“L’impavida” di Rita Coruzzi: la storia di Marzia degli Ubaldini

“… crediamo in quel Dio buono, umile e misericordioso che non cerca potere, ma solo amore e accoglienza. Non siamo eretici, Francesco per primo non lo è, per questo vuole combattere, insieme a me, i falsi profeti, coloro che sembrano agnelli ma in realtà sono lupi rapaci. E il più vorace di loro è vestito di bianco.” – “L’impavida”

L’impavida di Rita Coruzzi
L’impavida di Rita Coruzzi

Rita Coruzzi suole scrivere di donne dotate di forte personalità, che hanno mutato la loro epoca: Matilde di Canossa, Giovanna d’Arco, Eleonora d’Arborea, prima giudicessa della storia, e ora la quasi coeva di quest’ultima, Marzia degli Ordelaffi, detta Cia, nonché L’Impavida.

Prima o poi qualcuno scriverà il romanzo di Rita Coruzzi, la quale è dotata di una vitalità che pare infinita, pur essendo “Affetta da tetraparesi, in conseguenza di un intervento chirurgico andato male, dall’età di dieci anni è sulla sedia a rotelle” – e questo riporto, che ho ricavato dalla fascetta della sovraccoperta del romanzo di cui ho appena concluso la lettura, serve unicamente a far risaltare un fatto ovvio: anche lei, non meno di Cia, dà a chi la sente parlare e a chi la legge la forte impressione di essere un’Impavida.

Ho già assistito a un paio di presentazioni di suoi romanzi, resi intriganti anche dall’appassionante lettura di alcuni passi da parte dell’attrice Maria Antonietta Centoducati.

Ogni volta mi ha colpito la grande energia e il coraggio con cui Rita Coruzzi, discorrendo della propria opera, riesce a mostrare di essere se stessa, senza infingimenti o remore. Lei è un tipo che ama dire quello che pensa, non tanto quello che le conviene, così mi pare d’arguire ogni volta che la odo parlare.

I temi da lei affrontati non sono mai semplici. Non fatico a intuire che le siano costati mesi o anni di studio, di continue ricerche, eppure il lettore ha l’impressione che ogni sua opera sia sorta perché non poteva essere diversamente. In tale senso Rita Coruzzi rientra nella categoria degli autori inevitabili. In altre parole: degli autori meritevoli di essere letti.

Mentuccia è la dama di compagnia di Marzia degli Ubaldini. Il rapporto fra le due donne è improntato a una reciproca sincerità, che è la base di una vera amicizia. Marzia è destinata a sposarsi di lì a poco con Francesco Ordelaffi, signore di Forlì. Un matrimonio combinato, diremmo oggi, che non ve ne sono quasi più, ma ordinaria amministrazione nell’Italia di allora.

Dice Marzia a Mentuccia; “… Per la prima volta ho paura di non farcela, di non esserne degna.” – e la cosa quasi rallegra la sempre “premurosa” dama di compagnia, che le dice: “Sarete più che degna. Comunque sono contenta di ciò che mi avete detto.”

Marzia chiede quale sia il motivo della frase. Al che Mentuccia le risponde: “Perché è assolutamente normale avere paura, mentre voi questo sentimento non lo contemplate, avete paura di avere paura, invece non c’è niente di più umano.” – ed è come se questa donna del ‘300, il cui grado d’istruzione non era tanto elevato, avesse (assurdamente!) letto e ben compreso il saggio I volti della paura di Roberto Escobar, pubblicato pochi mesi fa, secondo cui quella pur fastidiosa sensazione ha la funzione di mettere in guardia l’individuo nel cui destino va profilandosi un improvviso pericolo. La saggezza a volte sa coprire le carenze di un’insufficiente cultura.

Il romanzo L’impavida, scritto con il consueto ardore da Rita, che si divora perciò con analoga passione, è imperniato proprio su quel vitale sentimento che è la paura, che null’altro è se non una miscela di intelligenza e di emozione: non solo dell’una o dell’altra, perché entrambe le caratteristiche sono essenziali al fine di giungere alla decisione che recherà alla salvezza.

Per tutta la loro vita, i due coniugi protagonisti, Francesco e Cia, compiono le loro scelte, a volte giuste a volte no, usando entrambe le opzioni, ora più la prima, ora più la seconda.

E la morale che se ne trae non è, necessariamente, che l’una sia più salvifica dell’altra, ma che è grazie al conflitto che si crea fra di loro che, miracolosamente, può diventare collaborazione, che ognuno di noi, quando l’urgenza è tale che non si può più attendere, saprà, forse!, individuare la propria giusta scelta di vita.

È quanto, vari secoli più tardi, predicherà il filosofo Sören Kierkegaard: Enten-Eller, Aut-Aut, o sì o no. Tertium (saepe) non datur.

“Per quanto si sforzasse di negarlo, infatti, il crollo della notte precedente aveva dimostrato che Mentuccia aveva ragione: in fondo Marzia era semplicemente umana.” – il che, se si ragiona, è una sorta di miracolo. Ognuno di noi è percorso da istinti selvaggi che potrebbero recarci alla rovina, come potrebbe farlo un’indolenza che inibisse in noi ogni possibilità di agire.

Essere umani significa saper affrontare i propri incubi, dopo di cui il destino deciderà, e noi, insieme a esso, potremo pur sempre dire, fino all’ultimo, la nostra.

Non intendo dire nulla della trama, non essendo corretto nei confronti dell’autrice. Per chi ama gli spoiler suggerisco di rivolgersi ai vari motori di ricerca on line, che non lesinano le notizie intorno a questi due consorti realmente esistiti.

A me interessa focalizzare l’attenzione di colui che, leggendo questo romanzo, desidera entrare nel mondo intimo dell’Impavida, il cui aspetto psicologico rappresenta un valore prezioso e assoluto. In una società maschilista come poche, lei è stata in grado di essere eroica e vincente, anche se un qualcosa che accade a pagina 81 mi riempie d’orrore. La crudeltà ha questa caratteristica: ci ricorda la nostra natura bestiale, e che tale eredità non si può fingere di non covarla dentro di noi. Il gesto che Cia compie è terribile e io mi domando se non abbia avuto ripercussioni nella sua psiche. Mi auguro di sì. Ho una stramba aspettativa, che non so da dove mi venga, che anche un gesto ignobile possa servire a farci maturare, a condurci verso la retta via, qualunque essa sia.

Cia non era un essere crudele, anzi, la sua era una natura dolce: “… le suore furono molto colpite dalla sua gentilezza, la sua educazione, i suoi modi fini, e non avrebbero mai pensato – e infatti non lo sapevano – che qualche tempo prima quella stessa donna aveva indossato l’armatura e brandito la spada come, o forse meglio, di un uomo.” – e con non meno efferata e forse gratuita crudeltà.

Come già in L’eretica di Dio di Rita Coruzzi, che narra le vicende di Giovanna D’Arco, fui turbato a immaginare una donna che, per diverse ragioni, si senta destinata a difendere con la spada (e la violenza) il proprio inclìto ideale. E mi chiedo se la mia non potrebbe essere una forma di ipocrisia. Non credo. Violenza deriva dal latino vis, che significa forza. C’è chi ipotizza che anche vincere abbia un’origine analoga. Anche vincolo: quel che, con veemenza, fissa l’Altro a sé.

La guerra, che sia mirata alla conquista e al mantenimento di un possesso, è un cancro che è essenziale estirpare. E non riesco provo a provare alcuna empatia per chi combatte per uccidere, a prescindere dal suo eroismo. È un valore che non mi appartiene, che non mi sento di condividere.

Dice Marzia degli Oldelaffi, detta L’Impavida: “… crediamo in quel Dio buono, umile e misericordioso che non cerca potere, ma solo amore e accoglienza. Non siamo eretici, Francesco per primo non lo è, per questo vuole combattere, insieme a me, i falsi profeti, coloro che sembrano agnelli ma in realtà sono lupi rapaci. E il più vorace di loro è vestito di bianco.” – ed è significativo che, con ammirazione, ci ricordiamo di chi si è macchiato di infami crimini contro l’umanità, trascorrendo gran parte della sua esistenza a combattere, a invadere, a uccidere: Alessandro, Cesare, Cortez e infiniti altri bellicosi eroi, osannati in vita e ricordati nei secoli. E che Colui che ha predicato soltanto[1] l’Amore sia stato messo in Croce, messo in mezzo fra due infimi ladroni.

“Ormai i sudditi la consideravano quasi alla stregua del marito, forse con un pizzico di confidenza in più, dato che lei volutamente si poneva in modo più morbido di Francesco, proprio perché i popolani si spingevano non solo a fidarsi di lei ma anche a confidarsi.” – già dai tempi di Aristotele, si distingue Potere da Potere, a seconda che sia determinato a creare del bene tra le genti le cui sorti sono rette da uno o più responsabili del loro governo.

Il rischio di degenerare è ogni volta alto. Dice ancora Cia: “Per quanto noi Ubaldini e Ordelaffi ci sentiamo fieri della nostra fama di condottieri, del nostro retaggio e di ciò che i nostri antenati ci hanno lasciato in eredità e che noi speriamo di custodire, pensiamo che sia il momento di ampliare i nostri orizzonti. Intendiamo dedicare spazio alla cultura, alle arti, alla pittura, alla poesia.” – sempre che anch’essa non serva a ri-creare e a giustificare la violenza che è tipica delle civiltà umane.

“L’immortalità del nome Ordelaffi, ecco cosa voleva, ecco a cosa segretamente aspirava, non solo per se stessa e per Francesco, ma anche per i loro figli e il popolo e i figli dei loro figli.” – è in queste parole che si giocherà la tenzone fra il cuore bellicoso e quello che ama il prossimo suo.

“Impavido…” – dice il signore di Forlì – “… non significa non avere paura. Io durante le battaglie ho paura, paura di perdere molti dei miei uomini, di essere ucciso, di non tornare da voi e di non vedervi mai più.” tale discorso di Francesco mi stupisce per la sua sincerità, non tipica dell’epoca in cui visse e del suo lignaggio, e mi fa ben sperare per il futuro. Queste percezioni psicologiche sono essenziali per rimanere umani sapienti (e non feroci lupi che tendono unicamente ad azzannare i nemici).

Tanto simili e dissimili sono Francesco e Cia che faticano, paradossalmente e fatalmente, a comprendersi. L’intero romanzo di Rita Coruzzi descrive la loro mutua tendenza a fraintendersi. Riusciranno mai a entrare nella mente del loro amato e negletto coniuge?

Si tenga per altro conto che l’attenzione di entrambi è fuorviata dall’azione truffaldina di chi mira a possedere le loro terre e i loro onori.

Rita Coruzzi citazioni
Rita Coruzzi citazioni

La Storia è la madre di infinite menzogne e inganni, che conducono per lo più al compimento di tragedie. Quella, immensa, che colpisce la famiglia degli Ordelaffi servirà a qualcuno per incrementare la discordia fra i due. La storia è zeppa di delitti che determinano tali strategie della tensione.

Ogni tragedia, però, conduce fatalmente all’agnizione: questa è la speranza a cui è lecito aggrapparsi. Ed essa non fa difetto nella storia di Francesco e di Cia.

Le scelte dell’uno e dell’altra conducono entrambe a una resa al Destino, che li conduce a una nuova forma di esistenza, diversa da quella che sognavano, ma non meno preziosa.

Scrive Cia all’amato consorte una lettera ricca d’amore, in cui si legge, tra l’altro: “… Sono stata felice con voi, anche se allora non me ne rendevo pienamente conto, ma adesso ho una consapevolezza del tutto diversa e so che non potrei passare la mia vita accanto a nessun altro se non a voi, perché io e voi siamo uguali…” – e in che modo lo siano, ci resta ancora tanto da capire, da lavorarci.

Così Francesco risponde a Cia: “… Ci siamo allontanati cercando conforto altrove, ma ora la cosa importante è avere capito i nostri errori ed essere tornati uniti…” – e questo come può chiamarsi se non gioioso miracolo?

Nella lettera spicca una frase che ci metterò un’esistenza e mezzo per tentare di comprendere: “… Siete la donna più coraggiosa, caparbia e straordinaria che abbia mai conosciuto, l’unica capace di portare pace nel cuore di un guerriero anche durante la guerra. Questo non dimenticatelo mai.” – per questo sto arrovellandomi, finora invano, cercando di capire.

L’essenziale di ogni lettura non è però comprendere ogni cosa, ma lasciarsi sommuovere dalla scrittura che, come capita sempre a Rita Coruzzi, risulta, al suo lettore, meravigliosamente acuminata e quasi perfetta. Ed è quel quasi che non può che affascinarmi.

Così terminano le due lettere: “Vostra per sempre, Cia” e “Vostro per sempre, Francesco”.

Non so in quanti la pensino come me: questa tormentata storia d’amore non poteva concludersi meglio.

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Rita Coruzzi, L’impavida, Piemme, 2023

 

Note

[1] N.d.E.: Importante ricordare l’episodio descritto, ad esempio, nel Vangelo di Matteo (21,12-17 e 10,32-11,5) e nel Vangelo di Marco (11,15-19).

 

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