“L’Agnese va a morire” di Renata Viganò: seguendo il tragico destino
Provo a esaminare alcuni punti della Prefazione di Sebastiano Vassalli del libro “L’Agnese va a morire” di Renata Viganò.
Innanzi tutto l’encomio: “L’Agnese va a morire è una delle opere letterarie più limpide e convincenti che siano uscite dall’esperienza storica e umana della Resistenza.” – essendo una prosa limpida e convincente.
Dopo aver letto poco più di cento pagine, non posso che affermare che l’autrice sa essere, di volta in volta, scabra e ricca di descrizioni di particolari, senza mai esagerare. Il lettore sente che lei non ha affatto voglia di dire una parola in più, né in meno, quando non c’è la necessità di farlo.
Le interessa in primo luogo la resa dei quadri in movimento, e non l’illustrazione di alcunché. Lei non dà lustro, né svilisce: narra e basta. L’unico suo compito è contare una storia che illumini la mente di chi, anche nel 2023, è interessato a capire quei momenti tragici che noi cosiddetti baby boomers, nella massima parte dei casi, non abbiamo mai conosciuto. Enzo Biagi era solito dire che la sua generazione aveva perso tutte le guerre. Io non ne ho combattute nessuna. Ma non so nemmeno quanto ne sia felice.
Vassalli spiega “cosa sia una guerra di popolo. Diciamo per cominciare: una guerra che non viene combattuta da soldati…” – cioé da professionisti al soldo di qualcuno. Inoltre: “Guerra di popolo è una guerra non di soldati, ma di uomini. Che combattono per se stessi, anzitutto; per motivi chiari, evidenti, per ideali in cui credono; e non perché ne hanno ricevuto l’ordine o perché sono pagati per questo.”
Anni fa ho conosciuto il compianto Egidio Baraldi, detto Valter, partigiano che corrisponde perfettamente a questa definizione. Lui ammise di aver ucciso dei nemici, perché era in guerra. La più giusta, sebbene orrenda, o forse è meglio dire la meno erronea definizione della guerra è cancro maligno. Si sa che questi brutti mali hanno la tendenza a diffondersi anche negli organi che sono sani. L’unico momento miracoloso e sacro di una guerra è la sua fine.
“… Agnese è la contadina protagonista del romanzo ed è anche un’immagine collettiva, è uno e molti, è soggetto e oggetto del sacrificio, è un personaggio assai reale sotto certi punti di vista ma poi disumano per a sua grandezza, la sua capacità spinta fino all’assoluto di annullarsi nei fatti e nelle vicende…” – è un personaggio che incute timore allo stesso lettore, ma “Che cos’è l’Agnese? Ebbene, che a questa domanda ognuno cerchi di rispondere come può e come vuole.” – per quello che ho capito finora, è una figura tragica, che non teme la morte quanto il dolore del ricordo di com’era diversa, così ricca d’amore, la sua vita precedente.
Alla fine di questa mia tetra concione, proverò a risolvere l’ennesima questione: se tragedia c’è, dove s’è ficcata la catarsi?
Renata Viganò è bolognese e, immagino, amante del linguaggio popolare. Inizio col fatto più bello, per me che sono un cittadino che ha visto osteggiata dalla scuola pubblica la conoscenza delle parole idiomatiche dialettali, le quali sono per lo più ricavate da antichi termini italiani, poco conosciuti, essendo in disuso.
È come se andassi a camminare nei boschi (senza invasori a cui far fronte), e mi mettessi a cogliere fragole, more, lamponi, asparagi selvatici (così saporiti!), ginepro (usando i guanti), ma non funghi (che la mia ignoranza considera come dei potenziali assassini).
Così mi capita ora di prender su (tōr só, dal latino tollere) i vocaboli: “manarino” (in italiano con due n: mannarino; in arşân è manarèin, grosso coltello da cucina, una specie di mannaia); “cavedagna”, l’estremità non arata di un campo (in arşân è cavdâgna); “tirato” (nel senso di tirchio, in arşân è tirê); “non furono buone a sollevarla”, essendo la damigiana piena e troppo pesante: a sûn mia bòun significa non sono capace (anche in italiano si dice buono a nulla, come se il valore operativo fosse connesso a quello etico); ma ce n’è uno che mi sfugge: “meta” nel senso di “catasta, mucchio”, come indica la nota a pagina 104. Potrebbe derivare dal latino mètere, mietere.
Come insegna Savino Rabotti, citando un pensiero di Battista Minghelli, di Pievepelago (appennino modenese) le medde sono dei mucchi di covoni, solitari e di diversa forma e dimensione (e da meta deriva anche il termine metato). Nell’appennino reggiano (nella valle del Tassobio, almeno) si dice invece cavajûn o cavajunâri, collegata al termine covone.
Torno ora all’orrore narrato da Renata, agli invasori tedeschi, forse non dissimili a quelli italiani che agivano nel Corno d’Africa, secondo il ricordo che ho di Tempo di Uccidere di Ennio Flaiano.
“L’aia, la campagna. Il mondo furono guastati dai loro aspetti meccanici disumani, pelle, ciglia, capelli quasi tutti di un solo colore sbiadito, e occhi stretti, crudeli, opachi di vetro sporco. I mitra sembravano parte di essi, della loro stessa sostanza viva…”: degli uomini/automi che agiscono al fine di decidere senza pietà la tua sorte.
“Si levò un’onda di voci accorate, di pianti, di invocazioni, un coro da tragedia greca…” – nella realtà però non è consentito allo spettatore di alzarsi schifato e di uscire dal teatro. Anch’egli è un attore e non può mica svignarsela alla chetichella.
Visita podologica di Agnese, che “si chinò, si tolse le scarpe e le calze, mise i piedi larghi e piatti sulle fredde pietre, fece: – Ah! – con sollievo. Li fissava: erano scuri e deformi, con le dita tutte a nodi e storte, sembravano le radici scoperte di un vecchio albero.” – in campagna, d’estate, si andava scalzi, e si diventa come dei fachiri che camminano sui chiodi.
Prima di chiudere il commento a questa Parte prima, occorre che dica due piccolezze (tali se rapportate alla tragedia collettiva): “Palita”, il macilento (per la debolezza fisica, però sempre gioviale) marito di Agnese, insieme a tanti altri, è stato prelevato e deportato dai tedeschi (e poco dopo muore, per gli stenti e la febbre) e Agnese ha sfracellato con una mitrata in testa (temeva l’arma, che non sapeva usare altrimenti, per la canna; in tal modo si accoppano i conigli); la vittima era “Kurt”, “un soldato grasso” – e mi domando cosa stessero facendo i suoi eventuali genitori in quel momento a migliaia di chilometri di distanza. Kurt aveva da poco causato la morte di “una gatta nera” – che rappresentava l’ultimo familiare di Agnese.
La quale ora va a vivere coi partigiani. Secondo un certo Tonitti: “Non è poi tanto brutta la vita del partigiano…” – essendo “quasi meglio che fare il contadino.”
I tedeschi stanno controllando la zona. “La Rina” e l’“Agnese” si fanno beccare. Mi fa ridere e mi fa star male leggere come la Rina parla a un tedesco, usando un “grottesco linguaggio infantile” – tipo: “Noi venire dal paese, noi paura aeroplani, stanotte bum bum, noi paura, scappare qui, brr.” – poiché quel tedesco la inquadra come “partesana”, lei gli offre del pane, del companatico e del vino e quello lì preferisce gozzovigliare piuttosto che alimentare la voce secondo cui l’unico tedesco possibile è quello che ammazza. Essendo ebbro, le lascia andare. Agnese si fa sempre riconoscere, quando gli butta addosso l’encomio: “Va’ all’inferno, porco.”
Ce ne erano altri che “comparvero sul ciglio” – non facilmente eludibili. Ma Agnese “si mise a camminare, in mezzo ai soldati, larga e pesante, con la grossa faccia come di pietra.”
È una donna grande, grossa e che appare più vecchia di quello che è. A volte non si capisce dove abbia il pensiero, né il cuore. Per cui si stenta a dire che abbia un grande coraggio. La sua pare una reale indifferenza, ora che non c’è più l’amato Palita, che ogni tanto le capita di sognare. Lo stesso non capita al grasso Kurt, della cui esistenza sembra essersi scordata.
A pagina 120 un tedesco dice: “… se nostro camerata ferito morire, noi fucilare tutti, anche donne e bambini…” – senza discriminazioni, essendo la morte sempre la morte, anche quella del gatto nero di Agnese (anzi: dell’Agnese, perché in Emilia e in gran parte del nord i nomi di donna prevedono l’articolo; nel milanese, anche quelli maschili, come per esempio Il Riccardo che gioca a biliardo).
Nella nota alle pagine 125-126 c’è scritto: “Soprattutto la propaganda fascista mirò (e talvolta riuscì anche) a rappresentare i partigiani come ‘ribelli’, delinquenti comuni oppure come disertori e briganti al servizio dello straniero.” – le menzogne in genere servono per difendere la reputazione di chi le diffonde. Egidio Baraldi era un uomo più valente di me, pur avendo inevitabilmente ucciso. Il suo compito era di contribuire a liberare un paese dall’invasore.
Renata Viganò fu una staffetta dei partigiani e visse situazioni che ispirarono la sua scrittura, che è quieta oltre che stupenda. Nelle sue descrizioni non trapela rabbia, né volontà d’esagerazione.
La Seconda parte del romanzo è molto bella, va letta e basta. Ogni commento è inutile.
A pagina 157 inizia la Parte terza. I partigiani s’erano riparati in una “specie di magazzino”, situato “a fianco della strada provinciale” – e “dissero che erano sfollati dal loro paese semidistrutto da un bombardamento, inventarono una parentela: l’Agnese era la mamma di Clinto, e il Comandante un cugino di lei…”.
A pagina 167, alla fine del paragrafo, viene descritto lo stato d’animo dell’Agnese, che sintetizzo: in attesa paziente di qualcosa che si stava ignobilmente avvicinando.
Qualche sparo, qualche morto: “E l’Agnese seduta in un angolo che piangeva.”: finalmente!
Anche i tedeschi sono esausti (stavo per dire: sono uomini che faticano a vivere): “il tedesco stava lì, con gli occhi spenti, la faccia stanca. Forse pensava all’inverno del suo paese, in quel momento, un povero uomo in mezzo alla guerra.”: anche lui era quasi sfinito, a causa di quel cancro.
Dopo aver sognato Palita, “lei adesso lo sapeva, lo capiva. I ricchi vogliono essere sempre più ricchi e fare i poveri sempre più poveri, e ignoranti, e umiliati. I ricchi guadagnano nella guerra, e i poveri ci lasciano la pelle.” – la maggiore delle loro ricchezze. Cos’è cambiato, da allora, Agnese mia?
Mi fanno ridere, in tutta ‘sta tragedia, i nomignoli dei partigiani. Anche ora, se si va al Cimitero Monumentale di Reggio, puoi leggere il loro nome e cognome e, sotto, il loro appellativo. Ce n’è uno che si faceva chiamare Balilla! Anche negli avvisi mortuari è indicato tra parentesi il nome di battaglia del defunto. Il mio preferito, nella storia che leggo è “La Disperata” – che mentre i suoi compagni faticano a prender sonno, lui “invece dormí come un sasso.” – essendo un’edizione Einaudi, l’accento della i finale è chiuso. Nelle altre case editrici sarebbe aperto: ì. In queste ingenti questioni, noi italiani la pensiamo sempre in modo variegato. L’ironico “‘La Disperata’ si asciugava la fronte. – Quando si suda sotto zero senza aver fatto fatica, cosa credi che vuol dire, Comandante?” – costui poco parla, poco risponde alle battute. È un capo, che non dà confidenza. A me non desta simpatia, a differenza di “La Disperata” – che “chiuse un momento gli occhi, cercò di immaginarsi come poteva essere l’Agnese da giovane.” – magra e carina, ci giocherei la mezza vita che mi rimane. Ora pare uno spettro, di cui ci si può innamorare pensando a come doveva essere vivace, il tempo che fu.
“… tanti corpi, adesso ancora interi, sani, viventi e capaci di vivere, si frantumavano in brandelli senza forma, un mucchio di ossa, di carne, di sangue come bestie abbattute da macellai incompetenti.” – anche per quelli esperti, accoppare una vacca olandese o una rossa reggiana non cambia granché.
Ogni frase di Renata mi fa sobbalzare: si legga quella che a pagina 241 comincia così: “Nessuno poteva scampare, come…” – e poi si legga il resto.
Il comandante, ah!, come non l’invidio: “… sempre col suo soprabito di città troppo leggero…” – come un capufficio che vuol distinguersi dal suo sottoposto. Uno che all’uopo sa dire: “Basta perdio! Mi seccate. Andate a prepararvi, ho detto. Marsh!”
L’Agnese non frigna mai, lei piange in maniera quieta: “Aveva due righe di lacrime sulla faccia, venivano giù lente, s’asciugavano al calore stesso della pelle.”
Come indica il titolo, nel penultimo capoverso l’Agnese fa la fine che per il suo assassino merita.
Così Renata finisce il suo discorso: “L’Agnese restò sola, stranamente piccola, un mucchio di stracci neri sulla neve.” – dello stesso colore della gatta che quella donna amava tanto.
È un libro che non consiglio a chi vuol solo passare del tempo, ché esso non sembra volersi mai concludere. Ma è necessario a chi sogna di vivere per un po’ le altrui vite, morendo all’occorrenza insieme a loro.
A volte mi dicevo: si fatica ad andare avanti in questa grave lettura, ma prova solo a immaginare di essere accodato dietro a questi disgraziati, il cui lo stesso ieri è incerto. Figuriamoci l’oggi. Per non dire nulla di quell’enigmatico futuro, che nessuno sa se poi esiste.
Rispondo in breve al quesito sulla catarsi. C’è di sicuro, non l’ho vista.
Secònd mé a s ē lughêda, la poveretta s’è nascosta.
Ich glaube, sie versteckte!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Renata Viganò, L’Agnese va a morire, Einaudi, 1974
Un pensiero su ““L’Agnese va a morire” di Renata Viganò: seguendo il tragico destino”