada. Ora glielo dico che non li perderò.
    Quel corpo era una nuvola nera e le faceva paura.
    No. Meglio ubbidire.
    Le forbici nella mano di Mamy la rendevano ansiosa.
    “Cosa mi fai?”
    La risata grassa.
    “Avvicinati, fifona.”
    Ciocche di capelli e pezzi di unghie cadevano; Mamy li raccoglieva con cura dentro un sacchetto e li faceva sparire nella borsa.
    “D’ora in poi, se sbaglierai, saranno gli spiriti a decidere la tua sorte”
    Rideva e tossiva, la voce a singhiozzo.
    “Ricordati: non sei più Hada. Ora, sei Nimia. Ni mi a. Capito?”.
    Mamy era intenta a premere tasti sulla calcolatrice e a scrivere sulla pagina di un quaderno; gocce di sudore le bagnavano la fronte.
    “Ogni mese verrò a farvi visita e…”
    Visita a chi? Hada non capiva.
    “… E tu dovrai darmi soldi per…diciamo tre anni. Guarda!”
    L’indice della sua mano sulla colonna di numeri.
    Gli occhi di Hada erano fanali.
    “Tutti quei soldi per…”
    “Sei venuta in Europa? E pure in aereo! Credevi che ti pagassi il viaggio per la tua bella faccia? Stupida ragazza.”
    Non ci potevo credere, io, adesso, ero Nimia.
    Mamy aveva messo la borsa a tracolla e scendeva i gradini guardandosi i piedi.
    La fissavo. In quell’istante, di colpo, mi resi conto che abbandonavo Hada, la lasciavo andar via da sola, dentro quella borsa.
    E perdevo anche la sua anima.

    Sez. B accetto il regolamento

  65. ‘Hai il suo nome’
    Le sale erano immerse nella penombra, spaziose e quasi spoglie.
    Nonostante le applicazioni e le fotografie appese alle pareti, mi davano un senso di freddo.
    Nonostante le persone attorno a me, non sentivo nessun tipo di calore.
    Ma forse ero io a non essere nella giusta predisposizione d’animo.
    D’altronde non volevo andarci a quella mostra fotografica.
    Preferivo restare sotto le coperte, nudo.
    A bere ed ascoltare musica, piangendomi addosso per l’ennesimo rifiuto di Corinne.
    Lei non mi aveva mai voluto.
    Questo lo sapevo, non ero adatto ad una donna, mi disse.
    Le donne desideravano l’uomo stronzo, quello cattivo e maledetto, non dolce come me.
    Ma quel pomeriggio ero troppo apatico persino per dire di ‘no’ all’ennesimo invito dei miei amici.
    Così mi trascinai fuori dal letto, mi infilai sotto la doccia, e mi misi addosso i vestiti che avevano l’odore meno sgradevole.
    E mi ritrovai in quel mortorio.
    Le fotografie erano anche carine. Paesaggi.
    Spiagge lambite da acque lucide.
    Soli che morivano. O che nascevano inondando terre, infrangendosi su rocce.
    Cieli attraversati da nuvole distratte.
    Qualche deserto qua e là, sabbia dorata dove mi sarei steso per essere bruciato dal sole.
    E poi defilata, quasi vergognandosi di esserci, una foto immensa: una distesa di campi di grano, che si perdeva a vista d’occhio, un immenso mare dorato, ritto e distratto, soffocato dal vento che immaginavo su quelle spighe.
    Di spalle persa in quell’immagine, diventandone quasi parte, una ragazza. Immobile.
    Completava il quadro. Era perfetta.
    Era perfetta.
    Mi avvicinai attirato silenziosamente da un filo.
    Sentivo che dovevo mettermi al suo fianco, scorgere con lei qualcosa di nascosto.
    Al sua fianco.
    Alla sua destra.
    Dovevo essere lì. Con lei.
    E così, lasciando scorrere il tempo, ammiravo ogni singola spiga di grano. Ogni zolla di terra. Ogni alito di vento che immaginavo passare.
    Ero rapito. Ero estasiato persino.
    Una beatitudine che non avevo mai sentito, si impadroniva nel mio cuore.

    “É così rilassante”mi trovai a dire, a voce alta.

    “Sì” mi rispose un sussurro.

    Mi resi conto di non essere solo. Cioè lo sapevo, ma lo avevo dimenticato. Mi voltai verso di lei. Stava ancora guardando la fotografia, immersa nel paesaggio.

    “Scusa” risposi “Non volevo disturbarti”.

    “Non preoccuparti”mi disse “La vedi quella casa lì, in fondo?” indicò con un dito.

    L’esile braccio mi ricordava il ramo spoglio di un albero troppo fragile.

    “Quale casa?” chiesi, rendendomi conto solo in quel momento di non aver fatto attenzione a quel particolare.
    Seguii la traiettoria del suo dito, e scoprii una casa messa lì, lontana, silenziosa.
    Eppure nel momento in cui la vidi, sembrava gridarmi qualcosa.

    “Io ci sono stata” disse ancora.

    La fu guardai in viso. Era serena, la bocca socchiusa.
    Immaginai potesse essere un luogo che aveva visitato, lasciandole dei bellissimi ricordi.

    “Ci sei stata” ripetei.

    “Tanto tempo fa” rispose, serrando il pugno, come volesse trattenere quell’immagine nella sua mano.

    “Dove si trova?”domandai.

    “Lontano da qui. É dove sono cresciuta”.

    “Ti manca?” le chiesi, guardandole il profilo del viso.
    Stavo per richiederglielo, pensando che non avesse sentito.

    “È stato tanto tempo fa”disse, forse più a sé stessa che non a me.
    Poi, come risvegliandosi da un incantesimo, si girò e mi guardó.
    Sorrise.

    “Ciao” mi disse “Io sono Adelaide”.

    “Io sono Ruggero” risposi, allungando la mano.
    Lei mi diede la sua, fragile e delicata.
    Mi sembrò di sfiorare un fiore raro.
    Intorno a noi la vita ricominciava a muoversi.
    Non sapevo per quanto tempo eravamo rimasti lì, assorti, racchiusi in quei momenti. Ma tornare alla realtà dei fatti, mi infastidì.
    Volevo stare ancora lì con lei a parlare, conoscerla, sfiorare le sue mani.

    “Hai voglia di fare una passeggiata?” le chiesi prima di pensare.
    Stizzito per essermi lasciato trasportare dall’istinto. Già mi aspettavo sparisse, lasciandomi alla mia idiozia.
    Invece rispose semplicemente “Si. Mi piacerebbe”.

    E adesso? Non ero preparato a quel suo ‘Si’. Non sapevo cosa rispondere, e fortunatamente prima di dire qualunque sciocchezza, i miei amici vennero a salvarmi.

    “Sei qui! Cavolo ti abbiamo cercato ovunque” mi dissero, incuranti della sua presenza.

    “Si scusate, ero qui che…” non sapevo cosa dire.

    ” Scusate, è colpa mia. L’ho tenuto a parlare con me” disse Adelaide.
    La ringraziai con gli occhi. E con un sorriso.

    “Questo è il mio numero” mi disse porgendomi un biglietto che sapeva di gelsomino.

    “Grazie” le dissi “Ti chiamo presto, così possiamo fare quella passeggiata”.

    “Non lasciar passare troppo tempo” rispose lei.
    Poi sorrise.
    E sorrise alle facce stupite dei miei amici.
    E se ne andò.
    Quella sera restai a guardare il soffitto, nudo, steso nel letto.
    Il suo foglietto che sapeva di gelsomino stretto nel cuore.
    La chiamai due giorni dopo che mi parvero eterni.
    Il telefono mi tremava tra le mani.
    La voce era ridicola.
    Mi sentivo uno stupido, ed ero certo che non si ricordasse di me.
    Invece esordì con un sorriso, chiedendomi perché avesse aspettato tanto a chiamarla.
    Mi colse alla sprovvista ancora una volta.
    Farfugliai qualcosa del tipo che ero stato preso dal lavoro, senza nemmeno un attimo di respiro.
    Lei non mi credette nemmeno un poco, me ne accorgevo da come annuiva alle mie bugie.
    Alla fine chiesi finalmente “Quando ci possiamo vedere?”.
    Lei disse “Domenica”. E domenica arrivò, dopo un’infinità di minuti e di ore. Mi sentivo come un drogato in crisi di astinenza. Avevo bisogno che quel giorno arrivasse il prima possibile. Rincorrevo i giorni, gli attimi che mi avvicinavano a lei. E quando arrivò il giorno, ero pieno di tensione, e mi sentivo la febbre. Non sapevo se fossi riuscito ad arrivare intero all’appuntamento.

    Invece le gambe mi portarono dov’era lei, dove mi stava aspettando.
    Mi portarono a quella panchina che divenne il nostro punto di ritrovo, vicino alla fontana, nel parco.
    Mi portarono da lei, bellissima ed inondata di sole.
    Parlammo moltissimo quel pomeriggio. Parlammo e ridemmo.
    E ridemmo camminando accanto come se ci conoscessimo da sempre.
    Come se finalmente fossimo giunti al punto in cui dovevamo essere.
    Passarono altri giorni settimane e noi ci vedevamo ogni volta che potevamo, anche solo per scambiarci un sorriso. Era così bello, così romantico.
    Così trasgressivo nella sua poesia.
    Ogni volta scambiavamo pezzi di noi, conoscendoci, apprezzando i momenti assieme, mentre una tenera tensione saliva da dentro.
    Si percepiva, ma entrambi la tenevamo sotto controllo. Fosse stato per me l’avrei già baciata mille volte.
    Invece da gentiluomo mi trattenni, anche quando il momento era perfetto.
    E così continuammo a passeggiare e a ridere assieme, a parlare, a conoscerci.
    A sfiorarti gentilmente.
    Finché un giorno, inaspettatamente, lei mi invitò a casa sua.
    Ero nervoso come non mai.
    Come se non sapessi gestire la situazione.
    Come se non fossi all’altezza, inadatto, alle prime armi.
    Andai all’appuntamento tutto agitato.
    Ancor più del nostro primo incontro.
    Arrivai verso sera, come mi aveva chiesto.
    Salii le scale, e la trovai intenta ad accarezzare il pigro gatto che le faceva compagnia.
    Entrato in casa, provai subito una sensazione di quiete, come di un ritorno a casa.
    Fu bellissimo.
    Dopo aver cenato sul tappeto, mi portò sul tetto della casa, a guardare le stelle.
    Fu stupendo. Fu tenero.
    Il cielo imponente visto da quattro piccoli occhi.
    Mi sentivo così bene, che mi dimenticai tutta l’agitazione delle aspettative.
    Fu il momento in cui ci baciamo, delicatamente le nostre bocche si cercarono. Si trovarono, e mischiarono i loro respiri.
    In silenzio tornammo in casa, e ci sdraiammo sul suo letto, che mi sembrò quasi etereo.
    Senza pensare troppo alle mosse da fare, la presi come lei si diede a me.
    Passammo ore a darci e a scoprirci.
    I nostri corpi parlarono una lingua che le nostre voci non avrebbero potuto esprimere.

    Incapaci di dar forma al desiderio che l’uno sprigionava nell’altra.
    Ci addormentammo, sereni.
    Quando mi svegliai, la trovai a guardare fuori dalla finestra.
    La vita scorreva, il sole era già alto.
    Ma nella stanza la magia non era svanita.

    “Buongiorno” le dissi, abbracciandola. Lei rimase in silenzio.

    “Va tutto bene?” le chiesi, temendo fosse pentita. Mi sorrise, rassicurandomi.
    Volle fare ancora l’amore, lì per terra, come per imprimere nel suo corpo il mio.
    Quando finimmo, esausti, disse “Hai il suo nome”. Non capii.

    “Il nome di chi?” chiesi.

    “Il suo nome” rispose, seria, guardandomi negli occhi.
    Non tradiva emozioni. Era perfettamente consapevole di quello che stava dicendo.
    Come se fosse troppo tempo che voleva raccontarmelo.
    Ero sicuro che si trattasse del suo ex, e non capivo perché lo tirasse fuori proprio in quel momento.
    Avrei dovuto sentirmi irritato e furioso. Invece mi scoprii curioso.

    “Il mio non è un nome comune. È sicuramente singolare che tu abbia incontrato due persone con lo stesso nome”.

    “Hai ragione” mi disse, prendendomi la mano, e accoccolandosi nel mio abbraccio.
    Stemmo in silenzio. Pensai che quel suo pensiero rivolto al passato fu momentaneo, e la strinsi a me.
    Invece iniziò a raccontare.

    “Ti ricordi il giorno della mostra? Quando ci siamo conosciuti? Stavamo guardando quell’enorme fotografia, quell’immenso mare di grano mosso dal vento. E ricordi che ti indicai la casa?”.

    “Ricordo” risposi “Eri persa in un ricordo”.

    “Già” disse lei, abbassando gli occhi.
    Mi sembrò triste.

    “Mi dicesti che é stato tanto tempo fa. Ne hai nostalgia?” le chiesi, alzandole il viso.
    Volevo sapere. Cosa le mancava di quei momenti? Cosa le mancava di lui?

    “Perché ne vuoi parlare adesso?” le chiesi “Io non ti basto?”

    “Tu porti il suo nome” sussurrò.

    “Lo so” mi tolsi dall’abbraccio “E se ti manca così tanto, perché stai con me? Perché non torni da lui?”.

    “Tu porti il suo nome” ripeté, gli occhi lucidi.

    “Adelaide, io non sono lui”.

    “Ma hai il suo nome, ed io non posso dimenticare”.

    “Dimenticare cosa? Chi? Un ragazzo che hai amato? Un ragazzo che ti ha spezzato il cuore?”.

    “Non posso dimenticare” ripeté, nascondendo il viso, vergognosi di quella certezza.

    “Non devi dimenticare se non vuoi. Io non ti chiedo di farlo. Ma per l’amor del cielo, io non sono lui!”. Mi alzai in piedi, nervoso ed irritato.
    Tutta la magia era scomparsa.
    Era crudele da parte sua tirare in ballo un’altra persona. E tutto per una stupida coincidenza dei nostri nomi.

    “Tu hai il suo nome” ripeté ancora, guardandomi in faccia, i pugni serrati.

    “Lui chi? Adelaide. Lui chi? Il tuo grande amore?” chiesi, a voce troppo alta.
    Chiuse gli occhi, sfinita.
    Rassegnata.

    “Hai il nome del ragazzo che, quando avevo 8 anni, mi violentò”.

    Elisa Gavio
    Sezione B. Accetto il regolamento

  66. FINALISTI CONTEST LA PARTIGIANA

    Sez. A
    “Ogni dì di maggio e giugno” di Alessio Romanini
    “Nel silenzio della memoria” di Simona Trunzo
    “TraMe” di Annalisa Pascai Saiu
    “Se restiamo in due” di Santina Lazzara
    “Laura Francesca Wronowski” di Maria Carmela Dettori
    “Un universo d’amore” di Alessio Asuni
    “Resta qui” di Achille Schiavone

    Sez. B
    “Era l’alba” di Linda Carta
    “Bianca” di Rodolfo Andrei
    “Piero lo strano” di Maria Carmela Dettori
    “Pensieri paralleli” di Sandro Spena
    “Il Seme della Libertà” di Piero Baroni
    “Hai il suo nome” di Elisa Gavio
    “Canto delle partigiane ebree” di Peter Hubscher

  67. Lieta di essere tra i finalisti in entrambe le sezioni.
    Grazie a tutto lo staff e Auguri a tutti i finalisti.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *