“Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte” di Mark Haddon: un io narrante irrisolto

Quanto mi sono identificato nel protagonista del romanzo Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon?

Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon
Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon

Un sacco, tanto, un po’, pochissimo, quasi per nulla, assolutamente no. Fra le tante risposte possibili sono indeciso quale scegliere fra la prima e l’ultima. E mi vergogno all’idea di dover ogni volta decidere quanto di un io narrante sia entrato in me. Mi chiedo se sia questo lo scopo dell’autore, oppure un’eventualità, intesa come un rischio che lui è consapevole di correre.

Il fine di un’opera è di non averne uno solo, ma di perseguirne innumerevoli, fra cui il maggiore è il tentativo di spiegare al suo medesimo autore perché l’ha scritta. Qual era stato il suo fine iniziale: espressione che dimostra che ogni ossimoro è illusorio, ché le parole di per sé sono ossimoriche, in quanto si comportano come le particelle quantistiche che, venute in contatto per un fatale istante, restano correlate per un’eternità: la loro.

Un’opera letteraria è un uroboro, che può essere velenoso o soltanto vorace, ma sempre mordace.

L’immagine che campeggia in copertina rappresenta un ragazzino con un maglione di lana blu che si mette una mano (la sinistra) su una tempia (la destra). A meno che non sia riflessa da uno specchio, per cui raffigurerebbe una mano destra su una tempia sinistra.

Il mondo è bello non perché è vario, ma perché lo si può scorgere (e fissare nella memoria) da diversi punti di osservazione.

“Wellington era un cane barbone…” – era, perché è stato spietatamente ucciso.

L’io narrante de Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte è colui che dice:Mi chiamo Christopher John Francis Boone. Conosco a memoria i nomi di tutte le nazioni del mondo e delle loro capitali, e ogni numero primo fino al 7507…” – io ne conosco di meno ma sono a conoscenza di un numero primo che è sconosciuto a chiunque: 1, perché solo io lo definisco tale. I matematici laureati, un po’ come i poeti di cui (s)parlava Montale, credono (come si fa con una religione) che il primo numero primo sia il 2. Io faccio parte di una setta composta almeno da me che insiste a dire che anche il numero 1 è divisibile solo per se stesso e per il numero 1.

L’altrimenti ottima traduttrice Paola Novarese ha un refuso a pagina 8, capitolo 7, quando l’io narrante scrive: “… i gialli mi piacciono. Così ho deciso di scriverne uno.” – mentre avrebbe dovuto tradurre: … i thriller (oppure le detective stories) mi piacciono. C.J.F.B. più di una volta dichiara di odiare il colore marrone e quello giallo (allegando alcune stringenti, per lui, motivazioni, che evito di riprodurre, perché non le giudico rilevanti).

C.J.F.B. ammette, a pagina 12 (capitolo 13: numerazione che pare assurda ma non lo è, in quanto il primo capitolo è 2, a cui segue 3, a cui 5, poi 7, 11, 13, 17: il primo che capisce perché non lo si deve paragonare a un numero primo ma al numero 1 fra i primi!): “Il mio non sarà un libro divertente…” – in quanto, egli ammette: “… non sono capace di raccontare le barzellette o fare giochi di parole perché non li capisco…” – e così esaurisce la sua momentanea disamina: “Se cerco di ri-raccontarmi questo gioco di parole mentalmente…” – ne ha riportato uno propinatogli del padre – “… per me è come ascoltare due differenti brani musicali allo stesso tempo.” – il ragazzo è affetto da una sindrome psichica e mezzo (mia battuta) che faccio fatica a diagnosticare. Wellington è morto trapassato da un forcone. C.J.F.B. è un avido lettore dei thriller di Sherlock Holmes (dell’autore dello stesso, cioè), fra cui il “Mastino dei Baskerville” – il grassetto è nell’originale. Questa è una delle ragioni per cui principale scopo della vita di C.J.F.B. è individuare l’assassino.

Ora: è l’unico tempo in cui egli vive, anche se egli si ricorda del proprio passato, esso non gli serve più di tanto: è semplicemente archiviato nel suo hard disk mentale.

C.J.F.B. ama la matematica. Se avesse letto contemporaneamente a me Pillole matematiche oppureA piccole dosi di Piergiorgio Odifreddi ci avrebbe messo più tempo ma li avrebbe capiti maggiormente. Non so quanto. Non si può quantificare la conoscenza se non la sai. Se credi di saperla puoi solo dire che la sai, ma non sapere quanto e se la sai. O sì o no. Enten-Eller. Non in percentuale. Jiddu Krishnamurti diceva che gli eventi vanno colti nel loro accadere, non come tu ti immaginavi che dovessero presentarsi prima di quando effettivamente si sono presentate. Occorre porsi al di là del conosciuto. E soprattutto non bisogna mai credere alcunché (men che meno di sapere).

Non credo che C.J.F.B. possa capire un ragionamento così capzioso. Nemmeno io, temo.

“I numeri primi sono ciò che rimane una volta eliminati tutti gli schemi…” – il che è un concetto semplice che rimane oscuro a chi non ha letto le righe precedenti. Dopo di cui potrebbe dire di aver capito almeno una porzione del concetto, che rimarrebbe però principalmente oscuro, come Jude l’oscuro di Thomas Hardy,romanzo che ho letto in contemporanea.

C.J.F.B. aggiunge che tali numeri “sono molto logici ma non si riesce mai a scoprirne le regole, anche se si passa tutto il tempo a pensarci su.” – potrebbero non averne, ovverossia essere liberi da quel gioco cerebrale che tanti lutti addusse agli Achei, specie ai matematici, fors’anche a Pitagora, a Talete e ad Archimede. Senz’altro anche a Piergiorgio Odifreddi e a me.

Ringrazio sentitamente di un inclìto dono colto a pagina 22 (capitolo 29): “… la parola metafora è una metafora.” – la dimostrazione era stata enunciata a pagina 21, medesimo capitolo.

Per aver colpito (con un pugno, intuisco) un poliziotto a pagina 11 del capitolo 11, C.J.F.B. rischia di finir in cella, poi viene diffidato a evitare di farlo ancora: ciò accade a pagina 25, capitolo 31.

La pagina seguente, che appartiene di diritto al capitolo 37 contiene una rivelazione: “Io non racconto mai bugie.”

A cui segue, a pagina 27 una confessione (che è un ribadire quando accennato a pagina 8 del capitolo 7): “Ed ecco un altro motivo per cui non mi piacciono i romanzi, perché raccontano bugie su cose mai avvenute e mi fanno venire le vertigini e mi spaventano.” – al che Jorge Borges, dall’alto, mi pare stia annuendo – ma poi C.J.F.B. aggiunge, a mo’ di concia (non metafora ma similitudine): “Ed ecco perché tutto ciò che ho scritto è vero.” – e qui Jorge Borges non può che scuotere la testa (allegoria, come la precedente).

Però i thriller scritti da Sir Conan Doyle sono dei veri romanzi. A questo C.J.F.B. non sembra pensare.

Pagina 33, capitolo 47:Dissi che mi piaceva che le cose seguissero un ordine preciso.” – purtroppo il secondo principio della termodinamica rema contro questa pur legittima aspettativa. Noi disordinati e confusi riusciamo meglio ad adeguarci al khaosino generale. Siamo, come dire, più consoni a quei motivetti musicali che risuonano, uno sopra l’altro, nell’universo, che è Kósmos, cioè Ordine, di nome ma (forse) non di fatto. Oppure lo è, ma non in forma essoterica.

“… non pensavo di essere intelligente: guardavo le cose per quello che erano, e questo non vuol dire essere intelligenti.” – non so se Jiddu Krishnamurti fosse un Asperger, però ha avuto un’infanzia spensierata e un’adolescenza problematica.

“Poi mi chiese se avrei voluto essere un astronauta e io risposi di sì.” – questo è (esiste, sarebbe meglio dire) a pagina 34, capitolo 47.

Non so. Se si è lassù e si ha una crisi mentale di qualsiasi tipo, hai voglia di urlare Houston c’è un problema! Per sentirti, ti sentono anche, ma per poi aiutarti, non so, dovresti contare principalmente su te stesso e sui tuoi eventuali compagni di viaggio che, se ti assomigliano, caro il mio C.J.F.B… Auguri!

Tu ami disegnare le cose per meglio esprimere taluni concetti. E sei solito trascrivere le scritte che leggi (che dopo averle lette si dovrebbero chiamare così: lette) in grassetto.

“Penso che le persone credano nell’aldilà perché detestano l’idea di morire, perché vogliono continuare a vivere e odiano pensare che altri loro simili possano trasferirsi in casa loro e buttare le loro cose nel bidone nella spazzatura.”vorrei trasmettere questo pensiero a Enzo Bianchi, autore del saggio Vivere la morte, allegando la reazione che ho scritto intorno a quel libro.

Anche le frasi idiomatiche del tipo Non dare confidenza agli sconosciuti per te vanno poste in grassetto: Non Dare Confidenza Agli Sconosciuti, con tutte le maiuscole.

Un punto notevole del tuo pensiero inquisitivo è quando affermi, a pagina 52 del capitolo 57: “Qualcuno deve saperlo, perché la persona che ha ucciso Wellington sa che Wellington è stato ucciso. A meno che non sia un pazzo e non si sia reso conto di quello che stava facendo. O che soffra di amnesia.” – è così.

Tra pagina 54 e pagina 55 del capitolo 67, leggo: 5 motivi per cui ha senso uccidere un cane (tu la chiami “una Catena Di Ragionamento”).

A pagina 60, capitolo 73, elenchi “alcuni dei miei “Problemi Comportamentali” – non usi il grassetto, però a me ora tocca contarli in quanto non usi i numeri, bensì le lettere da A. a R.: mi pare siano 18, ma mi rifiuto di ricontrollare il conteggio.

A pagina 62 del capitolo 79 diciquella che si potrebbe definire una bugia innocente…”a ‘t tâc a gnîr, cominci a venire, a svilupparti, direbbe un reggiano (arṣân). Se tu venissi a Reggio Emilia, soprattutto nei paesini di provincia, avresti la stessa sensazione di quando andasti in Francia, per cui, a pagina 48 del capitolo 67, scrivesti: “E io odiavo la Francia perché se entravo in un negozio o in un ristorante o andavo in spiaggia non capivo quel che dicevano, e la cosa mi terrorizzava.” – a me è capitato la stessa cosa quando visitai per la prima volta Pisciotta (SA), ma poi a poco a poco imparai quell’apparentemente sgangherato slang, infarcito di termini greco-latini, arrivando a trascrivere con l’aiuto di un acquisito zio Angelo Marsicano un prontuario pisciottano-italiano.

A pagina 65 del capitolo 83 scopro una mezza verità: “… dovrei diventare un astronauta solitario, oppure avere uno spazio nella navicella a disposizione soltanto per me, dove nessun altro possa entrare.” – un numero primo nonché ultimo, se mi concedi la metafora.

A pagina 68 del capitolo 89, scrivi:Il giorno seguente mentre andavo a scuola vidi 4 auto gialle di fila, che voleva dire che quella sarebbe stata una Giornata Nera.” – e ognuno ha la superstizione che si merita, che vuoi che ti dica…

Ti riprendi a pagina 69 del capitolo 97: “… cinque giorni dopo vidi 5 auto rosse una di seguito all’altra, che avrebbero trasformato quella giornata in una Giornata Straordinaria” – scusa se mi appello al mio essere ‘n apéli (in arṣân è così detto chi è cavilloso): perché scrivi una e non 1?

A pagina 71 del medesimo capitolo 97, leggo: “Sì. Io non dico mai bugie, – risposi.” – a parte le bianche, ricordi. Chissà cosa pensi di quel cretese che in un libro sacro a caso disse che tutti i cretesi erano bugiardi. Kurt Godel, per non diventare matto, s’inventò il teorema dell’indecidibilità aritmetica.

Il capitolo 101, che va da pagina 77 a pagina 80, è dedicato a Il problema di Monty Hall e mi sa che ti deludo (non so però se cogli il vero senso di questo verbo, de-ludere: burlare chi si aspetta da te un compito da lui e non necessariamente da te prefissato) dicendoti che non sono d’accordo con quell’intelligentona di “Marilyn vos Savant”, che forse ha il Q.I. più alto della storia (più di Albert Einstein). Non comprendo poi granché la formula che indichi a pagina 79.

A pagina 81 del capitolo 103 dichiari (al lettore):Avevo appena detto un’altra bugia innocente.” – Benvenuto nel Club degli Onesti Spergiuri!

La tua maestra (soprattutto di vita) Shioban ti spiega a pagina 82 del capitolo 103: “… che l’idea che sta alla base di un libro è quella di descrivere le cose usando le parole, in modo che altri possano leggerle e costruirsi un’immagine nella propria testa.” – bene. Me la fai conoscere ‘sta damigella? Com’è? È graziosa? A pretty and young teacher?

A pagina 91 del capitolo 109 leggo che dici: “– Non sono triste…” – se ti capitasse d’incontrare l’oracolo di quel Febo, quello forse non si sentirebbe tenuto a dirti: Conosci te stesso, che quello tu sai, meglio di chiunque e di qualunque altra cosa. Ma forse ti permetterebbe di consigliarti: Conosci anche gli altri, però!

Passassi a conoscere un po’ meno C.J.F.B., avresti più tempo per il resto del mondo.

Sono scelte? O si tratta di un caso? O di una necessità? Quien sabe?, direbbe Tex Willer (ma anche Jacques Monod).

Quando cerchi di ricordare un dato che non capisci al volo (quasi a ogni ora della tua giornata), come segnali al lettore a pagina 93 del capitolo 113, scrivi: “io inserisco la funzione Ricerca e verifico se l’ho già sentito dire prima.”

Leggo, a pagina 94 del medesimo capitolo: “… quelle nella mia testa sono tutte immagini di cose che sono veramente successe.” – il tuo problema principale è questa fede nella verità che conduce al Malinteso Eterno, dico stravolgendo un titolo di un libretto dei Testimoni di Geova che intendeva catechizzarmi ma che poi non ce l’ha fatta a catturarmi (metafora).

Per te gli orari finiscono sempre con una cifra che va da 0 a 9, tipo “alle 17,48” – come leggo a pagina 97 del capitolo 127.

A pagina 1110 del capitolo 149 la signorina Shioban ti fa tante domande, a cui rispondi ogni volta.

Definisci a pagina 111 del medesimo capitolo il tuo libro: “era grande circa 25 cm x 35 cm x I cm…”. Ti è sparito e lo cerchi dappertutto, anche nella camera di tuo padre dove poi lo scopri… ma anche vieni a sapere un’atroce verità: tua madre non aveva avuto la sorte di cui ti aveva informato anni prima tuo padre, ma un’altra (essendo esistente nel continuo altrove e non giacente nell’irrisolvibile fine), per cui era ancora contattabile e raggiungibile, all’occorrenza.

Il capitolo 151 si apre così, a pagina 120:Ci sono molti misteri nella vita. Ma ciò non significa che non esistano risposte a questi misteri. È solo che gli scienziati non le hanno ancora trovate.” – Amen e così sia! – questo, in genere, lo dice Kit Carson, fido pard di Tex.

Leggi le missive materne e scrivi, a pagina 133 del capitolo 157: “Mi sembrava di avere le vertigini.”

A pagina 140 del capitolo 163 leggo: “La gente pensa anche di non essere come un computer perché prova dei sentimenti che i computer non provano. Ma i sentimenti non sono che delle immagini…” – okay…

Per cercare di tranquillizzarti, in genere e, nello specifico, ora, a pagina 140 del capitolo 167, calcoli “la funzione ‘2 alla’…”.

Noto che (non dico dove né indico quali siano) utilizzi tante similitudini, del tipo ridondante, non come quella, più stringata, che usò Giuseppe Ungaretti nella poesia Soldati: lo dico non per farmi intendere da te ma dal lettore del tuo lettore.

A pagina 178-179 del capitolo 193 (le due misure si stanno allontanando) fornisci “la mia tabella di marcia quando vivevo a casa con mio padre”, dalle “7,20” alle “21,30”,

A fine della medesima pagina 179 scriviPerché il tempo è soltanto la relazione col modo in cui cose diverse tra loro cambiano e si trasformano, la ter-” – e poi concludi il ragionamento all’inizio di pagina 180: “ra che gira intorno al sole e gli atomi…” – a questo punto ti stoppo per segnalarti che, secondo Julian Barbour, autore di The end of time, il tempo è un’illusione. Anche per Carlo Rovelli è così. Sono entrambi fisici laureati, mica come noi due.

Dimenticavo di avvisare che nel capitolo 167 a pagina 142 qualcuno ti dice che è stato lui il killer del cagnolone, per cui appena puoi tu scappi di casa, dopo aver rubato il bancomat paterno. La tua meta ora è la stazione, dopo di cui piombi a Londra (e ci metti il tuo tempo per riuscire in tale impresa), dove ora abita tua madre.

Viaggiare in treno per te “… era un po’ come volare…” – lo leggo a pagina 184 del capitolo 197.

Sei in questo momento in overflow di dati. A pagina 194 del capitolo 211 ammetti: “… il mio cervello non funzionava come avrebbe dovuto e la cosa mi terrorizzava, così chiusi gli occhi e contai lentamente fino a 50 ma senza calcolare ‘alla terza’…” – il che è effettivamente grave.

Scendi ora, timoroso, tra la folla.

Mark Haddon - citazioni
Mark Haddon – citazioni

“… e le altre persone mi stavano troppo addosso e io avrei voluto colpirle per farle allontanare ma non feci niente a causa della diffida…”va’ a vedere, lettore dell’altrui lettore, a pagina 25, e capirai che devi far attenzione.

Non ho indicato qui né il capitolo né la pagina perché a volte io mi ribello al sistema.

Tralascio un tuo sogno perché è di impianto orrorifico.

Ora il tuo pensiero dominante è che l’assassino del peloso quadrupede debba andare in galera.

Per cui io ora, per solidarietà nei confronti di quell’infame assassino, tronco fra poco la reazione e non dico come va a finire (momentaneamente) la tua storia.

A chi mi chiedesse se ho segnato tutti i vari numeri di pagina e di capitolo dall’inizio del romanzo Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte (perché è tale!) di Mark Haddon, e anche se fosse lo stesso autore a chiedermelo, gli risponderei: Sono fatti miei!

L’avverbio temporale più frequentemente attestato è “poi”, mentre il verbo più utilizzato è pensare, nelle sue tre forme “penso”, “pensavo”, “pensai”. Anche decidere, più che altro nella sua remota forma, “decisi” è abbastanza in uso (cfr. pagina 151, capitolo telocerchi). L’accostamento più abbinato è “Io pensai”.

A pagina 148 ho riscontrato unE questa è la verità.” – dopo di cui si chiude il capitolo che precede il 179.

All’inizio del capitolo 181, vedipoituchepaginaè, spicca, senza per altro brillare un “Io vedo tutto.” – punto e capo.

Ancora, a pagina 218, terzultimo capitolo: “– Non mi piace quando mi tengono la mano, – dissi.”

Da qualche altra parte c’è scritto che tu, C.J.F.B., strambo amico mio, disdegni di essere guardato.

E di guardare in faccia qualcuno, se lui ti sta guardando. Mi disgusta l’idea di rinvenire la fonte di ciò.

Fine.

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Mark Haddon, Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte, Einaudi, 2003

 

Info

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