“Maniac” di Benjamín Labatut: il processo autodistruttivo dell’umanità

“Un demone dormiente, un desiderio segreto sussurrato da un incubo e che non confessava a nessuno. Non era più lo stesso che in Europa.” – “Maniac” 

Maniac di Benjamín Labatut
Maniac di Benjamín Labatut

Nell’anima della fisica è annidato un demone che condurrà il genere umano all’estinzione?

I sogni grandiosi di un genio luciferino e visionario come John von Neumann (insigne matematico ungherese capace di attraversare ogni campo della conoscenza ‒ dalla matematica, all’economia, dalla tattica militare all’informatica ‒ e che contribuì a creare alcune delle più rilevanti innovazioni belliche del Novecento) si trasformeranno nei peggiori incubi dell’umanità?

E ancora: l’ingegno cinico di von Neumann raffigura idealmente l’impulso autodistruttivo dell’essere umano, che auspica di lasciare il mondo nelle mani di enti finalmente pienamente razionali, spingendosi dove solo Dio poté spingersi: la creazione di un’intelligenza autonoma, capace di effettuare scelte e compiere azioni libere?

Lasciando la parola alle migliori menti matematiche del Novecento (da Paul Ehrenfest a David Hilbert, da Kurt Godel fino a Demis Hassabis ‒ il wunderkind londinese fondatore di DeepMind, con l’intento di risolvere una volta per tutte il problema dell’intelligenza artificiale generale) attraverso un’opera di finzione basata sulla realtà, lo scrittore cileno Benjamín Labatut (“Quando abbiamo smesso di capire il mondo” 2020 – “La pietra della follia” – 2021, Adelphi) si immerge nel secolo breve per trovare le origini di un processo segnato dal desiderio di superare il limite inscritto nella nostra umanità, proiettando sulle macchine un incurabile delirio di eternità e onnipotenza. Lo fa con “Maniac” ricostruendo la vicenda umana di John von Neumann (nato Neumann János Lajos, Budapest 28/12/1903 – Washington 8/02/1957), prima bambino plus-dotato poi mente luciferina tanto prodigiosa quanto ossessionata dall’impulso di generare intelligenze che, con la razionalità del puro calcolo, siano in grado di compiere scelte assennate apprese dall’esperienza e persino auto replicarsi.

Punta di diamante dei cosiddetti “cavalieri ungheresi dell’apocalisse” (“Li chiamavamo così per una battuta di Enrico Fermi, che quando qualcuno gli aveva chiesto se gli extraterrestri esistessero davvero aveva risposto: «Certo che esistono, e sono già fra noi, solo che si fanno chiamare ungheresi» A loro sembravamo alieni. Perché come aveva potuto un paese così piccolo produrre così tanti scienziati straordinari in così poco tempo? Leo Szilard, Theodore von Kármán, Edward Teller, Paul Elpis e naturalmente von Neumann” ‒ Eugene Wagner pag 157), von Neumann fugge dall’Ungheria flagellata dal Terrore Bianco dopo l’effimero governo comunista di Béla Kun, e a soli 27 anni è già professore ordinario all’università di Princeton, centro di eccellenza delle scienze esatte.

In qualche modo l’impatto con il nuovo ambiente ha il potere di esasperare le sue facoltà (“Johnny adorava l’America quanto io la disprezzavo. Quel paese gli fece qualcosa. Tutto quell’esasperante, sconsiderato ottimismo, tutto quel gioviale candore sotto cui la gente nasconde la crudeltà tirarono fuori il peggio di lui. Un demone dormiente, un desiderio segreto sussurrato da un incubo e che non confessava a nessuno. Non era più lo stesso che in Europa. Non era più l’uomo di cui mi ero innamorata, l’America aveva alterato qualcosa dentro di lui…”Klára Dán von Neumann, pag. 137), e in quegli anni marchiati da una diabolica frenesia, il matematico di Budapest trae la definitiva convinzione che l’essere umano sia una sorta di esperimento mal riuscito, da depurare e ricablare con la forza del calcolo e degli strumenti della matematica.

Siamo a metà degli anni Cinquanta. Da lì a pochi anni verrà alla luce Maniac (Mathematic Analyser Numerator Integrator and Computer), primo rudimentale computer perfezionato nel 1957 dallo stesso von Neumann, beffardo e auto ironico modo per dare nome all’hybris umana e alla sua protervia illusione di oltrepassare il confine fra l’uomo e la macchina.

Pochi anni prima von Neumann aveva tratto in salvo l’unica persona che nel corso della sua vita sarà capace di metterlo in soggezione: Kurt Godel, conosciuto a Konigsberg durante un convegno sulla epistemologia delle scienze esatte, permettendogli, attraverso un viaggio tortuoso, di raggiungere gli Stati Uniti un anno dopo lo scoppio del secondo conflitto mondiale. (“Kurt Godel godeva di uno status quasi divino fra gli scienziati. Verso la fine della sua vita, Albert Einstein ammise di non tenerci più di tanto a continuare a lavorare, e che se non andava ancora nel suo ufficio all’Institute for Advanced Study, dove a Godel era stata offerta una cattedra grazie all’interessamento di von Neumann, era solo per avere il privilegio di fare la strada a piedi fin lì a fianco del logico austriaco” – Eugene Wenger, pag.111)

Dai laboratori di Los Alamos (“Lo sapevate che a Los Alamos ci sfidavamo a scacchi? Poi qualcuno portò una tavola da go e cominciammo a giocare anche a quello” ‒ Richard Feynman pag 123) in cui si sta mettendo a punto la bomba atomica, fino nelle stanze dell’Università di Princeton, dove vengono gettate le basi delle tecnologie digitali che oggi plasmano la nostra vita, Labatut con “Maniac” apre una finestra temporale sul Secolo breve, accompagnandoci in un viaggio affascinante nei labirinti della scienza moderna, lasciandoci intravedere l’oscurità che la nutre.

“Eravamo tutti come bambini rispetto alla situazione che si era creata, ovvero, a un tratto ci stavamo occupando di una cosa che poteva far saltare in aria il mondo.” ‒ John von Neumann, pag. 122

Che nell’anima della fisica si fosse annidato un demone lo aveva già intuito il fisico austriaco Paul Ehrenfest (Vienna, 18 gennaio 1880 – Vienna, 25 settembre 1933), sin dalla scoperta della realtà quantistica e delle nuove leggi che governano l’atomo, prima di uccidere il figlio quindicenne Vasilij e darsi la morte dopo anni di tormenti psico-emotivi e da attacchi di depressione invalidanti.

E forse non è un caso che “Maniac” di Labatut si apra proprio con il gesto estremo di Ehrenfest, sorta di suicidio simbolico di una scienza ormai preda di una follia galoppante.

Dal Mathematic Analyser Numerator Integrator and Computer ad AlphaZero (micidiale algoritmo creato da Demis Hassabis e la squadra di Deep Mind, successore di AlphaGo e capace, con il semplice autoapprendimento e senza aggrapparsi a esperienze e conoscenze umane, di sbaragliare i più forti giocatori di scacchi e di go, raffinatissimo gioco da tavolo concepito in Cina 3000 anni fa e tutt’ora molto popolare in Asia orientale), l’autore prova a illuminarci sul processo autodistruttivo intrapreso dall’umanità con la completa matematizzazione della vita, una concezione del mondo meccanicistica che ha espulso qualsiasi considerazione filosofica, morale e spirituale.

Prima che von Neumann diventasse indifferente a tutto e si rifiutasse di parlare con amici e parenti, gli chiesero cosa sarebbe stato necessario perché un calcolatore, o qualsiasi altra entità meccanica, cominciasse a pensare e comportarsi come un essere umano. Lui si prese moltissimo tempo prima di rispondere, con una voce non più forte di un sussurro. Disse che avrebbe dovuto crescere da solo, e non essere costruito. Disse che avrebbe dovuto comprendere il linguaggio, leggere, scrivere, parlare. E disse che avrebbe dovuto giocare, come un bambino. (Pag 258)

Benjamín Labatut citazioni
Benjamín Labatut citazioni

E proprio con la frustrazione molto umana dei migliori giocatori professionisti di go, sconfitti dall’intelligenza artificiale di AlphaZero, si chiude “Maniac”.

Un finale inquieto, aperto a qualsiasi turbamento dell’anima. Perché poi pensare di cambiare prospettiva richiederebbe una rifondazione dell’umanità, prima che l’estinzione delle macchine, e allora il finale irrisolto di Labatut è come una sorta di monito al genere umano, chiamato ad assumere decisioni capaci di arrestare un declino che pare inarrestabile. Forse una nuova arte di vivere, mi viene da pensare.

Un rinnovato equilibrio dinamico fra la razionalità maschile dello yang e l’energia femminile dello yin, come già auspicò Fritjof Capra nel suo “Tao della fisica” (Adelphi, 1989)

Perché poi: “Qualsiasi via è solo una via, e non c’è nessun affronto a se stessi o agli altri se il cuore ti dice di abbandonarla… quindi poni a te stesso una domanda: questa via ha un cuore? Se lo ha, la via è buona. Se non lo ha, non serve a niente”.  ‒ Carlos Castaneda “The Teaching of Don Juan”

 

Written by Maurizio Fierro

 

Bibliografia

Benjamín Labatut, Maniac, Adelphi, 2023

 

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