“Il convento della discordia” di Michela Rivetti: la vita emiliana del quindicesimo secolo

Il convento della discordia di Michela Rivetti è un romanzo storico che, con grande espressività e certosina minuzia, descrive la vita reggiana ed emiliana verso la fine del quindicesimo secolo e l’inizio del sedicesimo.

Il convento della discordia di Michela Rivetti
Il convento della discordia di Michela Rivetti

Il nostro Belpaese è da sempre frazionato in innumerevoli elementi, per lo più discordi fra loro. Anche al giorno d’oggi, modenesi, parmigiani e reggiani nutrono fra loro una reciproca diffidenza, come può capitare fra cugini di primo grado. Gli abitanti di Correggio e Carpi, appartenenti a due province diverse, ma distanti appena dieci chilometri, si guardano di traverso in merito a certe piccinerie, pur essendo solidali nelle cose importanti, come, per fare un esempio, nell’installare un numero proficuo di autovelox sulle strade che recano alle loro cittadine. Lo stesso accade fra Gavassa e Messanzatico, due frazioni tanto limitrofe quanto sparse nelle rispettive campagne; nonché, cambiando regione, fra Atrani e Amalfi, separate da una torre saracena e da una passeggiata a piedi di circa quattro minuti, che si possono trascorrere ammirando la più celestiale delle costiere. Ad Amalfi dicono che, nel giorno di Sant’Andrea, loro patrono, ad Atrani pregano che piova, in modo da ostacolare la Corsa del Santo, che è portato a spalla dai suoi devoti su per i gradini della Cattedrale. Al giorno d’oggi, ‘sti campanilismi sono oggetto di scherzi innocenti e non più fonte di truci episodi.

Questa tendenza al campanilismo a volte ha luogo nella medesima città, quando le fazioni si combattono come antagonisti che non intendono cedere all’altrui prepotenza. Si chiama guerra civile, che è il più infame dei conflitti armati.

Tali discordie sono per lo più avvelenate dall’ipocrisia e dal disprezzo, divenendo dissidi che dividono. Come giustamente spiega Francesco Fantuzzi in La società dell’emergenza, quel che conta è saper dividere senza far mai convergere le opinioni verso un fine comune, come indica “… la parola ‘divisivo’, che, in pochi mesi, si è diffusa con la stessa rapidità di un virus.” – l’uomo è un carnivoro che cerca la propria verità azzannando alla gola i suoi simili, per fortuna ora soltanto metaforicamente, dopo averli definiti come gente da poco, diversa da sé.

Ne Il convento della discordia si narra di tali disgraziati eventi. Reggio Emilia è in quel periodo divisa fra cruenti antagonismi. I Bebbi, posti a gestire la cosa pubblica dal Duca d’Este, vivono quotidianamente il contrasto con gli Zoboli e gli Scaioli, ricchi commercianti, i quali non perdono occasione di compiere atti provocatori nei loro confronti, che sfociano nell’assassinio di “barba” (zio) Pietro, da tutti ritenuto l’uomo più di valore della famiglia.

Per quanto siano situazioni e ambenti diversi, questo ricorda le guerre fra gang rivali che ancora accadono in alcune zone d’Italia, dove, nelle strade cittadine, si scontrano le cosche delinquenziali. Cosca deriva da costŭla, costola. Le varie costole formano la gabbia toracica, che contiene il cuore e i polmoni, senza i quali non si può vivere: ed è l’atroce destino delle comunità che trascorrono la loro esistenza in quei tragici luoghi.

Questa era l’Italia allora, in diversi suoi paesi. Questa è, politicamente, l’Italia di oggi, in cui l’avversario politico è un nemico da ridicolizzare, più che da affrontare dialetticamente.

Il conflitto è essenziale al dialogo, come avverte il filosofo della politica Roberto Escobar, autore de I volti della paura. Non si tratta del dissidio che discinde, che straccia, né della discordia, che distanzia i cuori. Il confronto politico è vitale per la gestione della vita pubblica. Il potere, come insegna Pier Paolo Pasolini, è l’unica forma di anarchia che tende a spadroneggiare senza alcun limite, cercando di evitare il dialogo con le masse, favorendo i disaccordi, l’allontanamento dei cuori. Questo vale oggi come mezzo millennio fa.

A leggere il bel romanzo Il convento della discordia di Michela Rivetti si prende coscienza di quanto tale fenomeno nel passato non fosse né più né meno subdolo di quello odierno. Cambiano le modalità.

In L’anatomia della distruttività umana, lo psicologo e filosofo Erich Fromm non lascia grandi speranze a una guarigione definitiva dal disordine mentale dell’uomo e dal suo egoismo.

A un certo punto della storia, PietroComandò di eliminare i balestrieri e dare copertura al manipolo che stringeva l’ariete per abbattere imposte. Frecce e dardi attraversavano l’aria da una parte all’altra. Tonfi, se si piantavano negli scudi. Urla, se raggiungevano la carne.” – che potrebbe essere un giorno la tua o quella di un tuo caro. La guerra è un microcosmo che incendia se stesso, un organismo che dà un continuo nutrimento al proprio cancro.

La scrittura di Michela Rivetti sa essere sontuosa e ricercata, ma anche, se serve, spiccia e secca, sempre adattandosi all’esigenza narrativa di quel momento. A volte è icastica, nel suo essere tragica: “Due Bembi in un colpo solo. Un ottimo bottino.” – quando a fare la giornata sono le altrui ferite.

Michela Rivetti sa descrivere le scene e riportare i dialoghi con un realismo estremamente efficace, analizzando con finezza, e senza inutili ridondanze, i vari caratteri psicologici. Non si colgono periodi privi di connessioni coi precedenti, essendo ogni fatto e discorso correlato col precedente e col successivo.

Il conte Antonio dei Bebbi accetta una pubblica umiliazione, non solo per riportare a casa la pelle, ma soprattutto per impedire che i suoi figli siano lasciati soli allo sbaraglio. Il suo comportamento è però considerato vile da quei suoi consanguinei. E il lettore non può che porsi la fatale questione: io che avrei fatto al suo posto?

La risposta, se c’è, sta soffiando nel vento che, quando è di guerra, non favorisce i ragionamenti, ma impone scelte immediate, di cui si avrà poi tutta la vita per eventualmente pentirsi.

Mi sento solidale col conte Antonio, che è il referente del duca d’Este, e che sovraintende una città percorsa da continui brividi esistenziali, dove il semplice uscire di casa può recare una tragedia o una pubblica umiliazione. Il paragone con certe situazioni attuali in alcuni quartieri della mia città sorge spontaneo. Non sempre fu così. Un tempo a casa mia si lasciava la chiave attaccata all’uscio anche di notte. Ora nemmeno in pieno giorno.

“Se si fosse lasciato uccidere, i suoi figli non sarebbero stati soli…” – però: “No. Voleva essere lui a crescerli così, voleva esserci lui al loro fianco.” – se tutti fossero temerari, il mondo sarebbe già esploso per la maggior parte. Un briciolo di viltà è utile al fine di sopravvivere.

Quando a parlare è un uomo del popolo, oppure un nobile che s’atteggia a uomo comune, nella conversazione sono utilizzati dei provincialismi dialettali per metà italianizzati, come a pagina 35 de Il convento della discordia: “Non ciamarlo così, che s’arabisce!” – in dialetto ora è ciamêrel, chiamarlo, e s’arabés, s’arrabbia.

Quando serve esibire un certo livello culturale, il personaggio non si trattiene dall’usare vocaboli latini comeNihil”, “nunc”, “et”, “sed”, “tamen”, “etiam postea”, “fortasse”, “ergo” – il tutto viene mischiato alla frase in italiano.

Leggo, a pagina 43 de Il convento della discordia: “La nave è stata ribaltata da una bissaboga, lo sanno tutti che è un serpente acquatico che sperona e attacca le imbarcazioni.” – e io ne vengo solo ora a conoscenza. Nel Dizionario reggiano-italiano di Luciano Serra e Luigi Ferrari, besabōga indica la serpentina e il discorso tortuoso. Una volta era un personaggio allegorico, spaventevole come Scilla e Cariddi.

“A Modana digono che un fischio simile lo produca il magalasso.”Modana indica la città che dista un tiro di schioppo da Rezo: pare che derivi dall’etrusco mutana (o mutana) che vuol dire tomba, ma anche dalla radice latina mot-, che indica un rialzo collinare. Al magâlass è il drago che va sibilando nella bassa collina di Spilamberto. Il romanzo di Irene spinge di continuo il lettore a ricercare i numerosi altarini allegorici della zona, che non sempre sono edificanti.

Novellara, la città di Augusto Daolio, l’indimenticabile cantante dei Nomadi, è Nualêra per chi ci abita oggi, mentre nel romanzo è “Novalaria”.

Il comportamento arrendevole del conte Antonio è sottoposto a neanche troppo velate critiche da parte dei figli maggiori, nonché della moglie “Giglia”, la quale lo rimprovera con queste aspre parole: “Pietro non ha avuto bisogno di armi per ristabilire l’ordine. Bastano un po’ di orgoglio e decisione ma sono parole che ormai hai dimenticato.” – Pietro è il “barba” – lo zio – di Antonio. Egli pagherà tragicamente per quel suo onorevole gesto.

M’identifico con “Paolo” – figlio di Antonio, assai diverso dai fratelli, in quanto timido, un po’ complessato, ma saggio a modo suo, come lo può essere un quattordicenne. Egli non ha le idee chiare su quasi nulla ma è ben consapevole di non averle. Vive male la sua condizione d’essere figlio di un signore da molti ritenuto pavido, nonché fratello di giovani fin troppo bellicosi: “Le dita gli si intrecciavano: che figuraccia, davanti a tutti!” – nel romanzo Il convento della discordia ogni cosa viene descritta in modo chiaro, senza ombre narrative. Occorre leggerlo con attenzione, lasciandosi condurre per le vie del centro, che si conoscono a menadito, ma di cui s’ignorano i nomi e le vicende connesse ai tanti palazzi medioevali, che sono minuziosamente indicati nelle pagine finali del libro.

A chi non conosce Reggio, la lettura è un invito per sanare l’eventuale pecca, per poter “festigare” insieme a noi arşân tésta quêdra (termine ideato dal poeta modenese Alessandro Tassoni) la loro scoperta. Chi afferma che Reggio non ha nulla d’inclìto potrà sempre confidare nel pentimento.

Nel Convento di San Raffaele sta sorgendo un penoso conflitto fra gli stessi ordini religiosi (domenicani e benedettini), e fra le suore che abitano nel medesimo complesso religioso.

Mi soffermo su un riporto che mi reca delle perplessità: “Magnifico! Alale, alala!” – che mi ricorda un grido in voga in Italia circa un secolo fa: Alala era l’urlo di guerra greco. En passant, ricordo che Ela era il grido con cui Alessandro Magno incitava il suo cavallo a correre.

Il romanzo Il convento della discordia è colmo di momenti in cui la bestialità umana eccede ogni limite, ma l’autrice si è posta l’ardito scopo di narrare principalmente gli eventi che sa essere effettivamente occorsi.

Capisco lo stato d’animo del conte Antonio, che non si sente all’altezza della situazione, e che fatica ad accettare il ruolo di guida dei suoi solidali: “Sarebbe stato come quel tale che posiziona la lampada dietro di sé per far strada degli altri e non vede dove va.” – tale straordinaria similitudine, di origine dantesca, merita d’essere conservata nella memoria di ognuno per l’eternità.

A pagina 108 de Il convento della discordia una “ragazzina” di nome Lucrezia descrive l’origine della citazione più famosa tratta da Plauto, cioè “Lupus est homo homini” – non potendo ovviamente citare la trasformazione che sarà poi operata da David Hume, che era ancora ben lungi dal nascere.

L’autrice si ricorda di vivere nel XXI secolo, quando usa la frase: “Allora perché quei battiti? Timore di non essere all’altezza? Boh.” – che è una forma onomatopeica in voga oggi. Non si tratta di un inciampo narrativo, poiché testimonia l’amore e l’identificazione da lei dimostrato per la storia narrata e per i suoi personaggi.

Amo questa riga: “Eh! No, è un nizzo. Mi sono azzuffato con Cartari, stamattina.”  – néss in arşân è l’ecchimosi. Ma quanti nizzi la storia ci ha elargito!

Michela dona al lettore numerosi vocaboli che nemmeno quello immaginava che esistessero: come “bambasina”, “andoglie”, “bafetti”, “flabello”… e numerosi altri.

GiambattistaStava imparando a controllarsi, a non avere più scatti d’ira…” – senza mai essere sicuro di farcela: “… La conteneva, ma non era facile conviverci, frenare l’istinto ogni volta. Spegnerlo era del tutto impossibile, così magari non reagiva ma restava col sangue amaro e la voglia di distruggere.” – iniziando magari da se stesso. Anche le cronache attuali sono zeppe di notizie tragiche di adolescenti insicuri che tentano di autodistruggersi per sfuggire all’altrui persecuzione. Ogni conflitto, pur svolto in ambito locale, ha una sua natura universale.

Questa mamma non protegge granché i suoi virgulti: “Giulia li osservava orgogliosa: ‘Vi siete comportati molto bene oggi. Avete difeso i deboli e avete preferito la sofferenza al piegarvi. È così che si dovrebbe comportare ogni Bebio. Non date peso a vostro padre in queste circostanze. Il cugino Bernardino è un esempio migliore a cui ispirarvi.” – il male prospera allorché il conflitto si muta in dissidio insanabile e quando chi ti guida diverge in modo drammatico dalla scelta migliore.

A pagina 145 de Il convento della discordia fa la sua comparsa il cugino maggiore di Sigismondo – un certo Messer Ludovico degli Ariosti – che già vagheggia di aggiungere nuovi versi al sospeso poema epico di Matteo Maria Boiardo – che è ora occupato, in quel di Scandiano, in non sempre cristalline incombenze politiche.

Ariosto ora vive a Ferrara, tornando solo talvolta nella natia Rezo: “Le ultime volte che ho soggiornato a Reggio, quasi non ho lasciato il villino a San Maurizio. L’ispirazione che ho in quel luogo non la trovo da nessun’altra parte.” – anch’io ci dimorerei volentieri, ma mi limito a buttarci un occhio ogni volta che vi passo accanto. È uno dei monumenti-culto della mia città.

Il Cardinale affida a Ludovico le mansioni di Capitano, non a Reggio, come egli sperava, ma  a Canossa, per cui, obtorto collo, puntando allo stipendio più che all’onore “Il giovane sospirò, rassegnato: ‘Va bene, andrò a Canossa.” – come si dice ancor oggi quando ci s’arrende alla necessità.

Un grande merito va dato all’autrice. La nostra città si occupa del suo passato principalmente in riferimento a certi periodi storici: quello matildico, soprattutto; ma anche quel celebrato 1797 in cui fu sbandierato per la prima volta il Tricolore; e, infine, la lotta dei partigiani. Si tratta senza dubbio di eroici momenti, ma anche quelli narrati da Michela, pur finora negletti, a modo loro lo sono. Di tutto ciò non posso che ringraziarla. So che la sua saga consisterà in una decina di tomi, che saranno non meno voluminosi di questo. Del resto io vivo nella savia e al contempo folle certezza di aver sufficiente tempo da spendere nella loro lettura, al fine di acquisirne i doni preziosi.

“Avevano disceso la strada principale in direzione di Porta San Pietro, fino a incontrare l’altra grande via, traversale alla loro, che invece portava a Porta Santa Croce.” – e qualcosa è cambiato da allora, ma non troppo. Me ne avvedo allorché m’immagino di camminare appresso a loro.

“Mia sorella sta bene coi Domenicani. Spesso mi ha confidato di quanto fosse inefficiente la gestione dei Benedettini, un ordine d vecchi brontoloni, troppo legati a una visione retrograda e per certi versi ottusa.” – l’acredine finisce per smorzare l’intelligenza, oggi come allora.

Giambattista de’ Bebbi la pensa diversamente, per cui intende difendere “La storia dei Benedettini…” – che, dice “… è quasi millenaria” – a differenza di “quella dei Domenicani…” – la quale “… non conta ancora trecento anni…” – come se il tempo fosse una garanzia di saggezza.

“Tu sai che a questo mondo non c’è posto per la debolezza, o si comanda o si serve e chi ha il potere non è mai pietoso per chi è sotto.” – ognuno tende a pregare per il proprio e per nessun altro, se non per le più strambe ipostasi di quel , quali sono i figli e i vari consanguinei.

Quel che accade a Reggio nella “strada del gioco del pallone” – è descritto con cura nel Capitolo 11, che è quello centrale della narrazione e che va attentamente letto, riga dopo riga.

Non posso che ben volere a quel Paolo che, a pagina 400 de Il convento della discordia, sente che “Maledizione! Non poteva arrendersi, si sarebbe ricoperto di ridicolo.” – e io non riesco a non far mia la sua angoscia.

Nella vita sorge talora l’obbligo cogente di compiere una scelta: costringere l’Altro a subire il nostro volere, oppure tentare la strada della non-violenza. Esiste una terza via, non percorribile da tutti: quella di “Messer Ariosto che deve sempre fare un poema per tutto.” – quartum è pure dato: il simulare di voler percorrere alternativamente ognuna di queste strade, seguendo di volta in volta il proprio fiuto. Andêr a ósta, e dîşen a Rèş.

“Ariosto ringraziò con entusiasmo. Ancora non gli pareva vero: per una volta, sarebbe stato pagato per scrivere.” – alla fine, almeno un umano contento e realizzato ci sarà!

Michela Rivetti citazioni
Michela Rivetti citazioni

Lucrezia dimostra d’essere una persona saggia, quando suggerisce d’allontanare le religiose che sono fra loro solidali: “Quelle che vogliono restare coi Domenicani vi restino, le altre tornino sotto i Benedettini.” – la sua idea, tanto semplice quanto geniale, viene apprezzata da alcuni e fortemente avversata da altri. Questo dà l’idea del conflitto esistenziale in cui vive persino chi ha dedicato la sua vita alla meditazione religiosa.

Mi commuove il senso di inadeguatezza che assale Paolo, il quale si ritiene inferiore ai suoi fratelli. Essendo il minore, sa che poco o nulla della ricchezza paterna gli spetterà. Il suo tormento pare drammaticamente privo di soluzione.

La lunga lettera di Giambattista, con cui si conclude il romanzo Il convento della discordia, pur ricca di spunti, non consente di capire quel che prima o poi avverrà, e che sarà descritto nel prossimo romanzo di Michela Rivetti.

Leggo nei Ringraziamenti che: “Questo libro è dedicato alla memoria di Attilio Marchesini che a tanti, me compresa, ha trasmesso il suo amore per Reggio e la storia locale. Lui mi ha insegnato tanto, non solo nozioni ma soprattutto metodo. Mia ha fatto scoprire la bellezza della ricerca storica e di perdersi negli archivi e per questo lo ringrazio infinitamente.” –  anch’io gli sono grato!

Cara Michela, da tempo ho conosciuto uno studioso che è giovane come te, non in senso anagrafico, quanto nell’anima, per cui egli va sempre trascorrendo lunghe giornate non sotto il sole della sua Bella Napoli, ma all’ombra degli archivi storici, che consentono di scorgere un bagliore di verità. Prima o poi te lo presenterò: si chiama Luigi Iroso, tale solo di cognome, essendo egli tanto ricco d’umanità, termine che, come certo sai, deriva da humus, terra, che è il luogo che ci ha dato origine e che occorre studiare se il nostro fine è capire chi siamo, donde veniamo e dove andremo un bel dì.

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Michela Rivetti, Il convento della discordia, Edizioni Il Viandante, 2024

 

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