Contest di poesia e racconto breve “The Mistral Came – seconda edizione”
“Quando il giovane, per vezzo, si incammina sul sentiero della poesia, le parole ‒ simili ai passi ‒ si susseguono una di presso all’altra tanto che pare di poter arrivare facilmente alla radura al di fuori della foresta e, solamente negli anni che determinano la maturità, il poeta si rende conto dell’effettiva essenza del sentiero e di quanto questo, in realtà, non sia rettilineo bensì così aggrovigliato da esser paragonato ad un labirinto nel quale il significato diventa mutevole e la parola vive di forme proprie.” ‒ dalla prefazione di Alessia Mocci
Regolamento:
1. Il Contest letterario gratuito di poesia e racconto breve “È giunto il maestrale ‒ The Mistral Came ‒ seconda edizione” è promosso da Oubliette Magazine, dal poeta torinese Samuel Fernando Pezzolato, e dalla casa editrice Edizioni DrawUp. La partecipazione al contest letterario è riservata ai maggiori di 16 anni.
La partecipazione al Contest è gratuita.
Tema libero.
2. Articolato in due sezioni:
A. Poesia (limite 100 versi)
B. Racconto breve (limite 1000 parole)
3. Per la sezione A si partecipa inserendo la propria poesia sotto forma di commento sotto questo stesso bando (a fine pagina) indicando nome, cognome, dichiarazione di accettazione del regolamento. Si può partecipare con poesie edite ed inedite.
Le opere senza nome, cognome, e dichiarazione di accettazione del regolamento NON saranno pubblicate perché squalificate. Inoltre NON si partecipa via e-mail ma nel modo sopra indicato.
Importante: cliccare su Non sono un robot, è un sistema Captcha che ci protegge dallo spam. Per convalidare la partecipazione bisogna cliccare sulla casella.
Per la sezione B si partecipa inserendo il proprio racconto sotto forma di commento sotto questo stesso bando (a fine pagina) indicando nome, cognome, dichiarazione di accettazione del regolamento. Si può partecipare con racconti editi ed inediti.
Le opere senza nome, cognome, e dichiarazione di accettazione del regolamento NON saranno pubblicate perché squalificate. Inoltre NON si partecipa via e-mail ma nel modo sopra indicato.
Importante: cliccare su Non sono un robot, è un sistema Captcha che ci protegge dallo spam. Per convalidare la partecipazione bisogna cliccare sulla casella.
Ogni concorrente può partecipare ad entrambe le sezioni con una sola opera.
4. Premio:
N° 1 copia del libro “È giunto il maestrale ‒ The Mistral Came ‒ seconda edizione” edito nel 2024 dalla casa editrice Edizioni DrawUp.
Saranno premiati i primi due classificati per entrambe le sezioni.
5. La scadenza per l’invio delle opere, come commento sotto questo stesso bando, è fissata per il 9 giugno 2024 a mezzanotte.
6. Il giudizio della giuria è insindacabile ed inappellabile. La giuria è composta da:
Alessia Mocci (Editor in chief)
Samuel Fernando Pezzolato (Poeta)
Carolina Colombi (Scrittrice e collaboratrice Oubliette)
Franco Carta (Poeta e scrittore)
Stefano Pioli (Collaboratore Oubliette)
Antonietta Fragnito (Poetessa e scrittrice)
Rebecca Mais (Scrittrice e collaboratrice Oubliette)
7. Il contest non si assume alcuna responsabilità su eventuali plagi, dati non veritieri, violazione della privacy.
8. Si esortano i concorrenti per un invio sollecito senza attendere gli ultimi giorni utili, onde facilitare le operazioni di coordinamento. La collaborazione in tal senso sarà sentitamente apprezzata.
9. La segreteria è a disposizione per ogni informazione e delucidazione per e-mail: oubliettemagazine@hotmail.it indicando nell’oggetto “Info Contest” (NON si partecipa via e-mail ma direttamente sotto il bando), in alternativa all’email si può comunicare attraverso la pagina fan di Facebook.
10. È possibile seguire l’andamento del Contest ricevendo via e-mail tutte le notifiche con le nuove partecipanti al Contest Letterario; troverete nella sezione dei commenti la possibilità di farlo facilmente mettendo la spunta in “Avvertimi via e-mail in caso di risposte al mio commento”.
11. La partecipazione al Contest implica l’accettazione incondizionata del presente regolamento e l’autorizzazione al trattamento dei dati personali ai soli fini istituzionali (Gdpr 679/2016). Il mancato rispetto delle norme sopra descritte comporta l’esclusione dal concorso.
Buona partecipazione!
Info
Leggi le opere vincitrici della prima edizione del contest È giunto il maestrale 2023
Leggi la prefazione del libro “È giunto il maestrale – The Mistral Came”
ATTIMI
Ci sono attimi
che nascono per caso
quelli che la parola
non contiene
immersi nella sabbia
di un deserto che spegne
illusioni di fragranza
istanti irriverenti
necessari alla vita
che contiene.
accetto il regolamento, sez. A
Volevo guardare la pioggia cadere
Volevo guardar la pioggia cadere.
La volevo sentir precipitare
sulla pelle, per toccare le vere
gocce d’amare.
Scende silente pioggia sulla vita,
e la sfioro con le dita tremanti
per sentirmi vivo; per la ferita
lavare, e i pianti.
Sento l’olezzo della pioggia. Questo
cuore mi bagna di malinconia.
Dal silenzio dello spirto mi desto,
e dall’amnesia.
Volevo guardar la pioggia cadere.
Volevo veder il pianto del mondo.
Volevo sentir rumore tacere.
Dolor nascondo.
Alessio Romanini sezione A Accetto il regolamento
DIALOGUS (DIALOGO)
“Azione del parlare fra due o più persone”
Dal vocabolario Treccani
Non ricordo se pioveva o c’era il sole. Non ricordo se era primavera o autunno quando abbiamo smesso di avere un dialogo.
Quando quel sipario di silenzio è sceso tra di noi con il suo assenzio avvelenando il nostro parlare.
Oggi, il comunicare fra la gente è diventato così difficile. Il dialogo si snoda attraverso congegni elettronici con l’intelligenza artificiale. Le persone non scrivono più lettere o cartoline. Hanno dimenticato come si scrive in corsivo e hanno eliminato il congiuntivo. E noi? Noi siamo diventati pioggia che cade sopra arida terra e attraverso cunicoli di argilla e sabbia raggiungiamo il sale del mare per confonderci
nelle diafane onde. Evaporiamo dentro grasse nuvole del colore del piombo per ricadere ancora nella nostra aridità senza parlarci mai. Perché abbiamo smesso di parlare? Forse per orgoglio? Per paura di rivelare la verità? Quale verità può essere peggiore di questo mutismo che nel tempo diventa tormento? Vorrei gridare come questo gabbiano che vedo attraversare il mare, mentre cammino solo a piedi nudi lungo la riva, e le onde mi bagnano. E ascolto il mare. Anche lui con il suo sciabordare ha milioni di cose da raccontare. E ti vorrei gridare a squarciagola: “PERCHÉ ABBIAMO SMESSO DI CONVERSARE?”
Vieni! Raggiungi il mio cuore su questo deserto di silenzio e cerchiamo di comunicare. Non è senza dialogo che si impara a volare. Chi sprofonda nell’inganno del silenzio lentamente muore dentro se; restando avviluppato dalla solitudine per sempre. La parola “Mamma” è il primo dialogo che impara il bambino in età puerile, e da questo si evince che l’amore è l’essenza stessa del bisogno di comunicare il sentimento che è dentro l’anima. Il bambino si domanda sempre: “Perché?” Rimane affascinato dalle cose e si pone domande. Nella sua ingenuità ha la purezza della conversazione. Mentre noi, che ormai siamo adulti, siamo intrappolati dentro la gabbia della malizia, e veniamo trascinati nell’abisso del mutismo. Si smarriscono le parole importanti…
Ricordo ero un bambino timido e sensibile. Per paura di soffrire mi costruii un mondo parallelo dove non facevo entrare nessuno; mi sentivo al sicuro e protetto; sapevo che lì il dolore non sarebbe mai e poi mai riuscito ad entrare.
Mi sbagliavo! Quell’universo che mi ero costruito era fatto solo del dolore della mia solitudine. Era composto da silenzi e paure. Tutte quelle paure che mi hanno impedito di vivere.
Adesso vorrei dirti che sono adulto e sono sprofondato nell’assenza di dialogo per sempre…Tu non commettere lo stesso errore che ho commesso io. Lungo il percorso della mia vita ho smarrito amori, amici e affetti… Non lasciare che il silenzio tarpi le tue parole. Grida! Urla! Libera il dialogo che nasce dentro l’animo.
Mi rammarico che neanche i nostri sguardi non riescano più a parlare. I nostri occhi sono sfuggenti come bianche nuvole trasportate dal vento; lontani, in quel silenzio che ha inaridito le nostre labbra.
Vorrei raggiungerti come il vento. Lo odo stormire tra le verdi foglie a forma di cuore degli impetuosi tigli, mentre solitario passeggio nel parco. Lo sento bisbigliare tra le fronde, nelle spighe lussureggianti di forasacchi… Lo ascolto mentre mi parla al petto ed io ti vorrei gridare: “ PERCHÉ ABBIAMO SMESSO DI DIALOGARE?” Chi smette di comunicare ha deciso di morire dentro sé, dentro l’isolamento.
Capisco che oggi dialogare è difficile. Comprendo che l’uomo moderno ha imparato a chiudersi nel guscio per isolarsi dal resto del mondo. Chi ci ha imposto di rinunciare a parlare?
Chi ha permesso che cadessimo nel baratro dell’oblio?
Vorrei farti ascoltare la melodia del nero merlo appollaiato sopra quell’antenna di gelido metallo. Lo ascolto mentre il suo chioccolare echeggia in ogni vicolo della città. Anche esso ha qualcosa da raccontare. E tutti gli altri uccelli tacciono per restare ad ascoltare. Poi come un infinito concerto tutti si mettono a cinguettare; ed io vorrei gridare: “PERCHÉ ABBIAMO SMESSO DI COLLOQUIARE?” Rimango qui. Seduto nel silenzio del mio giorno. Strappiamoci questa maschera infantile di silenzio e parliamo. Guardiamoci dentro gli occhi con l’ingenuità del fanciullo e dialoghiamo con la purezza del cuore che appartiene solamente ad esso.
Oggi è una tiepida domenica di maggio. La primavera riporta la speranza nei colori di fiori di campo. Riveste ignude fronde. Fa sbocciare nuovi germogli. E noi? Cosa facciamo? Restiamo in questo sordo silenzio che ci ha rubato il dialogo per sempre?
Ma niente è per sempre ed un giorno tutto avrà una fine. Non seppelliamoci nell’eterna quiete in cui siamo stupidamente caduti. Non lasciamo che oggi il mutismo ci rubi il verbo, per renderlo prigioniero del tempo. Gridiamo come quel bianco gabbiano sulla deserta spiaggia, mentre ridendo ci rincorriamo.
Alessio Romanini sezione B Accetto il regolamento
Angelo Napolitano Accetto il Regolamento sez a
FIGLI.
Magari non ti chiamo,
e spesso non ti chiedo…
però son qui che ascolto
anche quei tuoi silenzi immaginati.
Conosco i tuoi bisogni,
forse non proprio tutti,
perché il mio infinito
si è ripiegato in te che l’hai compiuto.
Il tuo l’hai dispiegato
proprio dal risultato
che ho raggiunto io,
fin dove l’ho saputo germogliare.
Non me ne faccio un cruccio,
anzi, ne son contento,
e ascolto lungo il vento
le tue avventure pazze e generose,
mischiando all’apprensione
un pizzico d’invidia,
contento che tu sia
più agile di me nell’imparare,
nel superare i fossi,
saltare gli steccati,
sorridere coi fessi,
tacere con chi ha da insegnare;
urlare coi violenti,
parlare con chi ascolta,
fiorire di pudore,
e non tenerti tutto riservato…
Conservati così… che più mi piaci…
Anche se non capisco,
imparerò da te ad ascoltare.
IN VIAGGIO (a due donne)
Lo sai, inattesa mi è arrivata.
Come quel giorno la galaverna brillante di sole
appesa ai rami nudi
oltre il passo e le sue nubi
sulla via verso il mare.
Eppure al mio fianco
spensierante stai
mentre più in là,
sui pilastri dei viadotti,
s’incurva all’orizzonte
un pezzo della nostra strada.
accetto il regolamento, sez. A
(piccola nota: ho cercato sul vocabolario e non ho trovato la parola spensierante, mi sono permesso di inventarla.)
Vita
Vento che sei esistenza
hai soffiato su di me
illuminandomi
quando nel dubbio della vita
mi sono chiesto perché.
Tu che sei metafora
liberi le nuvole e ci fai vedere
il cielo stellato
tu che sei utopia
senza vederti e toccarti
produci più tu che miliardi su questo pianeta.
Vento che sei tempo
E come il tempo scorri veloce
lasciando il passato
nei ricordi su in soffitta.
Tu che, quando ti inquieti
porti via ciò che trovi
ma come a perdonarci
fai il buon padre
e ritornando calmo e soave
spazzi soltanto quelle foglie
morte e smorte che
nella stagione di settembre
dagli alberi cadono
per dare un nuovo ciclo
alla vita che ricomincia.
Accetto il regolamento Sezione Poesia
Alessio Asuni
Accetto il Regolamento.
Sezione A – Poesia
SOGNI D’INFANZIA
Ho sognato un mondo
Senza la bomba atomica,
un mondo senza fame
e senza malattie incurabili.
Un mondo senza guerre
In cui tutti fossero fratelli.
Ora mi ritrovo vecchio,
guerre divampano in tutto il mondo,
non dichiarate, ma sempre più mortali,
è ritornata un’epidemia
come la peste di una volta
e i governi impongono il coprifuoco
anche dove la guerra non c’è.
NATALE SOTTO LE STELLE
Entra Dicembre l`inverno si avvicina
tutto illuminata di fuori è la cascina
dentro nonna Teresa e nonno Pasquale
adornano il bel gran pino per natale.
Sui fornelli cuociono il minestrone
nelle braciere arrostono castane
dentro il forno cuoce il minestrone
il pane fresco e pure le lasagne.
Nelle campagne tutto il mosto è vino
sul tavoloarance e bergamotto
il sindaco seduto vicino il contadino
i commensali stasera sono diciotto.
Non parlano di politica o guerra
non guardano il colore della pelle
hanno fatto un cerchio sulla terra
ballano allegri sotto tante stelle.
Accetto il regolamento Sezione Poesia
@Vito Bologna
Il Silenzio.
Il silenzio,
silenzio bugiardo che infine è urlo.
Il silenzio di Saint-Pé-d’Ardet
disturbato dai corvi imperiali,
dal chiacchierare francese dei vacanzieri di Lourde.
Poi lontane nuvole cariche di neve,
che sulla Spagna, silenziosamente scende.
Il silenzio degli alberi spogli,
il silenzio dei raggi di sole inclinati d’inverno
e questa terrazza che mi dice:
-Io sono casa tua.
Questo profilo d’orizzonte silente baciato dai rapaci
e da tutti gli azzurri
che hanno il nome del mio mare, mare chiassoso,
non qui.
La voce non rimbalza
dentro queste valli coronate di cime.
Il silenzio è fuori
e con il respiro colmo, diaframma contratto,
spegne frequenze che dentro non sapevo di avere.
E si ascolta questo silenzio gonfio di suoni dolcissimi:
il silenzio di edera rampicante,
il silenzio di tegole scure e case di pietra.
Un silenzio di tronchi e cortecce e rami
e case che schioccano
nei fermi scheletri di legno.
Silenzio di cani da guardia
dietro i cancelli e i muretti,
silenzio dei camini spenti:
presto sarà acceso il fuoco,
il Sole fugge verso la Val d’Aran
e non sarà più giorno.
L’inverno più caldo del mondo
mi abbraccia su questa terrazza.
Silenzio di partenze e arrivi
simultaneamente, silenzio.
Silenzio e malinconici arrivederci, silenzio sospeso
tra alberi, campanili e monti.
Questo chiassoso silenzio di valli
assopito fino al ritorno,
esisterà in altre vite
-o sarà solo abbandono-
come saranno le case
alla fine del tempo?
Silenzio in sala,
silenzio del giorno dopo la festa,
silenzio di vino, che è finito,
e di stoviglie già lavate
e chiuse nella credenza di noce.
Silenzio d’après-midi
Cadenzato dalla cloche
Di una chiesa di Saint-Jacques
silenzio di conchiglie blu,
un moto ondoso che mi riporta al mare,
verso Compostela.
Troppo ricco il cuore
Di parole che non osiamo accostare, ed è silenzio.
ACCETTO IL REGOLAMENTO – sez a
Molto bello il giustapporsi apparentemente disordinato di “cose” piccole e grandi, personali e collettive.
E anche la mancanza di retorica mi è piaciuta. Grazie di cuore Milena!
Accetto il regolamento sezione B
GALLERIE
Eternità è una parola molto lunga,
specialmente verso la fine. (Woody Allen)
BUIO.
Silenzio.
Poi un rumore assordante. Fumo.
Stridio metallico di rotaie. Dal tunnel nasce, sbuffando, una locomotiva nera, nera come il carbone che, bruciando nella caldaia, sprigiona la forza necessaria a spingere gli stantuffi che permettono al convoglio di divorare chilometri e inghiottire valli .
Lo scompartimento è composto da quattro poltroncine.
Occupate da altrettante persone. C’è la donna, sì, la signorina con la borsetta rossa ed i capelli neri.
Poi il vecchio con la barba, bianca. Sembra un saggio nonno. Poi c’è l’uomo con gli occhiali, intento a scrutare le notizie del quotidiano che tiene in mano. Sprofondato in quelle notizie.
E poi c’è lui, il giovane.
Si sono presentati all’inizio del viaggio: la conoscenza, così come la confidenza, è poca.
Rompe il ghiaccio l’anziano signore dalla fluente barba:
“Ho visto, recentemente, un bellissimo logo. Sapete, prima della pensione io mi occupavo di pubblicità”
“Che tipo di logo?” chiede l’uomo con gli occhiali alzando, incuriosito, lo sguardo dal giornale.
“Beh.. era fatto come un otto coricato, sapete … il simbolo dell’infinito. Ma al centro, dove si toccano i due occhielli, aveva un piccolo cerchio, era come uno strano nastro di Moebius intrecciato due volte. Guardate, così!”
E, tolte dalle tasche un pezzo di carta ed una penna, traccia un’immagine.
“Bello!!” dice la donna “sembra un insetto che vola, o una farfalla, con due ali. O forse un’elica. Sì, un’elica”
“Il cerchio, azzurro, secondo me vuole rappresentare il pianeta Terra, la vita” spiega il vecchio.
“Dice?”
“Sì. Praticamente simboleggia la vita, un tempuscolo infinitesimo, un atomo di tempo che si dipana tra un oceano temporale infinito prima ed uno dopo. La Terra esiste da 5 miliardi di anni e tra altri 5 non esisterà più. Prima e dopo si estende l’eternità. Così è anche l’esistenza umana, un piccolo pertugio aperto in un muro dall’estensione infinita, una finestra da cui possiamo, per un attimo, gettare uno sguardo, magari distratto, sulle cose del mondo, belle e brutte. Forse ha ragione anche Lei, signorina. Forse simboleggia anche un’elica, la doppia elica del nostro DNA, l’elica della vita.
Il cerchio azzurro è messo lì, nel centro del simbolo dell’infinito. Così come Dei sconosciuti ed onnipotenti ci hanno incastonato nel bel mezzo del Creato, chissà perché!?”
“Ha ragione” interviene lui, il giovane “la nostra esistenza esce dal buio, da un nulla infinitamente lungo, si agita poi per un pugno di lustri o decenni e dopo….”
“… ed è subito sera. Come dice il poeta” conclude il vecchio.
“Già. Entriamo in un altro buio, infinito. Come tra due gallerie; una galleria senza fine prima, una senza fine dopo. E noi, che in mezzo tra l’una e l’altra guardiamo un po’ a destra e a sinistra come è fatto il Mondo, e vorremmo capirlo un po’ meglio”
“Sa che una volta” dice il signore con gli occhiali “ho avuto la consapevolezza, che mi ha colpito come un pugno allo stomaco, che dopo morto non mi sveglierò più, per sempre! Ero sul letto, mi sono seduto di soprassalto, dal terrore!”
“Non potremmo parlare d’altro? Quasi quasi sto male” supplica la signorina dalla borsetta rossa.
“Eppure voi donne dovreste avere forse un altro rapporto con la morte, visto che donate la vita” commenta lui, il giovane.
Che, qualche secondo dopo, abbassa il finestrino per guardar fuori.
“Toh, un’altra galleria, tra poco. D’altronde siamo in montagna”
“Ah, sì?” Anche il signore con gli occhiali dà una fugace occhiata fuori, dicendo poi “ma io, veramente, non vedo nessuna galleria, assolutamente. Solo cime innevate in lontananza, e un lago”.
Ma il giovane insiste: “Ma come!? E’ lì, non la vede? Sarà sì e no a mezzo chilometro di distanza”.
E’ quasi risentito. E quasi bisticciano, i due. Allora anche l’uomo con la barba si alza e guarda fuori.
“No” è il verdetto “Nessuna galleria, nessun tunnel. E’ Lei che sbaglia, giovanotto. E, le assicuro, sono molto dispiaciuto per Lei, rattristato. Condoglianze”
“Ma che sta dicendo? Non mi è mica morto nessun parente. E nessun amico”
“Ma come, mio caro amico, non lo sa? Non lo sa che se una persona scorge una galleria inesistente, mentre viaggia in treno, significa che gli resta da vivere solo il tempo impiegato dal convoglio per raggiungere l’entrata del tunnel? Quando il nostro vagone entrerà nell’apertura che non esiste, ma che tuttavia lei vede, lei morirà. Sono desolato, ma le resta solo una manciata di secondi”
“Coraggio, coraggio amico mio, che la vita è un passaggio” cerca di consolarlo l’uomo dagli occhiali.
“Tutti, prima o poi, facciamo quella fine lì” aggiunge la signorina dai capelli neri.
“La vita è come un viaggio in treno. Quando nasciamo e saliamo sul treno, incontriamo persone che crediamo che ci accompagneranno durante tutto il viaggio: i nostri genitori. Purtroppo la verità è un’altra: loro scendono in una stazione e ci lasciano senza il loro amore e affetto” sentenzia il vecchio.
“Qualcuno, quando scende, lascia una nostalgia perenne…” aggiunge ancora la donna.
“Qualcun altro sale e riscende subito, e lo abbiamo a mala pena notato…”
Lui è immobile, con la paura dipinta sul viso.
“Ma io sto bene, mi sento benissimo!”
“Non si può mai sapere, amico mio. Un infarto improvviso, un aneurisma. Quanti se ne sono andati in questo modo! Chi può sapere l’ora della propria morte?”
Il treno, rapido, sempre più rapido, o almeno così sembra al giovanotto, si avvicina inesorabile al buco nero, alla scura apertura nella montagna, che ai suoi occhi si ingrandisce sempre più inghiottendo il resto del panorama, quel panorama pieno di luce, di sole, di neve bianca, di vita.
“La prenda con filosofia”
Altre frasi di circostanza: “E’ destino, purtroppo a lei è toccato da giovane”
Lui è sempre immobile, per lo spavento. Ma che stanno dicendo? In quale incubo è capitato? Vorrebbe scaraventarli tutti fuori: tutti e tre. L’anziano signore seduto di fronte a lui, il tizio con quei ridicoli occhiali, e la giovane donna, borsetta rossa compresa!
Pochi secondi, qualche secondo ancora ….. No! Non è possibile! No! No! No!!
Stridii metallici sulle rotaie. Il nero locomotore sta per confondersi con il colore, lo stesso, del tunnel. I pistoni premono e spingono sulle ruote.
Un fischio acutissimo, poi silenzio.
Fumo.
BUIO.
Inquietante.
Accetto il regolamento, Sezione A.
Titolo: Promesse
I non-detti volati
via come la cenere
di sigarette accese
e occhi profondi
che sembrano non
chiudersi mai
Un bacio che
Pugnala
È la poesia della volta scorsa, fai benissimo a riproporla (se non arriva almeno in finale mi inca…)
SEZ. A
(Antonella Chiego)
*Accetto il regolamento*
DANZA D’AMORE
Danza…
Con il sole negli occhi
Con il mare tra i capelli
Con il vento
che ti infiamma il corpo,
Tu danza…
Non smettere mai
di sentire suonare
la Musica della vita…
Quella che echeggia solo per te
E che ti trascina in alto
Fino a toccare il cielo.
Bagaglio unico, sez, B. Accetto il regolamento
E così partì. Nella notte. Sola con la sua valigia. Verso destinazione sconosciuta. “Così è partire” disse. Guardò fuori dal treno. Gocce di pioggia rigavano il finestrino, alcune tornavano indietro, creavano nodi improbabili, pronti a disfarsi al minimo soffio di vento. La luce nei vagoni che puzzavano di velluto rancido era un magro conforto sulle sue ossa tenute per non cedere, nel cappotto nero che la vestiva come un accappatoio. La pioggia l’aveva rovinato. Troppe piogge. Le era restato solo mantenersi il cappello sulla testa. E andare avanti, donna e bambina. Più bambina, che donna.
“Posso?”.
Un giovane profumato, con un cappotto blu e una valigetta grigia le si sedette di fronte, facendo di tutto per attirare l’attenzione.
“Piove eh!”.
“Già” gli rispose.
Sapeva di fumo, ma le piaceva. Il taglio all’indietro, coi capelli un po’ lunghi, metteva in risalto il bell’incarnato. Gli occhi erano verdi, le ciglia curate, una barba sottile metteva in mostra il bel viso.
“Va a Roma? Io sono un attore e…”.
Si udii il fischio del treno. La notte si mosse in esso.
“Cos’è che rende Roma tanto bella?” disse lei, d’un fiato.
“ Non so. Forse è una città bella, perchè non si aspetta niente”.
Lui le piantò gli occhi dentro.
Gli piaceva. Decisamente.
“ Per questo è la città degli artisti. E dei samurai”
Lei gli lanciò un’occhiata interrogativa. Cambiò di nuovo la posizione delle gambe.
“ Il samurai vive nell’attimo. Lì è la sua vittoria”
Ancora silenzio.
“La sua vittoria sulla vita e sulla morte”.
Le luci si spensero. La gamba dell’uomo toccò il suo ginocchio. Si spinse più dentro. Era un sogno. Lei non sapeva dove stava andando. Lei e l’attore. E fu nel buio, nell’odore di uomo che le stava accanto che la vide, Nostra Signora Solitudine. Stava disegnando a carboncino. Ed era felice. E quello che disegnava non significava assolutamente niente. Per questo era bello. Il suo disegno non si aspettava niente. E lei era un legno non levigato. Poteva essere Pinocchio. O meno di un burattino. Poteva essere l’uomo che aveva di fronte, che la prese lì e nessuno può mai sapere quale magia incastrò i loro corpi in quell’amplesso incredibile.
Tornò la notte. E per la prima volta lei ne udì la luce. E in essa mille voci. Il regno degli spiriti si riversava, come una marea, nel suo cuore. Si poteva impazzire, con tanta gioia nel cuore!
Non si salutarono mai. Forse non si erano mai incontrati, quell’uomo e quella donna. Solo lei disse al capostazione, guardandolo negli occhi, una volta scesa a Termini:
“Sa perchè Roma è così bella?”.
E quella domanda divenne il suo unico bagaglio.
Mendicanti sez. A, poesia
I mendicanti non hanno fretta;
non hanno nessun posto dove andare,
perchè non c’è nessun posto
dove andare.
I mendicanti conservano
nelle braccia penzoloni
come pesanti remi
tutte le febbri e tutta la fame
che squarcia il ventre del mondo.
Per questo sono pesanti
e si muovono goffi
con la loro scatola di carne e d’ossa.
Vi portano tutti i Cristi del mondo,
fuggiti dalle chiese
e dall’ordine ipocrita
delle disumane città.
Complimenti, sia per il racconto che per la poesia.
Mi intrometto ancora: già due racconti ambientati su un treno. Interessante.
Accetto il regolamento, Sezione A.
Titolo: Il Soffio
Il Soffio eterno dell essere ti spinge oltre il tuo stato.
Materia solo materia …
Riecheggiano parole lontane.. pensieri futuri, il cuore porta consapevolezza nascosta nelle tue vene decifrata solo dal sibilo interiore nascosto e trovato dall essenza del tempo.
Baluardo di moltitudine di sentimenti eterni in condivisione patente .
O Lacrima di Cristo , bagna il mio viso per placare l arsura del vero.
La potenza di DIO padre onnipotente impegni la mia forza per discernere il divenire.
Nessun attacco sia concesso , nessuna paura .
Poveri Cavalieri di Cristo marciano a 2 a 2 verso le porte del cielo per farvi ritorno e assaporare la fonte della quiete tanto bramata e tanto voluta nel percorso terrestre.
Fonte non concessa per accompagnare solo anime bisognose di redenzione.
La morte dentro
Strappami il cuore e gettalo via.
Il dolore mi uccide.
Il cuore ha cessato di battere.
Non sento più niente
Troppo dolore, parole non dette, parole non ascoltate.
Uno strazio, una valle di lacrime.
Lo chiamavi amore, ma tu non sai cosa e’.
Mi aspettavo che mi tenessi per mano, che mi guidassi verso la luce.
Mi sono illusa.
Mi ritrovo sola, al buio, con il mio immenso dolore.
E la certezza che non sono mai stata amata.
accetto il regolamento, sez. a
Sez A.
Accetto il regolamento
Quando il dolore è trucido
Come vorrei poter volare
con la medesima capacità di sognare
quando il dolore è trucido,
la sofferenza è lucida
mentre insegna a fermarsi
per ascoltare occhi
bisognosi d’amore.
Accetto il regolamento, Sezione A.
MEDITERRANEO
Lungo le coste color dell’oro,
tra bergamotti e cedri
tracce di viaggiatori erranti,
rincorrono leggende e miti
senza tempo,
gitani in un mondo sconosciuto.
In mezzo alla tempesta,
pezzi di legno,
danzano tra le maree.
Sono i resti dei barconi
agitati da acque impetuose,
tra corpi che non hanno nome
e volti che raccontano storie.
Sono le tratte percorse
da gente disperata,
anime innocenti,
come opere d’arte
trafugate come merci.
Li vedi fluttuare inermi,
tra lunghe estati e gelidi inverni,
in attesa di essere salvati,
affamati, stremati,
sono i nuovi emigrati.
Spesso senza documenti,
sognano nuovi paradisi terrestri
li vedi tendere le mani verso i salvagenti.
Morti viventi, sopra pozzanghere di illusioni,
sogni spezzati, in attesa di chi ti porti sulla riva un fiore.
E fai finta di niente, sordo e cieco difronte alla morte,
da quel dolore che lacera il cuore,
quella pelle trema e gli occhi cercano un bagliore.
Ma all’improvviso un abbraccio ti stringe,
un viso sorride, cela nuove sfide,
una forza motrice ridona la vita
ad un fiore reciso, senza preavviso.
Accetto il regolamento, sezione B
KILLING SEEDS
La sua immagine si rifletteva sulla grande vetrata che dava sulla vista rilassante della collina al crepuscolo. Il rosso del tramonto stava per essere inghiottito dalla notte e il colore del cielo terso spegneva il carminio facendolo virare dal pervinca al magenta scuro. Il suo requiem era una musica new age rilassante. Il riflesso illuminato invece, dalla lampada dalle linee pulite di un famoso designer, faceva vedere i suoi contorni, quasi in dissolvenza, seduto su una poltrona comoda, con addosso l’accappatoio ed un bicchiere di tisana in mano.
Quello era sicuramente l’ultimo posto dove potevano cercarlo.
Alle sue spalle sempre sul riflesso, si intravedevano i contorni di altre persone che si rilassavano distese su dei lettini in direzione della grande vetrata.
Tutti in accapatoio. D’altro canto il centro benessere delle terme, sfarzoso e moderno, raccoglieva le persone più abbienti del territorio, garantendo anonimato e relax.
Aveva sempre pensato alla stranezza che avvolgeva quel luogo, dove tutte le persone, una volta entrate e indossato l’accappatoio, indossavano anche una maschera, uno sguardo compíto, un fare calmo, tale da sottolineare il desiderio di non essere avvicinati da nessuno, rispettando la ricerca di solitudine di tutti gli altri clienti. Un limbo in cui ognuno staccava la spina dalla realtà e si ricaricava. Immaginava le persone che gli stavano intorno, nella loro vita quotidiana, non più compassati, ma magari brillanti avvocati, manager dalla battuta pronta e dal cipiglio di comando. Anche lui era solamente una forma, appoggiata a quella poltrona con uno sguardo impassibile che non lasciava trasparire la minima emozione.
Il suo sguardo spostava il focus dalla collina e dal suo silenzio, a ritroso, fino ad entrare nella stanza appoggiato alla sua immagine semitrasparente.
Quel movimento e accomodamento dell’occhio gli serviva anche sul lavoro e allo stesso tempo gli permetteva di guardarsi le spalle, nella direzione del riflesso della porta d’entrata, da dove potevano venire i guai.
Nelle ultime settantadue ore aveva lasciato il segno, un segno indelebile che lo avrebbe seguito fino alla morte. La sua speranza era che questo segno lo accompagnasse a lungo e che non lo trovassero per fargliela pagare. Quanto avrebbe voluto che quel bicchiere di tisana in realtà fosse un bicchiere di cristallo al cui interno dei cubetti di ghiaccio tintinnavano immersi in un single Malt yamazaki 55. Era riuscito a berlo un paio di volte nella sua vita e ne era rimasto stupefatto, forse dopo tutto quel trambusto, se lo sarebbe proprio meritato.
Nessuno lì intorno lo conosceva, nessuno sapeva che come lavoro uccideva le persone. In quel centro benessere sotto le colline che ormai erano illuminate dai faretti del parco e dalle luci della piscina esterna riscaldata, era un uomo anonimo, nessuno era interessato al suo passato e nemmeno al suo futuro.
Appena prima, mentre prendeva parte al rito dell’ aufguss, nella sauna, insieme ad un’altra ventina di persone anonime come lui, immobilizzate dal caldo che non li faceva muovere minimamente per la paura di sciogliersi all’istante e avvolti dalla musica rilassante su cui il meister si muoveva sventolandoli ad uno ad uno con quell’aria incandescente e secca arricchita da olii essenziali profumatissimi, aveva pensato a quanto fosse difficile uccidere un uomo.
La prima volta che lo aveva fatto era giovane, non aveva ancora compiuto vent’anni e aveva dovuto farlo con un coltello. Sparare era semplice, con quel coltello era stato tutto difficilissimo invece. Sentirlo entrare nella carne, nella gabbia toracica della vittima, rompendole le costole e sententire il rumore delle ossa frantumarsi, era stata la cosa più forte che avesse mai provato in precedenza. Poi tutto era diventato un’ abitudine, era diventato il migliore, il più pagato, il più affidabile. Nessuno lo conosceva, nessuno sapeva che faccia avesse. In tutti quegli anni era rimasto un’ombra, un anonimo avventore da centro benessere.
Lo avevano contattato, con il solito modo, un bigliettino sotto un sasso a Hide park a Londra, il quindicesimo giorno di un mese qualunque.
Si era sempre considerato un netturbino, uno scavenger come dicevano gli anglosassoni. Il male del mondo lo assoldava per far fuori l’altro male del mondo, vista così sembrava proprio che nel suo ragionamento lui rappresentasse quasi il super eroe, in ogni caso eliminava i cattivi, che fossero di una parte o dell’altra. Poche volte si era chiesto se quelli che uccideva fossero davvero tutti cattivi e le poche volte che lo aveva fatto aveva dovuto ubriacarsi con il whisky più costoso che riusciva a trovare nelle vicinanze. Single malt ovviamente.
Il foglio sotto il sasso diceva “zar” e al suo interno c’era una foto del presidente russo Putin.
Quando l’aveva letto aveva sorriso, non voleva nemmeno immaginare chi potesse desiderare di uccidere il presidente russo, con la guerra in ucraina avrebbe potuto essere tutto il mondo occidentale unito, eccetto i venditori di armi che godevano di ottima salute.
Nella cassetta di sicurezza della Nat West trovò tutto ciò che gli serviva, passaporti di tutte le nazionalità con più alias e una cifra molto considerevole, proporzionata alla difficoltà dell’impresa, anticipo del cinquanta per cento e saldo a lavoro concluso, come sempre.
Ripercorse velocemente tutti gli step di preparazione per quel lavoro complesso ma, di ciò che era stato, ricordava solo i suoi pensieri e le sue emozioni. Pensò a quanto facile sarebbe stato risolvere il problema della guerra. Due pallottole, ben esplose, da una mano ferma, accurata, delicata come se accarezzasse l’aria che separava la canna del fucile dalla fronte dei due presidenti, lo zar russo Putin e il falso democratico Biden. Il mondo intero si era stufato di quelle puttanate, dello show off virtuale di muscoli, delle minacce plateali del ricorso alle armi nucleari, di omicidi esplicitamente di stato per eliminare gli infedeli al regime, delle strategie occidentali per provocare il grande orso russo e delle zampate stesse dell’orso.
Avevano scelto la sua mano delicata, la sua carezza di morte. Era davvero così semplice? Eliminare due uomini? Due semplici simboli? E tutte le altre teste di legno che avrebbero preso il loro posto successivamente? Per mettere a posto tutto ci si sarebbe avvicinati alle stragi di un film di Quentin Tarantino.
La sua commissione però riguardava solo uno dei due, il mondo occidentale si auto proclamava padrone del mondo.
Si riguardò riflesso nel vetro, ancora in accappatoio, capelli umidi, pelle ammorbidita dal bagno turco e la faccia di tutti e di nessuno, la faccia da stabilimento termale.
Anche a Mosca nessuno l’aveva notato, aveva la faccia dell’uomo qualunque, aveva preso la stanza d’albergo esattamente da dove sapeva avrebbe potuto sparare agevolmente, gli avevano procurato un Barret M95, la sua arma preferita. I suoi committenti glie lo avevano nascosto dietro al cassonetto dell’hotel, un caricatore completo, più che sufficiente.
Si ricordò che mentre oliava il suo strumento, lo immaginava come un potente enorme bisturi, capace di incidere e tagliare il danno di un corpo, la massa di replicazione cellulare impazzita di un’organo.
E poi mentre beveva l’ultimo sorso di tisana, ricordò il momento esatto in cui tutto era accaduto, l’osservazione del momento propizio, il focus del suo occhio che retrocedeva fino al mirino di precisione per poi catapultarsi a più di milleduecento metri, sulla testa dai capelli d’argento dello zar, sulla sua scriminatura che vedeva nitidamente nel mirino ottico telescopico. Rivisse il suo rallentamento del battito, il suo sincronizzarsi con il respiro, fino all’apnea e al movimento dell’indice che dopo un piccolissimo ritardo fece esplodere quella testa, sconquassando con un grosso proiettile da 12,7 millimetri la scriminatura alta ed a sinistra sull’osso parietale.
Tutto secondo i piani, aveva nascosto nuovamente il fucile dove lo aveva trovato, aveva cancellato velocemente ogni traccia anche se nessuno lo conosceva e se ne era andato come da copione. L’orso era stato abbattuto, ma proprio mentre in aeroporto attendeva che la situazione si calmasse e partisse il primo volo per la Turchia qualcuno lo aveva seguito in bagno e lui come all’inizio della sua carriera aveva dovuto usare il coltello. Girandolo nella carne il suo esecutore gli aveva rivelato che il suo mandante era “The president” e che il presidente non voleva testimoni. Caro democratico occidente, “The other side of the same Coin“ gli voleva dare il benservito. Ventiquattro ore dopo anche la colomba Biden aveva un terribile mal di testa da calibro 12,7 millimetri.
Settantadue ore, tre giorni interi da quando aveva esploso il primo colpo a quando anche la colomba bianca si era macchiata di rosso.
Entrambi si erano meritati la loro fine, la sua carezza infallibile li aveva accompagnati docilmente verso la storia e chi doveva terminarlo lo aveva riconosciuto solamente a causa del bording pass che aveva utilizzato, l’incertezza gli aveva lasciato il tempo di difendersi.
Era un fantasma, sufficientemente ricco e sufficientemente anonimo.
Si alzò dalla poltrona, quella tisana aveva un gusto strano. Pensò che tutti ormai sapevano che i gusti erano solamente cinque: dolce, salato, acido, amaro ed umami. Mentre scandiva i cinque gusti uno ad uno gli cedettero le gambe, riusciva a vedere solo il bicchiere riverso sul pavimento di legno dopo aver sbattuto la testa. Oltre al bicchiere la collina leggermente illuminata dalla luna era un’immagine meravigliosa per morire.
Fosse almeno stato un single malt.
LA MADONNINA CHE PREGA
Vidi una Madonnina pregare
con le mani giunte per orare;
lei Santissima che prega Dio
eppur essendo la Santa Madre.
Questa è la vera umiltà cristiana
e la Fede più buona ed umana:
sia fatta la volontà di Dio
disse all’Angelo Nunziante;
Dio è l’amore universale,
è la vita stessa di ognuno,
che trasuda dal duro lavoro,
che da la viva luce ai figli,
che vive in ogni nostro giorno
ed è anche la voce di colui
che disperato grida nel deserto,
è Il Desiderio di pregare
che nasce dal fondo del cuore
con una speranza che non muore,
per una Fede che ama Gesù
e il mondo fatto dal Padre.
Accetto il regolamento – sezione A (poesia).
COME POLLI IN TRAPPOLA
Mi ritrovai come un pollo in gabbia e guardavo lo spettacolo dal palco del teatro. Si, un pollo e guardavo attraverso le sbarre della mia nuova, strettissima prigione di legno.
Stavo stretto come nelle stie dei pollai moderni e mi accorsi che anche il pubblico sugli altri palchi non erano niente altro che polli in gabbia e anche giù, nella platea e alla fine di ogni recita muovevano tutti le ali pennute come per applaudire fragorosamente e gridando co, co coooo, co.
Qualcuno faceva anche chicchirichì e altri qua, qua, qua. Eravamo in trappola, alcuni presi e ingabbiati, altri per scelta per mangiare solo un poco meglio, perché liberi avevano la grande paura avita di non potere stare meglio e si imprigionavano da soli e tutti i volontari non volevano evadere dalle gabbie perenni e la libertà la vedevano come un’utopia, o una favola per pulcini.
I carcerati costretti avrebbero voluto evadere per la libertà, ma non potevano e i volontari li canzonavano dicendo che loro erano preferiti e meglio trattati, anche se in verità stavano soltanto e non sempre un poco meglio di noi prigionieri del destino voluto chissà da chi fin dai tempi antichi e non potevamo ribellarci.
Gli attori e ballerini sul palco erano pulcini e brutti anatroccoli di uno spettacolo da dilettanti, ma forse sarebbero divenuti bravi e bellissimi cigni, o pavoni se avessero fatto successo con le loro recite da allievi di scuola di recitazione. Ognuno aveva la sua parte da recitare e da vivere.
Mi sentivo come chiuso in gabbia e stavo male, ma accorgendomi che anche il resto del pubblico era chiuso nelle gabbie, o giù nel cortile sedeva a battere le piumate ali, stavo meglio e non mi sentivo più una pecora nera, ma una normale pecora del gregge, però, più che altro e pur sempre un povero pollo un po’ spiumato per il continuo battere delle ali bianche o colorite e dalla strettezza dalla gabbia in cui stavo sempre più stretto mano a mano che ingrassavo per arrivare alla mia fine terrena.
Eravamo tutti molto stretti nelle stie dei palchetti antichi del teatro del 1.700 e le galline sotto, nel cortile della platea invece stavano più comode e prima dello spettacolo alcune camminavano per la platea-cortile-aia.
Ero dopotutto triste, perché mi commiseravo e commiseravo anche i miei simili, ridotti a poveri polli che la natura, o gli altri simili possono a volte maltrattare, richiudere in prigioni-gabbie, imbrogliare e anche, perché no, ucciderci se a qualche furbo e fortunato falco, o aquila più forte, venisse l’idea di farlo e mangiarci per pranzo, o per cena.
Proprio come miseri polli che vivono una vita ingabbiata e con pochissime soddisfazioni, in attesa di dormire la notte per non pensare al triste destino e sperando che la nostra fine sia ancora molto lontana, ogni tanto qualcuno di noi ci lasciava e il capo comico, come Mangiafoco, sceglieva i polli di turno e noi non li avremmo più rivisti, ma poi altri polletti giovani entravano a riempire i vuoti lasciati dai condannati e la fine era a me sempre più vicina ad ogni giorno che passavo nella mia gabbia dorata con fregi barocchi del diciassettesimo secolo, come se da allora il tempo non fosse mai passato e la nostra umile condizione di polli condannati era si migliorata, ma in sostanza non potevamo avere la nostra vera libertà di sceglierci la vita da fare e i desideri erano poco soddisfatti, anche se ci nutrivano anche troppo per farci ingrassare ed essere poi serviti spiumati e cotti sui piatti dei fortunati e mortali padroni, con contorni di patate e insalata.
Questa è la vita normale di tanta gente che non si chiede nemmeno il perché di tanta prigionia, di tanta tristezza e noia di vivere, nell’indifferenza di una vita scontata e di un destino che a volte migliora, ma che finisce sempre, salvo pochi divertimenti, come il cibo abbondante, con il dolore, le lacrime, la strettezza scomoda nelle gabbie piccole e numerate, la noia, la tristezza e la morte.
Ogni pollo aveva un numero e aspettavamo ingrassando di essere macellati e si mangiava tanto, si, si mangiava molto bene e ci divertivamo a volte a parlare tra noi, ma sapevamo di essere prigionieri dei più forti, o del destino che nessuno osava, o poteva cambiare e senza quasi nessuna speranza di vivere e bene fino alla lunga vecchiaia, eccetto alcuni fortunati, come invece avremmo tutti sempre voluto e aspirato.
Accento il regolamento – Seziona B (racconti).
Un libro senza titolo
Tra lui e la tesi si opponeva l’ultimo esame in metaletteratura.
La cattedra era stata assegnata quell’anno, ne era titolare Mario Alberto Hayez. Uno scrittore giovane, emigrato dal Sudamerica, accolto con magnanimità dalla capitale partenopea.
Francesco si era preparato con scrupolo, sebbene si trattasse dell’ultimo esame. Aveva indagato i testi classici alla ricerca di influenze e di interpolazioni dovute alla metaletteratura. Si era spinto perfino a leggere le opere scritte dal prof, come lui aveva ribattezzato la stella nascente che lo stava interrogando.
A suo giudizio costui avrebbe meritato una scrivania in qualche istituto liceale. Quando faceva i dovuti paragoni, arrossiva pensando ai tanti misconosciuti insegnanti che si guadagnavano il magro stipendio con il sudore della fronte.
Il suo cono di visuale era viziato dall’asimmetria di posizione, la sua rappresentazione era offuscata da un sano sentimento d’ invidia.
La vita di Francesco sembrava uscita dalle pagine di Martin Eden: non impiegava il tempo nei pub o nelle birrerie, non metteva a disposizione la manodopera recandosi al porto o facendosi vittima di improvvisati caporali, ma i contratti per le consegne a domicilio di piatti caldi a stento gli consentivano di mettere insieme il pranzo con la cena. Doveva integrare con prestazioni a lavoro nero. Si impegnava, come lavapiatti nel locale di un amico ristoratore. Non riceveva un compenso fisso, ma contava su un tavolo che gli veniva riservato vicino ai fumi e al vociferare che giungeva dalla cucina. Assaggiando i piatti della tradizione si sostentava e fermava i morsi della fame.
Francesco aveva speso gli ultimi miserrimi risparmi, facendo lavare e stirare la camicia bianca di popelin che indossava nelle rare occasioni mondane alle quali lo obbligava la frequentazione universitaria.
Mario Alberto Hayez era un cultore della raffinatezza. Con la sua civetteria dettava una via maestra che si andava affermando dalle pagine letterarie allo stile di vita.
Era noto per condurre lui stesso l’esame degli studenti. Spietato e spesso provocatore, le sue domande spaziavano dai più astrusi temi alle problematiche di cronaca e di attualità, con poco rispetto del programma universitario. Ai colleghi che avevano osato richiamarlo al senso di realtà, rispondeva con sufficienza, talvolta con tracotanza. Rivendicava alla metaletteratura una superiorità patente con la conseguenza di un libero arbitrio auto fondante. I suoi voti, se si passava l’esame (i fortunati sfioravano l’insignificanza statistica) non superavano i ventiquattro trentesimi.
La tesi di Francesco verteva su Moravia con un capitolo dedicato alla morte del romanzo, profetizzata in alcuni saggi dal famoso autore. Come contro relatore era stato selezionato il titolare della cattedra di metaletteratura.
Queste circostanze lo avevano portato a sedersi come esaminando di fronte a Mario Alberto Hayez.
Francesco si era ritenuto fortunato, il momento fatale dell’ultima domanda si andava avvicinando, il prof lo importunava da più di un’ora.
Gli era sembrato che il cattedratico fosse rimasto colpito dalla padronanza con cui argomentava le sue riflessioni, dalla precisione testuale con cui riportava i passi che citava a sostegno dei suoi ragionamenti. Era successo con Le rane di Aristofane, la commedia greca in cui si affrontavano problemi di letteratura.
Giunto l’interrogativo sugli animali dell’universo meta letterario, sebbene si trattasse di un tema collaterale, Francesco era andato dritto allo scopo. Il suo riferimento alle gru non poteva essere più azzeccato. Aveva dimostrato di conoscere il simbolismo che gli antichi collegavano all’invenzione dell’alfabeto e aveva esemplificato, insistendo sui passi danteschi de La Divina Commedia dedicati alle anime gru.
Parlando di un autore che secondo lui impersonava il concetto di metaletteratura, Francesco si era soffermato sul personaggio di Kilgore Trout, lo scrittore fallito sorto dalla penna di Kurt Vonnegut, comparso nel romanzo Dio la benedica, Mr. Rosewater e in altri successivi.
Sebbene la logica gli rimandasse queste confortanti circostanze, lo studente non era affatto tranquillo: gli sembrava che l’esame stesse andando troppo bene e che il prof fosse stato urtato dal non riuscire a metterlo in difficoltà.
Venne l’ultima domanda e fu un fulmine a ciel sereno.
Mario Alberto Hayez gli chiedeva, serio, di parlargli di un libro che lui, Francesco Guarnieri, avesse presentato a una casa editrice per la pubblicazione ed effettivamente pubblicato.
A parte il primo sgomento, il giovane laureando non si era fatto buggerare e altrettanto serio, asseriva di avere presentato un proprio romanzo a un editore, proprio lo stesso editore con cui il prof aveva pubblicato Gli ultimi giorni di Alessandro Dumas, aggiungendo con un omaggio tardivo alla realtà dei fatti che la storia non aveva avuto un bel finale
Il prof senza scomporsi, con aria di sufficienza, guardando dritto l’esaminando negli occhi come chi pensa di assestare il colpo definitivo, gli aveva intimato:
«Mi racconti, Francesco Guarnieri.»
Aveva scorso il libretto universitario scovandovi le generalità dello studente:
«Sono interessato a questa sua esperienza!»
Francesco, senza imbarazzo, con poche parole dedicate al libro e molte alle incomprensioni sorte con l’editore, aveva dichiarato che il suo romanzo, Il libro senza titolo, non era stato stampato né editato, a causa di quel difetto, un titolo che l’editore riteneva impresentabile.
Mario Alberto Hayez aveva perso un po’ di tempo a recitare la commedia, facendosi spiegare come un autore alla sua opera prima pretendesse di pubblicare un libro senza titolo, facendo finta di non capire che il libro fosse intitolato proprio così.
In ultimo, cedendo alla provocazione dello studente, il prof:
«Dunque lei, Francesco Guarnieri, vorrebbe farmi credere che un giovincello alle prime armi ha tenuto testa all’editore piccandosi a mantenere il titolo da lui scelto.»
Il ragazzo ridente, con voce certa:
«A dire il vero, professore, avevo in tasca un biglietto della lotteria e se tutto fosse andato bene, assecondando la mia immaginazione, avrei avuto per un po’ di tempo la possibilità di mettere insieme il pranzo con la cena senza votarmi ai santi in Paradiso.»
La risposta aveva una sua carineria, pur con quell’accento fetente che caratterizza i sogni del popolino.
Sarà stato per quello che Mario Alberto, accontentandosi di quanto ricevuto, vergava
un ventidue sul libretto: Francesco avrebbe avuto accesso alla sua laurea.
Accetto il regolamento, sezione B
VISITA AI GENITORI
Lo diresti?
Lo diresti di essere appartenuto
a strade slampionate
calzato da appuntiti
stivaletti ocra?
Indossato da ridenti camiciole,
caparbie salopettes
da giacche a vento double-face
lo diresti ‘sei tu’
in questa stanza senza specchi?
Lodovico Scapin Sezione A Accetto il regolamento
A marzo sono nata
Ho sognato una vita arcobaleno
con i suoi colori accesi e brillanti,
così che il sole potesse inondare
gli anfratti oscuri del mio cuore.
La vita rinasce a primavera,
la sua forza donando ad ogni stelo,
per sostener con coraggio guerriero
la corolla dei suoi petali in fiore.
Sarà per questo che a marzo sono nata,
portando sorrisi e pianti improvvisi,
perciò accolgo le mie oscure giornate
con la certezza di un nuovo vigore.
Loriana Prasciolu
Accetto il regolamento
Sezione A ( poesia)
A BEATRICE HASTINGS
Coraggiosa disobbedienza
Bisturi dalla scottante impugnatura
Strumento unico per aprire varco di libertà
al femmineo corpo.
Nel tempo terreno
Ti sei bruciata le vene dei polsi
La tua penna lanciafiamme
ha marchiato la carta a fuoco.
Creatura infernale
Hai bestemmiato sulla maternità
Contro di te sono scesi gli angeli
del focolare a cui volevi togliere l’aureola.
Solo una modifica al capitolo donna del copione redatto
senza consenso né possibilità di scelta.
Tempo acerbo serrava le menti.
Ti hanno vomitato addosso ributtanti rospi
Te li sei scrollati dal corpo con il soffio
potente della convinzione.
Tu ciliegia d’inverno
Nota dissonante del concerto.
Voce fuori dal coro.
Continui il tuo canto libero.
Al di là del lungo ponte che travalica la selva dell’ignoranza.
Distante dallo spazio tempo in cui sei immersa.
Lungo e tortuoso il percorso per raggiungerti.
Sola e stanca ti affidi infine
al gelido abbraccio di unica amica.
Serenella Menichetti, sez. a, accetto il regolamento
Contradicitur. È anche per “merito” della Hastings che la maternità da obbligatoria è diventata proibita, tabù, oscena.
Comunque una poesia molto bella!
LA RICAMATRICE DI PAROLE
Era rimasta, anche dopo che suo padre e sua madre erano mancati. Era rimasta in quel luogo singolare. Il suo luogo.
Ormai da quasi mezzo secolo, lo abitava.
Nonostante l’ingiunzione di sfratto. Tosca, continuava ad occupare la Torre.
Le avevano promesso un appartamento in centro. Sarebbe stata vicino ad altre persone.
– Non le pesa la solitudine?- chiese l’impiegata, guardando l’orologio.
Tosca, non rispose. Non poteva certo dire, di non essere sola, perché i piccioni e il vento le facevano compagnia. Non avrebbe compreso.
Non rispose neppure, quando le fu detto che avrebbe dovuto abbandonare la Torre.
I piccioni non la lasciavano. Alcuni si appollaiavano, sul tavolo vicino a lei.
Altri svolazzavano nella stanza, fermandosi sulla cima della credenza per guardarla dall’alto. Subito dopo, iniziavano il loro concerto.
L’amico vento, s’insinuava nelle piccole finestre, del piano alto. Irrompeva nella stanza, facendo vorticare tutto ciò che trovava.
Dal pavimento, la polvere, in movimento circolare, saliva in alto.
Quando vento e sole s’incontravano, le piccole particelle, diventavano oro.
Tosca, seduta sulla soglia, le guardava ballare.
Era a lui, che affidava i lavori appena terminati.
Il vento li sollevava, per accompagnarli all’esterno.
Essi, volteggiavano in aria, leggeri e lievi come farfalle.
Per ricadere sui davanzali delle finestre del paese. Per adagiarsi sull’erba dei prati. Sui rami degli alberi.
Erano fogli di quaderno rigati, ricamati da una grafia minuscola e fitta.
La penna di Tosca non conosceva soste, si muoveva sul foglio, in movimento ritmico. La ragazza, aveva iniziato ad usarla da piccola.
Quando la maggior parte delle bambine, imparava l’arte del ricamo, lei, rimaneva per giorni, nella stanza della Torre ad imbastire storie. Con grande stizza della mamma.
Per fortuna il padre la capiva.
– Se Tosca, preferisce l’ago, alla penna e la carta alla stoffa, vorrà dire che diverrà ricamatrice di parole.- Così disse babbo Furio alla mamma.
I piccoli messaggi sospinti dal vento, volavano in cielo insieme agli uccelli. Per posarsi delicatamente a terra.
Alcune volte, come piccoli aerei, atterravano sulle mani delle persone.
Le favole si posavano tra le dita dei bambini, che le afferravano, per leggerle la sera, prima di dormire. Le poesie d’amore: sul palmo caldo degli innamorati, che le appoggiavano sul cuore.
Quelle di speranza, accarezzavano dolcemente, il dorso della mano, degli uomini disperati, che per un attimo si rincuoravano.
Quel giorno, inspiegabilmente, i piccioni, si zittirono. Il vento si calmò. Qualcuno bussò alla porta della Torre.
I colpi forti e continui, fecero rabbrividire Tosca.
La donna, raccolse dal tavolo., tutti i fogli: Poesie e molte, molte favole.
Salì le strette scale, fino a trovarsi sul terrazzino.
Il vento le carezzò i capelli. Le tolse i lavori di mano, che sospinse nell’azzurro.
Solo dopo, si accorse che il suo corpo, volava con loro.
Serenella Menichetti, sez. b, accetto il regolamento
Molto delicato e struggente.
Profumi salmastri
Un attacco di risata e l’altra
luoghi di parole, sguardi
in un alone di luce,
gustate la verità
con rispettose dignità.
Ancora discenderò
con labbra che si arcuarono
per gustare il nuoto vivere.
Le finestre dell’abisso
si aprono in me,
ad ogni alba.
Spasmo di visioni
in un flemmatico trasporto
la mia realtà sorrideva alla vista.
Accetto il regolamento sez.A Fabio Masala
Accetto il regolamento sez A poesia
LA LASCIVIA DEL NIENTE
Io soffro di questa capacità umana di vivere di giochi di potere di fughe e di dolore anziché alimentarsi di bellezza. Soffro la solitudine di chi, credendo nella bellezza, inizia a vacillare continua a spalancare gli occhi da bambina su speranze di riconoscimenti -reciprocie affetti. Ma non voglio più prestare il fianco. Io soffro il dondolare di parole e di gesti – quali gesti, imitazione di vita – il dondolare spietato di una mano da un viso a un altrove fatto di silenzi e rifiuti. E le parole che scivolano lontane dal calore umano lontane dal colore di occhi che agognano solo occhi. Io ricordo – e mi attacco al ricordo come neonata al seno – ricordo presenza e mani ricordo voci che senza fughe pronunciavano il mio nome. Io ricordo la mia voce – senza fuggire chiamava un nome -. Io non voglio – non voglio e non posso- soffrire il ricordo né dondolare dall’amore al niente. non voglio scivolare nella lascivia del niente. non voglio spalancare gli occhi se non serve a vedere né giocare al potere – a chi soffre, a chi vince-. Io non voglio più prestare il fianco.
Il sogno della poeta.
Ho sognato gialle ginestre del poeta
turgide vulve d’estate stillanti linfa.
Ho sognato bocche di leone affamato
immergersi in carnose orchidee rosa
battesimo di passione in un mare santo
complici voci di vento e sabbia infuocata.
Ho sognato un sogno di mezza estate
fiori del male di notte sprigionano fragranza
di sessi mischiati e amaro miele
respiro la mano premuta sulla bocca
unico freno a urlato intenso mio piacere.
Viola del pensiero viola come gelosia
veleno nelle vene che ritorna al cuore.
Ho sognato vergini margherite di cicuta
amaro succo di morte che mette fine
ad un “m’ama non m’ama” di due donne
vinto da lei in partenza perché la prima.
Ho sognato mille papaveri rossi sul cuore
e crisantemi in un ventre negato alla vita
graffi di lava sfregiano l’anima impura
di femmina sterile madre tardiva.
Natura perfida ingrata e matrigna…
hai ingannato così questa tua figlia?
Chiudilo ora così ciò che hai scritto
“portalo a compimento” sussurra lui all’orecchio …
lei ascolta mette un punto è già nel vento.
Sezione A accetto il regolamento
“Vinto da lei in partenza perché la prima.” Manca la conclusione della frase.
Per il resto graffiante di dolore.
Vinto da lei in partenza perché [è sottinteso] la prima [delle due donne]
Rispondo alla risposta di Luana: ho riletto la poesia, ho capito. Grazie per l’attenzione e buona serata.
Sez. A
FELICITÀ
Felicità
si respira nella semplicità,
nel vapore
la sua caparbietà
riconquistando
a testa alta la realtà.
Facendo
elegantemente
l’elaborazione
del componente
esistente
ripristinando
il bit del cuore mancante.
MICHELA MININI
dichiarazione di accettazione del regolamento.
ALTEREGO DI PAROLE: Cuore
Tu che sussulti
contro lo sterno
e rimbalzi da sempre
così forte, indipendente
e selvaggio
nelle vene, l’emozione
perché ora
gravido d’impotenza
ti sento
morire dentro
in un petto di spine?
Cuore
se tu sei cardine
e bastione contro il male
non m’abbandonare
io non posso proteggerti
dalla verità del tempo presente
dagli agguati che conta la vita
Ma Cuore
ti prego, resisti
perché se sei scrigno
dell’amore profuso da gesti lontani
posso affrancarmi ancora
superarli, i drammi quotidiani
per imparare piano piano
a consolarti
oltre il dolore
quello atroce
degli altri
che più di tutto uccide
perché non puoi cambiarli
e non puoi salvarli
nemmeno se di nascosto
ancora parli
a quel Dio sconosciuto
che puntuale compare
nell’ora più nera
fatta di disperazione
e di speranza che impera.
Elisa Magnani
Sezione A
Accetto il regolamento
Domanda seria di qualcosa che non muoia, questa bella poesia. Avrei solo scritto indipendente al posto di indipendentemente.
Grazie Marco. In virtù del tuo consiglio prendo visione dell’errore di battitura, avevo scritto proprio “indipendente”, ma la scrittura automatica e la distrazione mi hanno fregata.
Elisa, non è un problema, il refuso sarà corretto :)
Sfumature primaverili
M’imbatto in sfumature
che adornano la primavera
e tu piccolo fiore sbocci precoce.
Mi inebria il tuo innocente profumo,
non voglio coglierti, seppur tentata,
ti concedo di divenir emblema di regalità.
M’allontano, ti seguo come un guardiano,
t’amo come chi non vuol soffocare il bello,
colma di devozione, fiorisco tra i tuoi petali.
Giuseppina Lauricella
Sezione A ACCETTO IL REGOLAMENTO
SONO UN POETA
Sono un poeta e scrivo di notte,
orfana l’anima di pace,
trascina la vita in catene.
Ignavo il mondo riposa,
come un vecchio cappotto scucito,
mordendo i sogni di pane raffermo,
succhiando speranza di povera gente.
Cala il sipario su ogni comparsa,
si ode lieve l’ incedere di piccoli attori,
tra spilli appuntiti e cocci di vetro.
Sono un poeta dal cuore di creta,
che cede alle crepe di tanto dolore,
di pianti randagi,
di mani che scavano nude,
zolle di giorno avariato.
Scrivo dei cuori e delle passioni,
delle follie e dei grandi amori.
Sono un poeta e un sognatore,
che crede, che spera,
che bacia il dolore e il suo ardore.
Andreina Moretti
Accetto il regolamento Sez A
Trabocca un po’ di tutto
dietro le porte chiuse
vestite di bianco…
la luce inventa le sue ombre
tra le cose andate
e in filigrana d’oro
si dirada pigra
nella pazienza degli spigoli
a rovistare negli angoli più bui
tra geometrie
lavorate dal tempo…
cosi, a volte, ha sembianze l’anima,
simile a rivoli d’acqua
tra vecchi sassi
dove sillaba appena la brezza
dove l’impudenza della luna
s’increspa
in quei lievi sussurri cristallini
dispersi poi
lungo i fianchi di una terra
piena dei suoi grandi silenzi…
mentre una brocca tra le mani
gioca con le ore
dei suoi assolati inverni.
Angie @ – sez. a, accetto il regolamento
MAESTRO DI SOGNI
(per Stefano Tacconi, leggendario portiere della società calcistica Juventus)
Nel mio rione, portiere
solo per passione.
Tu invece su ben altri palcoscenici,
conoscesti fortuna e gloria,
toccando il cielo con un guantone,
affrontando la vita come una duna,
con valore e convinzione.
Io mi ispiravo a te, con tuffi audaci,
su campi accidentati
in sfide coraggiose e vivaci.
Emularti era un modo come un altro
per vincere la paura,
per affrontare quel periodo della vita
chiamato adolescenza,
che fa parte dell’uomo,
che è la sua essenza.
(Rodolfo Lisi, accetto il regolamento, sezione A)
RESTARONO IN SILENZIO
Restarono in silenzio
a lungo, poi si strinsero
l’uno all’altra,
soltanto per respirarne
il profumo dei capelli.
(30 – 31 dicembre 2023)
SEZIONE A. POESIA
Formulo l’accettazione incondizionata del presente regolamento e l’autorizzazione al trattamento dei dati personali ai soli fini istituzionali (Gdpr 679/2016)
Grecalia
Ulisse navigò
Il salso mare adriatico,
il colto Jonio, l’irato Tirreno.
Lo perdemmo a Citera. Lo scorgemmo tra Cariddi e Scilla.
La onda schiumosa ci trascinò lontano e lo vedemmo salutarci.
Restai casa senza padrone, campo senza aratore, allievo senza maestro.
Dèi lontani, ridatemi la vista per ritrovare la rotta verso la mia amata Atene.
Efebo, per punire i troiani, mi unii ai guerrieri del mio re.
Efebo grazioso ma povero, i nobili mi disprezzarono. Non cavaliere, non fante fui. Lavapiatti mi nominarono,
Non armi ebbi, ma stracci. Seduto a strizzar panni, mi vide Ulisse.
Con lo sguardo mi misurò. Con un cenno della mano, mi chiamò.
Mi fece suo discepolo e io lo elessi a mio maestro e amante.
Esplorammo assieme, insaziabili, i piaceri della mente e del corpo.
Quando conquistata Ilio, mi offrirono il ritorno ad Atene,
Io, padrone del mio destino, ricco di onori e prede, rifiutai.
Mi imbarcai con il mio maestro a cui mi ero donato corpo e anima.
Entrambi fummo delusi da quella epopea diventata una squallida storia di violenze, tradimenti, massacri, stupri
Vedemmo entrambi che non vi era gloria in quanto fatto.
Il maestro ci assicurò che presto saremmo tornati in patri a,
ma io attento, colsi il canto del suo cuore deluso
Che anelava a cieli azzurri e ventosi sopra mar sconosciuti .
Là, trovare isole feraci avremmo trovato una nuova patria.
Per amore lo seguii lasciando che fosse il desiderio per la sua mente e per il suo corpo a guidarmi.
Dalla prima meritai in dono saggezza e conoscenza.
Ma, dal secondo, ebbi amore e passione che mi saziarono.
Ora solitario alle foci dell’ Istros, là dove le torbide acque entrano nel Pontos Axeinos,
vivo dei doni che mio offrono i barbari Sciti affinché insegni ai loro figli la parlata greca.
Allora racconto loro di Ilio e della guerra per la bella Elena. Illustro gli eroi, racconto come vincemmo e tornammo.
Ma, quando con la parola onoro Ulisse e i giorni della guerra di Ilio, un groppo mi chiude la gola e piango sul passato che non tornerà.
Allora gli innocenti efebi, miei attenti allievi, avidi di sapienza,
si chiedono in cosa mi hanno offeso e cercano di consolarmi.
accetto il regolamento, sez. a
La barca di cristallo
Sulla spiaggia erano in tanti, l’attesa era finita,
affrontavi onde giganti tra paure e turbamenti,
azzardavi anche la morte per rifarti un’altra vita
la speranza dissennata alimentava i sentimenti.
Hai ceduto tutto quanto per pagare gli scafisti
e quante volte hai pianto celando gli occhi tristi.
Quel momento fu uno sputo, un passo nell’ignoto
un sogno dolce succeduto ad un destino amaro
eri quasi senza fiato e non lo avresti più scordato
quel momento tanto cupo ti costava molto caro.
Abusare del tuo corpo fu un affronto nauseante
era stato un duro colpo sottostare a quella gente.
Lasciavi la tua terra e navigavi verso un’isola italiana,
ma quel mare freddo e ostile ti sembrava di metallo
tu, musulmana, che fuggiva da una guerra disumana
pregavi un Dio che non stava su quella barca di cristallo.
Era forse troppo preso, lui che stava lassù in cielo,
fosse stato più pietoso t’avrebbe udita dietro al velo.
La barca solcava i flutti e oltrepassava le barriere
le onde gelide del mare ti venivano a lambire,
non potevi che sperare in una vita un po’ migliore,
sognar d’essere felice e inseguir la tue chimere.
Stringevi forte al petto tua figlia con le braccia,
quante volte le avevi detto ch’era forte come roccia.
Ma una stella luminosa incrociava il tuo destino,
non era Dio né la cometa ad apparire nella notte
ma la speranza più concreta di qualcuno lì vicino,
quella nave già sapeva e ti cercava sulle rotte.
Quella vista in lontananza era un punto di partenza
riaccendeva la speranza di ritrovare una coscienza.
Ti venivano di fronte col timone tutto a dritta
gli uomini del mare ce l’avevano messa tutta,
era esatta quella rotta, non dovevi essere afflitta,
ti venivano a salvare quando ormai eri distrutta.
Quel sorriso sul tuo viso, non potevi farne a meno,
dopo la pioggia, d’improvviso, era come arcobaleno.
Ma quel buio mare nero è come un gran mantello
che avvolge un cimitero di barche di cristallo,
di sogni intrappolati, rinchiusi in un castello,
di corpi abbandonati su di un letto di corallo.
Sulla barca di cristallo eravate in quattrocento
sopra un mare di corallo andavate incontro al vento.
Accetto il regolamento. Sez. A
TI HO VISTA PASSARE
Ti ho vista passare,
una bianca veste di seta
increspava le onde del vento
che soffice e lieve soffiava
come a dirti non ti voglio ferire,
sui capelli un cerchio di luna,
negli occhi mille luci di stelle
e su tutto il tuo andare
i riflessi di un’ombra solare,
sguardi discreti a sfiorare
l’eterea dolcezza del volto,
mentre i piedi su spine e su sassi
sapevano non doversi fermare,
cercavano il fresco tepore
di un’erba bagnata d’amore,
camminavi con passo leggero
nei vicoli bui e sulle strade
trafitte da polvere e gelo,
tra rovine di sogni e altri domani,
tra il sorriso e il pianto del cielo,
camminavi silente e nessuno sentiva
negli echi di tempi lontani
il richiamo di una flebile voce
a giorni più lieti di pane e di vita,
latenti speranze d’umanità sconfitta.
Eri bella, e il tuo nome era Pace.
Maricà (m. Carmela Dettori) – Sez A-Accetto il regolamento
IL FUNERALE
All’obitorio.
-Come stai?
-Bene, grazie! e tu?
-Non c’è proprio male davvero!
-A che ora il tuo funerale?
-Alle 17:00! Il tuo?
-Anche!
-Ci vediamo lì, allora!
-Ok, ti aspetto!
Ore 17:00 in chiesa.
-Ciao, hai visto quanta gente?
-A dire il vero, me ne aspettavo di più. Sia di amici che di parenti!
-Beh, sai come succede, da morto mica servi! Facciamo un gioco: vediamo, anche fra i presenti, quanti ci piangono davvero!
-Ma tu lo sai che questo gioco è un’arma a doppio taglio? Tra gli assenti e chi piange per finta… magari siamo noi a non aver dato abbastanza! Poi, vabbè, ci sono i profittatori, i falsi amici, ma tutto ci serve a fare i conti!
-Io preferisco chi non è venuto a chi è qui e finge dolore.
-Ah beh, su questo sono d’accordo con te!
-Hai visto mia cognata? come se la tira! che sfacciata! a un funerale con quel trucco e quella scollatura!! Sempre altezzosa e opportunista! Menefreghista del cavolo!
-Si… tu! ma guarda il collega di mia moglie…quei due! Se la facevano da mesi! E che coraggio lei di bagnarmi la bara con quelle lacrime di coccodrillo!
-Guarda quelli come se la ridono! E quegli altri, là in fondo, sono scocciatissimi, con questo caldo, poi! C’è gente che nemmeno conosco, magari venuti per compiacere a qualche altro. Formalità! Ma, alla fine, lo sapevamo già, no? Di che ti sorprendi?
-Senti il prete che carino! “Due persone buone, laboriose, che godevano della stima di tutti”. Mi viene da piangere!
-E senti il tuo vicino “Era proprio una persona a modo! Ehh, è proprio vero che se ne vanno prima i migliori!”. Pure a me scende una lacrimuccia!
-Quanto sei..! Ecco, adesso escono e fanno le condoglianze! Guarda i tuoi colleghi! Che sorrisetto mentre baciano tua moglie, e com’è afflitta lei! Più sanno di mentire meglio recitano la parte e si applaudono a vicenda.
-E tu guarda i tuoi ‘amici’! Guarda come se la svignano appena espletate le formalità con i tuoi fratelli e tuo padre!
-Povero papà…mi vuole davvero bene, lui!
-Anche mia madre…sono triste!
-Accidenti a te, però…certo che potevi stare più attento con quei freni…dove avevi la testa?
-Nei pantaloni del mio collega, a vedere se c’era mia moglie!
-Ahahahh….cretino! T’è costato assai…e per colpa tua pure a me! Non sono riuscita ad evitarti, solo a mandarti a quel paese!
-Vabbè, succede! Tanto eri vedova e senza figli!
-Egoista! Proprio per quello me la godevo! E comunque nemmeno tu hai figli! Solo una moglie che ti fa becco!
-Già…comunque il nero ti dona, e anche gli occhiali scuri!
-Pure a te questa barbetta dona…e pure il cappello. Sei quasi figo!
-Dovremmo abbronzarci un po’, che ne dici? Siamo pallidi, e qui dentro fa troppo caldo!
-Hai ragione…dai, usciamo!
All’uscita e sul piazzale della chiesa un vento improvviso che a tutti sbatte il braccio sulla fronte ripiegata! I due corrono veloci e sull’ultimo scalino, mentre nessuno capisce cosa sia successo, a stento si intravvedono due ombre che si allontanano a braccetto…verso la vita!
-Nessuno ci ha visti! Però non è stato male il nostro funerale, vero, Rebecca?
-Nella norma, Alfredo.
-Ahahahahahah!
-Ahahahahahah!
Maricà (M.Carmela Dettori)-Sez B – Accetto iol regolamento
Amami ancora
Accarezzi aggraziato il mio viso, mentre
lente le mie stanche palpebre si abbassano
e poi stordite, nel tepore di questa coltre,
partoriscono doloranti lacrime che urlano.
Sussurri piano, lievi e armoniche parole
che nel mio cuore risuonano melodiose,
tra le nere nubi mi mostri i raggi del Sole
e stendi sul mio cammino petali di rose.
Sfiora la mia pelle il tuo respiro, delicato,
sciogli ora, i miei argentei capelli, ancora
baciami e anche se il tempo ha segnato
il mio volto, mi guardi, come fosse allora.
Fra le tue possenti braccia mi accogli,
attento ascolti i miei lunghi silenzi,
così tu, la neve dei freddi inverni sciogli,
è già primavera e con me ora danzi.
Manuela Orrù
sez. A -accetto il regolamento-
Dolce e sensuale
grazie infinite carissima Lu
Del maestrale
Or del maestrale
l’onda mi investe
della spuma il salso.
Sguardo proteso all’orizzonte
seduto su aguzze rive, di fronte.
Insieme, del fortunale
pur se non amato, si veste
l’eco dello scafo scosso
e il ritmo s’affaccia alla mente
col tepido calore di un’amante.
sez. a, accetto il regolamento
Un bagliore improvviso
Un bagliore improvviso dissolse le immagini in un unico abbraccio di bianco. Sembrava un lampo ma non seguì alcun tuono. Accecato egli chiuse gli occhi aspettandosi che accadesse qualcosa d’irreparabile. Aveva in quell’attimo pensato al peggio, un fulmine, il crollo della parete, un’improvvisa folgorazione. Non accadde nulla di tutto ciò. Riaprì gli occhi lentamente aspettandosi di ritrovare un ambiente distrutto da quel lampo. Ogni cosa era come prima, tutto meno un particolare. Lì, nel castello sovrastante, si era aperto un varco. Una porta, prima inesistente, si era materializzata ed era spalancata, quasi che gli si fosse offerta ospitalità.
No! Non poteva essere vero! Perché mai avrebbero dovuto? Non lo conoscevano né egli aveva sentito nominare il castello, figuriamoci gli abitanti. Chi mai poteva essere? Pensò agli ultimi giorni trascorsi in quel posto e tentò di ricordare tutte le persone che aveva incontrato. Sì, n’aveva conosciuto parecchie, ma mai nessuna aveva nominato il castello né gli si era presentato come abitante di quel posto. Eppure qualcosa lo attirava ad entrare. La curiosità lo spronava. Il timore dell’imprevisto lo tratteneva. Una decisione bisognava prenderla. Non poteva stare lì ammutolito a pensare cosa fosse accaduto. S’incamminò verso l’entrata. Arrivato al portone d’ingresso notò l’effige che riluceva su di un’anta dell’uscio: “Un falcone che artigliava una preda”. Ciò accrebbe il suo timore ad entrare. Immaginò di essere la preda. Scavalcò, con circospezione l’uscio col piede destro agganciandosi ben fermo con la mano destra allo stipite dello stesso nell’intenzione di sfuggire ad un improvviso attacco di chicchessia. L’interno del castello, diversamente da come lo aveva immaginato, era ampiamente illuminato ed un’enorme e maestosa scala troneggiava al centro di un immenso salone portando ad un loggione ove s’intravedevano diversi altri locali. Una musica veniva da uno di questi. Una sinfonia che doveva avere già sentito in passato. Il passato, ridestato dalla melodia, iniziava a proporsi alla sua vista come fosse in un sogno. Ma forse era un sogno! Non n’era sicuro, credeva d’essere vigile e sveglio ma i colori che lo circondavano e la musica incessante sembravano essere irreali. Una figura si affacciò dal loggione indicandogli di salire. Gli parve una donna, non riuscì a ricordarne le sembianze. Vestiva abiti che non gli erano familiari. Poteva essere situata in altri tempi. Il pallore del viso, la mancanza di make-up, la veste cadente e di lunghezza sproporzionata per l’epoca la ponevano in un’aura di mistero che lo intrigavano e, superato il timore accettò di seguire le sue indicazioni e prese la strada per l’enorme scala, Notò, nel salire che i gradini sembravano irreali, nel senso che egli non faceva alcuna fatica a salire. Aveva quasi raggiunto il loggione quando, guardando indietro, per caso, o per rendersi conto dell’altezza raggiunta, s’accorse di non vedere più il pavimento del salone. Un brivido lo percorse. Dove diavolo si era cacciato! Era ormai arrivato alla meta ed attese che la donna gli indicasse la strada. Quest’ultima entrò in una delle stanze e lui la segui. La musica veniva proprio dalla stanza. Immaginò un attimo prima di entrarvi, a giudicare dal suono, di trovarvi un quartetto d’archi ed una spinetta. La spinetta realmente c’era ma degli archi, sebbene se ne udissero le note, nessuna presenza. Lo strano era che la donna entrata prima di lui era seduta alla tastiera e sembrava fosse lei a suonare. Qualcosa gli ricordò un detto che molto tempo prima, durante i suoi studi, fu oggetto d’intense riflessioni. Era un detto di Einstein : “All time exsist all the time” . Gli rivenne in mente preponderante e pensò allora di stare rivivendo un tempo che non fosse al presente. Poteva essere il passato o il futuro. Ma egli non aveva mai conosciuto quella donna, quindi non poteva essere il presente e del passato non ricordava d’averla mai incontrata. Non gli restava che il futuro. Una donna che avrebbe conosciuto in futuro? Ma perché il castello ed anche la spinetta? Quest’ultimi rappresentavano il passato. Un emblema troneggiava sulla parete illuminata, lo stesso che aveva notato sull’uscio. Diverso dal precedente per un particolare. In testa ad esso, in caratteri gotici era scritto il nome del casato. Lo lesse e sbiancò in viso. Aveva letto il suo cognome!
Improvvisamente i suoni intorno a lui mutarono. Un trillo continuo ed ossessivo lo costrinse a compiere un’azione automatica che faceva tutte le mattine. Una manata alla sveglia lo fece cessare.
sez. B, accetto il regolamento
Mistral
Forse sei tu vento del maestrale
che strappi e porti via
-verso un tempo oscuro-
tutte quelle foglie rugginose
senza nome.
Nessuna ritornerà
e la penna piangerà
sui falsi crinali del tramonto
chiamandole a gran voce
ad una ad una.
E sei sempre tu
vento del maestrale -freddo-
che ancor t’accanisci
sulle ceneri del rimorso
e la polvere nell’aria dissolvi
come il vissuto
nelle praterie senza fine
della memoria,
ov’anche tu t’annulli
nell’immortal passato.
Sezione A -Accetto il regolamento
Sezione B – Accetto il regolamento
GLI OCCHIALI MAGICI
C’era una volta un signore molto ricco, così ricco che aveva tutto e non sapeva più cosa desiderare. Si chiamava Mauro. Viveva in una villa enorme con tanta servitù alle sue dipendenze. Non era una persona piacevole, tutt’altro. Brontolava sempre con tutti, si lamentava di questo o di quello. Aveva capito da solo che non era simpatico ai suoi dipendenti e riusciva a leggere in faccia ad ogni persona che lavorava per lui la scarsa considerazione che avevano nei suoi confronti.
“Viviana, cambiami subito le lenzuola, metti quelle di seta color avorio. Sai che il colore panna non mi piace, specialmente di martedì”, rimproverava così la cameriera.
“È proprio un rompiscatole”, pensava contrariata la povera Viviana.
“Lucia, hai cucinato male l’arrosto. Hai messo troppe spezie. Adesso ne fai un altro.”
“Uffa”, alzava gli occhi al cielo Lucia, “questo si deve sempre inventare qualcosa per scocciare la gente.”
“Lucia, guarda che so cosa pensi, non sei contenta delle mie lamentele”, le diceva Mauro.
“Alleluia”, pensava lei un po’ infastidita.
“Vorrei proprio essere in grado di leggere i loro pensieri e non solo cercare di indovinarli”, era un’idea che spesso girava per la testa a quel riccone scontroso.
Tutti i giorni passavano più o meno allo stesso modo. Siccome il signor Mauro non lavorava non sapeva più cosa inventarsi per riempire le giornate.
A casa di Mauro ogni tanto venivano dei commercianti che gli procuravano quello che lui desiderava e ordinava. Spendeva sempre tanti soldi e poi si rendeva conto che quello che acquistava non gli serviva veramente. Ma questa volta un’idea precisa gli era balenata in testa e sapeva bene cosa avrebbe chiesto ai commercianti.
“Signor Mauro, allora cosa possiamo fare per lei?” chiesero due commercianti che lavoravano in coppia.
“Sentite, vorrei sapere se esiste qualche oggetto con cui si possa leggere il pensiero delle altre persone”, chiese.
I due commercianti si guardarono molto stupiti.
“Veramente, non può esistere…”, iniziò a parlare uno di loro.
“Sì che esiste”, lo zittì l’altro facendogli un occhiolino di nascosto. “Esistono degli occhiali magici che lei mette e così può leggere i pensieri di chiunque. Ma le dico che sono molto, molto cari. Roba di grande valore.”
“Non mi interessa quanto costano. Li voglio e basta”, rispose lui.
“Tu sì che sei furbo”, disse il primo commerciante all’altro quando furono fuori casa.
“Bisogna spremere quel fesso, con tutti i soldi che ha. Pensa un po’ che vuole leggere i pensieri degli altri. Potesse leggere i nostri!”
“Ah, ah.”
Così i due commercianti procurarono quegli occhiali speciali a loro dire e si fecero pagare molto bene.
Il signor Mauro non riuscì a resistere alla tentazione di provarli subito e uscì in strada a leggere i pensieri delle persone che passavano. Ma con grande delusione non riuscì a capire i loro pensieri. La gente gli passava vicino ma non aveva la minima idea di quello che avevano in testa.
Chiamò i due commercianti: “Guardate che questi occhiali sono difettosi, non capisco niente dei pensieri delle persone in strada”.
“Ma lei hai parlato con loro?” chiese uno dei commercianti.
“No”, rispose lui.
“Per farli funzionare deve rivolgere la parola a queste persone.”
Il signor Mauro tornò in strada e chiese a un signore che ore erano. Lui gli disse l’ora ma non capì cosa pensasse. Scocciato chiamò ancora i commercianti.
“Niente da fare, non funzionano. Ridatemi i soldi, ve li rendo.”
“Senta, signor Mauro, per farli funzionare, si deve rivolgere più volte a una persona, così vedrà che funzionano.”
Il signor Mauro tornò in strada e chiese nuovamente a una signora che ore erano. Lei gli rispose gentilmente. Lui le corse dietro e chiese ancora che ore erano.
“Cosa vuole questo qua?”, il signor Mauro finalmente riuscì a leggere i suoi pensieri. Tutto contento, riprovò ancora.
“Signora, signora, che ore sono?”
“Questo tizio non è a posto”, ancora fu in grado di sapere quello che pensava lei.
Così si convinse di avere speso bene i suoi soldi e si sentì soddisfatto. Il suo desiderio era quello di entrare nella testa dei suoi dipendenti. Niente più segreti per lui.
Tornò a casa e riprese a brontolare.
“Chiara, pulisci ancora questo pavimento. Non è lucido abbastanza.”
Capì il pensiero di Chiara, “non sa cosa inventarsi per continuare a rompere le scatole.”
“Questa camicia non profuma abbastanza. Me la lavi di nuovo, Elena.”
“Va bene, rompiscatole”, era l’insofferenza di Elena.
Così per qualche giorno si sentì felice e soddisfatto.
Però dopo gli venne in mente che non era cambiato niente, anche prima capiva i loro pensieri. Forse non voleva ammetterlo con se stesso. Come avrebbe potuto capire se il merito era veramente degli occhiali?
Cercava di trovare una prova che gli confermasse l’utilità di quegli occhiali così costosi. Ma sapeva che non doveva rivolgersi ai commercianti perché loro l’avrebbero convito che funzionavano.
Un giorno la cuoca si presentò al lavoro accompagnata dal figlio di otto anni. Disse che quel giorno la scuola era chiusa e si scusò chiedendo il permesso di tenere il figlio con lei tutto il giorno. Il signor Mauro si fece promettere che non sarebbe stato disturbato ma poi gli venne un’idea.
“Va bene, lascialo qui. Devo chiedere una cosa al bambino”, le disse.
“Ragazzino, mettiti questi occhiali. Mi dici se riesci a leggere i miei pensieri?” gli raccomandò il signor Mauro.
Il ragazzino mise gli occhiali.
“Io non leggo i suoi pensieri, signore, mi dispiace. Non riesco proprio a capire quello che pensa”, gli rispose tristemente il bambino. Avrebbe preferito dargli una risposta affermativa.
“Vedi, mi hanno venduto questi occhiali ad un prezzo astronomico promettendomi che sarei stato in grado di leggere i pensieri altrui. Ci sono cascato in pieno. Tieniteli, pure gli occhiali”, disse il signor Mauro incupito al bambino e stava per andarsene.
Ma il bambino lo chiamò:
“Signore, signore, adesso riesco a leggere i suoi pensieri. Sono stato stupido, ecco cosa pensa”.
“Già”, rispose il signor Mauro e se andò in camera sua sorridendo e lasciando al bambino gli occhiali.
SIAMO FATTI PER FARCELA
Siamo fatti per farcela,
e lo sentiamo quando
non diamo più colpe a nessuno,
quando in un giorno insignificante
troviamo bellezza,
quando fermiamo la macchina
per nutrirci di un tramonto,
quando la ragione non ci interessa
perché riconosciamo noi stessi.
Lo sentiamo quando
la solitudine diventa una dolce amica,
senza allontanarci dalla compagnia
di amici veri,
quando sappiamo ridere
delle figuraccie perché nulla
ci fa sentire sbagliati.
Lo sentiano quando
entriamo in un bosco
per incontrare gli alberi,
quando rivolgendoci all’universo
non chiediamo perché ci è capitato,
ma invochiamo forza per superare tutto,
quando diamo importanza
alla vita e meno a ciò che ci succede.
Lo sentiamo quando
un sasso a forma di cuore
compare tra i nostri passi,
quando tra le parole di una canzone
troviamo sempre un senso,
quando non ci dimentichiamo
di regalare un sorriso al cielo,
quando l’empatia ci ricorda
di essere uno
e insieme sentiamo
che siamo fatti per farcela.
Simona Grammatico, sez. A, accetto il regolamento
Ines Zanotti 19 maggio 2024
SILENZIO
“Immobile rimango
a frugar fra il tuo spirito,
e ritrovo
nei battiti del mio cuore
la pace dell’infinito…
Gli occhi vagano nell’ aria
volendo identificarsi nell’ io,
ma tu nascosto stai
o silenzio,
perchè grande sei
dove il piccolo
non muore mai…”
Accetto il Regolamento – Sezione A – Poesia
IL DONO
Finì per addormentarsi, Pora-Poralei.
O meglio: per cadere in quello stato, che gli umani definirebbero comatoso, tipico della sua specie in condizioni ambientali proibitive.
E se da una parte ciò fu un bene, perché glie(1) regalò almeno un paio di Knorr(2)) di vita,
dall’altra non rendeva meno certa la sua morte, e con essa il cessare di quella peculiare vibrazione delle sue molecole che lo rendevano, al momento, invisibile.
Con l’inevitabile impatto che la scoperta di una creatura aliena avrebbe avuto sugli abitanti di quell’infernale, assurdo pianeta.
Subito dopo aver perso coscienza, il suo corpo semiliquido (che aveva avvinghiato, quasi per istinto, a una sporgenza metallica del soffitto…torrida sì, ma non ustionante come il resto del locale) si era contratto fino alle dimensioni di pall’d’calc(3), ricordo ancestrale di quando i tanzilli decapodi erano creature pelagiche che nuotavano nei laghi ammoniacali del loro pianeta di origine e dovevano resistere alle maree del terzo plenilunio.
Aveva guardato in basso, poco prima, attirato dall’aprirsi di una strana apertura rettangolare in una parete (una porta, glie sovvenne), da cui era entrato uno sparuto numero di uomini vestiti malamente e – per quanto poteva ricordare dai vecchi studi di exobiologia – spaventosamente emaciati.
Aveva guardato, si era sforzato di ricordare, ma niente. La banale sequenza di 11 simboli che l’avrebbe salvato era persa chissà dove, nei meandri della sua mente assetata di aria pura.
Non era passato molto tempo da quando tutto era iniziato: le vibrazioni d’allarme, il risveglio improvviso dalla stasi, la fugace visione di un pianeta azzurro d’acqua liquida (acqua! liquida!!) e della sua unica, grande luna…
Il soldato Pora-Poralei non poteva saperlo, ma un incrociatore nemico era appena sbucato dall’ombra del satellite e per quello erano suonati gli allarmi e i difensori della grande nave reggia, risvegliati senza troppi complimenti, automaticamente teletrasportati sulle navette da combattimento che le ronzavano attorno.
O almeno, così avvenne per quasi tutti…
Perché il nostro tanzillo non si era ritrovato all’interno della sua navetta, pronto a distendere i sei arti manipolatori sui sistemi di puntamento e sulle armi di cui era dotata, ma in quel luogo così assurdo, così alieno, così mortale. Con quell’aria infuocata e velenosa che si faceva strada a forza nelle fessure brachiali, invadeva le spugne respiratorie, bruciava il cervello formidabile ma così fragile.
E anche se la navetta lo avesse seguito e fluttuasse in quel momento in una bolla di nonspazio a poca distanza da egliei(4), per essere teletrasportato al suo interno Pora-Poralei doveva digitare la famosa sequenza.
Che non ricordava più, che mai più avrebbe ricordato
Avvenne…quando? Non poteva saperlo.
Proprio dalla sporgenza a cui si era abbarbicato, ecco un miracoloso fiotto d’aria pura (calda, sì, quasi ustionante, ma pura…aria da respirare, aria da far guizzare le appendici sensoriali, aria da vivere e godere e insieme a quel dono insperato – Da dove veniva? Chi o cosa? Perché?…) ecco il risveglio, la memoria che tornava.
Allungò l’appendice eptodattila verso la cintura, cominciò a digitare.
Uno degli uomini alzò lo sguardo, inorridì, si porto le mani alla gola e cadde a terra.
Dopo pochi batt’d’cigl(5), con i tre cuori che battevano all’impazzata e i quattro occhi ancora spalancati dalla paura (non sono così diversi, i tanzilli decapodi dagli umani…), Pora-Poralei si
ritrovò all’interno della navetta da combattimento che fluttuava poco distante.
Pochi batt’d’cigl per calmarsi (era un soldato, e ben addestrato) e via.
Sfiorò il cancello con la scritta ARBEIT MACH FREI e poi su, verso l’indifferenza delle stelle.
Note di testo:
(1): secondo il Galateo Galattico i pronomi personali nelle specie con fasi di ambigua differenziazione sessuale devono essere tradotti con una sintesi
tra genere maschile e femminile. Nel caso specifico glie=gli+le
(2) Tempo necessario a un seme dadiforme di brood di 1cm3 per sciogliersi in 1litro di azoto liquido
(3) Uova (pall) di Calc. Leccornia prelibata della cucina Tanzilla
(4) Egli+lei – vedi nota (1)
(5) Durata dell’orgasmo nella specie pelagica da cui si sono evoluti i tanzilli. Vista l’estrema brevità dello stesso, i tanzilli si dicono ben felici di
essersi lasciati alle spalle tale fase evolutiva.
(sezione b, accetto il regolamento)
ANCORA INSIEME
Non chiedermi perché t’amo
se non so spiegarmi ancora il mistero
che ci lega in un comune destino
oltre il tempo e l’infinito spazio.
Non lasciamoci mai soli
se il mondo ci farà paura;
ci sentiremo persi allora tra l’ombre
che ci leveranno la luce.
Non smettiamo di sognare
se la vita ci sembrerà dura
e ci metterà duramente alla prova
sfidandoci fortemente a resistere.
Stiamo perciò ancora insieme
l’amore sarà la nostra forza
che ci donerà la gioia di vivere
che nessuno potrà togliercela.
Franco Maccioni
SEZIONE A – ACCETTO IL REGOLAMENTO
IL MICIO E IL DRAGO
C’era una volta un gatto nero che si chiamava Micio e viveva in un castello pieno di libri. Micio era molto curioso e amava leggere le storie che trovava sugli scaffali. Un giorno, mentre stava sfogliando un libro di fiabe, vide una pagina che lo attirò. Era la storia di un principe che doveva salvare una principessa da un drago. Micio pensò che sarebbe stato divertente vivere quell’avventura e si mise a sognare ad occhi aperti.
Improvvisamente, si sentì trasportato in un altro mondo, dove il castello era diventato una torre e il libro una spada. Micio si guardò intorno e vide che era vestito da principe, con una camicia bianca, un mantello rosso e degli stivali neri. Si sentì coraggioso e deciso a salvare la principessa. Si avvicinò alla porta della torre e la aprì con la spada.
Dentro, c’era una scala a chiocciola che saliva fino alla cima. Micio iniziò a salire, ma presto si accorse che non era solo. Dalla torre usciva un fumo nero e un ruggito terribile. Era il drago che custodiva la principessa!
Micio non si lasciò intimidire e continuò a salire, sfidando il drago con la sua spada. Il drago sputava fuoco e cercava di morderlo, ma Micio era agile e scaltro. Riuscì a schivare i suoi attacchi e a ferirlo alla coda.
Il drago urlò di dolore e si ritirò in un angolo. Micio approfittò della situazione e corse verso la cima della torre, dove c’era una finestra.
Lì, vide la principessa, che era bellissima e aveva dei lunghi capelli biondi. Era legata a una sedia e aveva una mela avvelenata in mano.
Micio le si avvicinò e le tagliò le corde con la spada, poi prese la mela e la gettò dalla finestra. La principessa si svegliò e vide Micio che gli sorrise e si sentì felice e lo ringraziò per averla salvata.
-Oh, grazie, grazie, grazie! Sei il mio eroe! Come ti chiami?
– Mi chiamo Micio, sono un gatto… ehm, un principe.
-Sei un principe molto speciale, Micio. E sei anche molto carino.
-Grazie, principessa. E tu come ti chiami?
-Mi chiamo Bianca, sono la figlia del re. Il drago mi ha rapita e mi ha portata qui. Mi ha dato questa mela e mi ha detto che se l’avessi mangiata, sarei diventata sua moglie.
-Meno male che sono arrivato in tempo. Ti ha fatto del male?
-No, per fortuna ma avevo paura, tanta paura. E ora come facciamo a scappare? Il drago è ancora là fuori.
-Non preoccuparti, Bianca. Io ti proteggerò. Ho una spada magica che può sconfiggere il drago. L’ho trovata in un libro.
-Un libro? Che strano… Ma non importa. Ti credo, Micio. Sei il mio salvatore.
Micio la prese in braccio e la riempì di baci. Poi, si affacciò alla finestra e vide che il drago era ancora lì, ma sembrava stanco e ferito. Micio gli lanciò la spada e lo colpì al cuore ed emise un ultimo ruggito.
Micio e Bianca erano liberi. Si abbracciarono e si baciarono ancora. Poi, videro che in cielo c’era una nuvola che li trasportò via, verso il castello di Bianca. Lì, il re e la regina li accolsero con gioia e li festeggiarono. Micio e Bianca si sposarono e vissero felici e contenti per tutta la vita.
FRANCO MACCIONI
SEZIONE B – ACCETTO IL REGOLAMENTO
Sez. B – accetto il regolamento
ZENONE E L’ARTE DELLA GUIDA DELLA MOTOCICLETTA
Un ottobre che sembrava già dicembre. Il sole che si scollava a fatica dall’orizzonte verso le dieci, dieci e quaranta, e spesso non erano le tre che già si incatramava dentro il profilo urbano della periferia. E quella settimana, poi, saranno stati cinque giorni che era sempre lunedì. Con queste premesse, Achille si era alzato, si era esaminato il volto macilento, poi aveva svuotato la moka, con lo zucchero che non si scioglieva, perché il caffè era quello freddo avanzato dal giorno prima. E con la lingua patinata del sentore di cicoria tostata del caffè vecchio si preparava a uscire di casa, e al diavolo la rasatura, si farà al primo martedì.
“Il fumo invecchia la pelle” – legge – ma cos’è mai la vecchiezza della pelle rispetto alla morte per cancro ai polmoni che gli si prospettava con il pacchetto di ieri.
Sulla Triumph Thunderbird 900 nera si sistema Achille. Dunque via, e la prima nuvola di combustione si spande fuori e dentro ai suoi occhi liquidi da lunedì. I cilindri cantano fondi il basso ostinato dentro il garage, frusciano brillanti nel cortile del retro-palazzina, poi arpeggiano sul viale a sei corsie, ad ogni sorpasso, ad ogni semaforo verde. Sotto l’ombra ancora virtuale della tangenziale i cornicioni grondano l’umore notturno della loro esistenza suburbana.
Dalla periferia la città finisce in due minuti. La Triumph canta il suo vibrato, quando cento metri avanti ha svoltato una FIAT 600 autentica, nocciola e ruggine. Ha luogo una leggera rotazione della manopola destra. Ronzio. La convessità dell’universo si specchia intera dentro al parafango cromato anteriore della Triumph.
L’obiettivo è l’incrocio con la strada secondaria da dove è sbucata la vecchia 600. La provinciale srotola il suo tappeto grigio sotto le gomme della motocicletta. La Triumph raggiunge l’incrocio, ma frattanto la 600 è avanzata, con dinamica da auto a quattro marce quando si è appena inserita la terza. Si trova a venti metri, davanti al cartellone pubblicitario delle Cucine Italiane S.p.A.; passandoci sotto Achille sente chiaro sul casco lo sguardo benedicente della bionda soubrette, regina scintillante in mezzo alla sua cucina nuova. E intanto la 600 ha percorso qualche metro ancora. Una frazione di secondo, e finalmente Achille l’ha davanti a sé. Ma non sorpassa, rallenta. Ha visto qualcosa sul parabrezza posteriore. Un adesivo scolorito che resiste alle intemperie da vent’anni almeno: “Campeggio Tortuga”. Tortuga?
Sì, Tortuga… vent’anni fa, un’estate che era sempre domenica. Un volto sfumato, la pelle di una ragazza scorre sotto la memoria tattile dei polpastrelli inguantati di Achille. Ma il suo nome non vuole emergere dalla palude dei ricordi stagionali, stratificati agosto dopo agosto. Scorre un elenco mentale, Francesca, Paola, Astrid, Paola, Mery, Lorena, Milly, Paola ancora… Ma nessun nome è giusto. Ringhia il carapace della 600 sollecitato a cinquemila giri al minuto, finalmente entra la quarta, si distanzia di due metri. La Triumph è lì dietro, quasi la tocca, vorrebbe sorpassare ma Achille tiene gli occhi inchiodati all’adesivo del Campeggio Tortuga, perché forse, guardandoci bene, con la luce appannata del sole che finalmente riempie la strada, forse si può leggere mentalmente quel benedetto nome…
Zoom, fuori. Tra gli incolti non si vede altro che una Triumph Thunderbird 900 nera affannarsi ai sessanta all’ora dietro una 600 nocciola, sotto il primo sole avaro di quel lunedì d’autunno.
Pochi secondi ancora. Poi finalmente: “Susy”! Achille scala, il motore riprende e sorpassa d’un soffio la 600 imballata. “Susy…”. Zenone non aveva mai guidato una Triumph! – pensa Achille, con soddisfazione, facendo entrare finalmente la quinta.
(Ispirato al paradosso di Zenone su Achille e la tartaruga)
Ma… Sei lo stesso che la volta scorsa hai scritto di Achille che sbugiarda Eraclito?
Sez. A – accetto il regolamento
Dove sono le parole?
La sabbia, le nuvole; il cielo senza nuvole;
la gioia dei bambini; il chiasso dei bambini;
schizzi d’acqua e musica che chissà da dove arriva.
Sole; l’ombra degli ombrelloni sulla sabbia,
sulla pelle protetta dai solari.
Il sale sulle labbra. Il corpo che non pesa, tra le onde.
Sonno, noia che svapora dalle pagine di un libro.
Corpi di giovani, spesso abbronzati;
ammirazione per corpi sulla spiaggia, spesso di giovani,
sotto il sole, sopra la sabbia.
A volte l’onda che ti bagna tutto il viso.
Il chiasso dei bambini (c’era già, il chiasso dei bambini?)…
Sonno; fuori dalle onde,
sopra le righe del libro,
le nuvole…
Non sarà che in ogni cosa sia nascosta una poesia?
Sulla spiaggia, e fuori dalla spiaggia,
dentro e fuori dall’estate, dentro le righe e fuori dalla pagina del libro.
E la spiaggia, be’, un esempio come tanti;
in ogni cosa, a ben vedere, si nasconde la poesia:
la foglia che cade dal ramo, e l’albero senza foglie,
un arcobaleno e un gelato in terra,
un bacio e uno sputo.
Ma tutto è stato scritto, e poi letto, e ancora detto,
e noi ripetiamo parole che già sono nei libri,
dentro una canzone, in un biglietto lasciato su un cuscino,
e dentro la Biblioteca di Babele:
se solo le sapessimo vedere…
Con parole diciamo cose sulla polvere dell’universo
che ci ronza intorno, ma erano già di qualcun altro,
le parole sulla spiaggia e sulla pioggia e sull’amore e sulla guerra,
e su ogni cosa su cui si possa dire qualche cosa.
E tutte noi possiamo prenderle e rileggerle,
riscriverle e ordinarle, e creare mondi nuovi di parole.
Se solo le volessimo sentire, ronzanti,
nella polvere dell’universo che ci gira intorno.
O anche solo nella sabbia
alzata dal vento all’improvviso;
sulla spiaggia, per esempio.
Che belle queste poesie fatte di cose
Thea Matera, avrò il piacere di leggerti?
Accetto il regolamento sezione a
Respiro.
Affogare respirando sul ghiaccio che graffia l’anima
del suo incubo oppressa da questa esistenza che ruba la dignità
oggi anche all’addolorato fondo di una buca inversa alla fiaba che differisca
dall’angoscia e scagiona la ragione
che ama,
e la fuga dall’affogare respirando veleni d’amore.
Destinati a spinte e inciampi
Viviamo nella luce così come viviamo nell’ombra di noi stessi
e anche se non siamo sempre tutti d’accordo
sappiamo però di essere guidati da qualcuno che non conosciamo…
ma che si chiama destino… e che nel corso della nostra vita
ci mantiene vivo ogni nostro ricordo…
Il destino, si… quello che ci tiene sul serio per mano
e che ogni tanto purtroppo ci mette addosso un qualche problema non sano…
Quello che magari ci stronca una qualche parte del corpo
o, peggio ancora, ci mette lì una qualche brutta malattia
che purtroppo poi conduce qualcuno fino ad esser morto…
E’ così che la nostra gente ogni tanto viene a mancare
e noi non possiamo far altro che rimanere lì… in silenzio… a pensare…
E’ vero che non é facile, però subito il capo bisogna rialzare…
ed é vero che é difficile, però bisogna subito un poco reagire…
E’ per quello che quando incontriamo qualcuno
dobbiamo sempre trovare il tempo di fermarci…
anche solo per salutarli cordialmente…
e poi andarcene… allungando magari un pò il passo e… dileguarci…
In giro dobbiamo guardarci… incrociare lo sguardo degli altri…
e capire che anca loro sicuramente
una qualche volta hanno dovuto subìre e soffrire…
E’ così che la vita continua… é così che noi andiamo avanti…
magari un pò troppo a spinte ed inciampi…
guardando lontano e vedendo sempre troppo brutto…
finché entreremo nell’ombra quando la nostra luce si spegnerà del tutto…
Ma é necessario ripartire dopo una sofferenza…
ed é per quello che dobbiamo imparare a camminare piano piano…
così come dovremmo imparare tutti anche a tenerci sempre per mano…
SEZIONE A – ACCETTO IL REGOLAMENTO
Ciao Osvaldo, tutto bene?
Accetto il regolamento . Sezione A.
L’umarell
Troppo arzillo è nonno Adelmo
canta, balla e non sta fermo;
mai diserta la balera
nonno Adelmo quando è sera.
Ieri il ballo l’ha tradito,
fece un passo troppo ardito,
oggi è fermo già da un’ora
con le braccia sul sedere
criticando chi lavora
e chi sgobba nel cantiere,
bello dritto e col cappello
trasformato è in “omarello”.
SEZ. A POESIA
Enrico James Scano
Accetto il regolamento del concorso.
Titolo: È GIUNTO IL MAESTRALE
È giunto il maestrale stasera,
la terra arsa, spaccata in zolle,
i miei pensieri fumanti,
ha spazzato via,
dopo un rantolo, il sospiro
di un vento ancestrale,
che ha rivestito i miei giorni nudi,
ha ricucito le mie notti strappate,
ha riacceso i miei lumi,
ha dissetato le mie voglie
e mi ha riportato al mondo;
è giunto il maestrale,
come un richiamo,
l’ho riconosciuto al primo ansimare,
è bastato un palpito, un tocco leggero,
per riportare in vita ogni cosa,
per muovere il mare del mio essere,
quieto da ormai troppo tempo,
per sconvolgere le fronde degli alberi
in questa foresta pietrificata dell’anima;
è giunto il maestrale
e ha liberato sentimenti nell’ambra,
fossili dimenticati sotto strati di polvere
che ora vola via, in un turbinio d’aria,
all’impazzata,
un movimento di distruzione e rinascita,
che al mattino lascia il segno
della mareggiata annunciata.
EJS
L’ORA TREMOLATA
a M., amica che sta, adesso, in un punto di cielo
Volevi fosse ora tremolata e rigida
di un imbarazzato inverno.
Volevi accadesse dietro imposte socchiuse,
fissando quel punto di cielo
che amavi veder ritornare tutti i giorni.
La carrozzina strideva, non rispondeva più
ai boccheggi che ti restavano,
sbuffi che non sarebbero bastati
alla corsa piroettante delle ore,
quelle scadute prima si potesse giurare
che “tutto va e torna”.
Cannule, sondini: strana strada
per condurre in Paradiso.
Quel puntino di cielo,
l’unico estremo che miravi ingannando
l’universo intero ricamato oltre.
sezione A poesia – accetto il regolamento
CON TANTO AMORE!
Col cuore gonfio di tanti dolori,
Mi metto in ginocchio e prego,
Con tanto ardore,
Il nostro amato Signore!
Sono sempre triste,
Perché mi sento in prigione,
Ma ho i miei tesori di figli e nipoti
E i miei tesorucci pronipoti,
Che quando li ho vicini,
Mi fanno passare ogni male.
Quanto sono belli i miei tesorucci,
Mi abbracciano, mi baciano,
Stanno vicino a me con tanta gioia.
Mi dicono: “Ti amo nonna!”
Io mi sento felice,
Li stringo a me con tanto amore!
Benedici, proteggi, aiuta i miei tesorucci
Oh mio dolce Signore Gesù,
Stringili forte a Te, salvali,
Fa che mi amino sempre di più!
sez. a accetto il regolamento
RAMMENTO
Rammento
giorni trascorsi nei banchi
declinare nomi
coniugare verba.
Tutto idilliaco parea
strano facea
ascoltar responsabili discorsi
sul domani proiettati
sull’oggi da creare.
Quei dì lontano sono.
Spalle cariche di senno ormai.
Ora so a cosa si riferiva
chi parola proferiva.
Accetto il regolamento sezione poesia
Maria Anna Martino
SEZIONE A POESIA
*Accetto il regolamento*
IL CACCIATORE DI ANIME
Lento e schivo rimane il tuo sguardo a scalfire
la tenera carne.
Celano le lame di ghiaccio dei tuoi occhi il fremente, impulsivo desiderio
di serrare il groviglio di fili del mio essere fragile,
pronto a succhiare ogni goccia pulsante
che irrefrenabile sgorga dalle mie emozioni.
Lucido, maniacale,
proteso a guidare anime perse nel tuo
covo di serpi e lussuria.
Premuroso padrone di casa,
impeccabile oste nella tana del lupo,
ambulacro senza più ritorno,
ricettacolo per donne stolte o forse
solo smarrite.
Maestro di gesti amorevoli e finti ideali.
Carnefice sotterraneo delle mie aurorali velleità.
Con l’eleganza della lince fiuti l’afrore dell’ingenuità e della paura.
Nascosto sotto umide foglie
intrise di menzogna e perbenismo
attendi cauto, paziente
di affondare con uno scatto gli aguzzi canini
su illusorie verità,
ormai ebbro della mia pudica innocenza
e velata sensualità.
La tua indole bieca e blasfema
opera millimetrica
pennellando carezze sul viso con una mano mentre l’altra
brandisce il pugnale e lo affonda nel petto
cesellando un disegno premeditato.
Predatore per scelta,
mai sazio abbastanza,
segui il sentiero che conduce alla fonte
che disseta dominio e possesso
su menti appannate da indomabili desideri.
Tieni ben ferma la preda,
compiaciuto, per brevi istanti satollo
lasciando che l’illusione di fuggire
possa condurre il gioco,
avvinghiando i tuoi abbracci in una morsa letale
su un corpo vivo di eterea purezza.
Vivo eppure inerme,
disarmato da un cieco inconsapevole fidare.
E con mani di velluto e artigli affilati
estirpi
da un cuore profuso di inganno
l’anima che vi alberga.
Da non leggere prima di andare a letto.
Sotto la luna sublime.
Tiana vive la sua storia magica con il suo compagno di vita Benjamin che non passa giorno senza mostrare il suo grande affetto e devozione verso la sua regina.
– Ti adoro, ti amo mia regina, è esemplare il ripetersi naturale di questo canto durante il giorno. Lei gratificata da tanto amore è dono ella stessa per il suo amato e proveniente i suoi sentimenti da sempre braccati e non esternati trattenuti per sé.
Con Benjamin è diverso, c’è una scoperta continua di verità e novità per amare con sincerità e rispetto anche alla distanza ed essere nutrimento di un amore quotidiano per una crescita che trasforma e conduce a un cambiamento, soprattutto la percezione di stare bene, di uno stato di gioia intima, segreta visibile agli altri .
Sempre ci sono state delle fessure che non hanno permesso di continuare nell’oscurità totale ma da quelle crepe lasciarsi illuminare per risplendere come un diamante pietra più dura di tutte e che l’artista forgia con l’abilità delle sue mani creando momenti indimenticabili che segnano e costruiscono i ricordi a memoria di un amore sconfinato che non finirà mai.
Il messaggio è : “Imparare a vivere le piccole cose della vita quotidiana con profuso impegno, reagire in maniera positiva dando un senso a tutto ciò che ci circonda e viene a noi per caso”.
Elisa Mascia
sez. b, accetto il regolamento
– Il cielo è azzurro –
Piove.
Ceppo antico
rami giovani
corona di re.
Mani tese verso l’infinito
avvolgono nell’abbraccio
da tanto tempo
atteso.
Piove.
Accolto
ascolto
epoche diverse
cullato dal vento.
Voci lontane
così vicine.
Storie, segni
sogni, messaggi.
Muove
di foglia in foglia
un canto da comprendere
o solamente
da ascoltare
da accogliere.
Piove.
Lacrime lavano l’anima.
Nel buio
il cielo è azzurro.
Massimo Apicella
Accetto il regolamento
UNA PASSEGGIATA AL MARE!
Ieri, domenica 17 gennaio 2016, una bellissima giornata di caldo tanto desiderato e ancora le tanto care vacanze estive, dove tutti corrono al mare, l’oceano sconfinato che accoglie nelle sue onde ballerine, grandi e piccini, per levare d’addosso il sudore che ci regala il caldo sole d’estate, che anche che non è tutti i giorni, quando arriva si cerca l’aria condizionata o il mare aperto per sopportarlo.
Con una coppia di nostri amici, abbiamo deciso di partire verso Dromana alle ore 9.00 tutti e quattro allegri e spensierati, ci siamo messi in macchina e siamo partiti cantando, insieme alle canzoni che la radio italiana trasmetteva.
Ci siamo fermati a Frankston, alla chiesa di S. Francesco, dove un nostro caro amico prete diceva la messa, lui, prima era nella chiesa S. Martin vicino casa nostra, un giovane indiano tanto gentile e amico di tutti; dopo la messa lo abbiamo salutato e abbracciato e la sua sorpresa nel vederci è stata così grande da invitarci a prendere il caffè insieme.
Abbiamo così deciso, di organizzare un bus turistico alla nostra chiesa di St. Martin in Avondale Heights, con tanti amici contenti di andare a trovare il nostro prete, e dopo la messa andare tutti al ristorante per pranzare e poterci divertire e scambiarci le nostre opinioni e progetti futuri.
Dopo abbiamo proseguito per un’altra oretta, con il mare che correva a fianco a noi scintillante d’azzurro, colmo di persone che facevano i bagni e si rincorrevano felici, tra le onde bianche di soffice schiuma. Ci siamo fermati a Mornington, in un bel ristorante italiano per prenderci il caffè, poi ci siamo messi a passeggiare per le belle vie con tanti negozi e ristoranti e tantissima gente indaffarata, a guardare tutte le belle cose in mostra nelle vetrine. Quanto sono belle e splendenti le cittadine marittime, le abbiamo ammirate estasiati, ricordando da giovani, quante corse e quanti bagni ci siamo fatti insieme ai nostri bambini, e poi insieme anche ai nipotini, ricordi indelebili della nostra gioventù che ci faceva correre dappertutto con tanta gioia, per far divertire i nostri piccoli tesori nelle spiagge più belle.
Stanchi di camminare, siamo ritornati in quel bellissimo ristorante per pranzare, abbiamo ordinato tanto ben di Dio, mangiato, bevuto, abbiamo passeggiato ancora un poco e poi in macchina verso Dromana, per andare a trovare i nostri amici che ci aspettavano in casa.
I nostri cari amici ci aspettavano sorridenti e pieni di gioia, dopo esserci riposati bevendo caffè, bevande e dolci, insieme tutti allegramente, ci siamo avviati a piedi verso il mare, a dieci minuti dalla loro casa, eravamo cinque coppie, abitavano tutti nelle case accanto con giardini immensi, con grandi tavole apparecchiate sotto grandiosi ombrelloni e tendoni, che riparavano tutto dal caldo sole.
I loro figli e nipoti sono andati per conto loro, noi nonni insieme per altri lidi.
Un mare splendido ci ha accolto tra le sue acque calde e la sabbia morbida e docile, ci solleticava i piedi nudi. Abbiamo nuotato e scherzato per parecchie ore, abbandonati tra quelle dolci onde che ci accarezzavano in tutto il corpo, massaggiandoci le osse un po’ arrugginite.
Una nostra amica ci ha detto, che la loro figlia e il genero erano in Italia, volevano vedere il Natale con la neve che non avevano mai visto, si stavano divertendo girando tante belle nostre città, nonostante il freddo intenso, ma nella maggior parte delle città, specialmente in Sicilia, il tempo era bello come se fosse primavera.
Siamo ritornati a casa alle ore 20.00, anche i loro ragazzi con i loro bambini, sono rientrati poco dopo. I nostri meravigliosi amici di tre case confinanti, e due di rimpetto, avevano preparato la mattina tanto mangiare squisito, accompagnato con tanta frutta, dolci, gelati, vino, birra e bevande di ogni genere, anche una favolosa torta, poi il bel caffè che tutti amiamo.
Erano le 9.30 e ancora era giorno e abbiamo deciso di ripartire per le nostre case a Melbourne.
Bellissimo viaggiare di sera con tutte le luci abbaglianti dei piccoli sobborghi marittimi e dell’oceano, con le barche che andavano veloci sotto le stelle e la luna, in una sfilata armoniosa, verso l’orizzonte lucente.
Tutta la giornata è stata meravigliosa, benedetta da Dio, ed ora in città, con le luci che splendono anche sui numerosi grattacieli e dal casinò, le fiamme che si sprigionano verso il cielo e verso il grandioso fiume Yarra, dai bei fuochi artificiali che ogni sera abbagliano i turisti e la folla che passeggia in giro alle belle vie del casinò, per la Federation Square, ai giardini botanici, St. Kilda Rd. e per tutta la stupenda città di Melbourne, che ha festeggiato nell’agosto del 2015 i suoi 180 anni di compleanno, inoltre la splendida città di Melbourne, è stata eletta per la quinta volta consecutiva, la città più vivibile al mondo.
Alle ore 23.30 siamo arrivati a casa, felici e contenti della splendida giornata trascorsa in una vacanza indimendicabile!
La fine di gennaio, dopo la Festa dell’Australia Day il 26 di gennaio, con cerimonie e spettacoli in tutta l’Australia, scoperta nel 1788, si ritorna al lavoro, finite le bellissime vacanze estive!
Si aprono pure le scuole al nuovo anno e si chiudono ai primi di dicembre.
Un giorno la nostra amica, che eravamo insieme a Dromana, mi telefona per dirmi che la figlia e il genero, erano tornati dall’Italia e avevano portato qualcosa di prezioso che era esposto nel giardino davanti la loro casa, c’invitavano a venirlo ad ammirare.
Difficile a crederci, nella loro magnifica casa a due piani e nel loro magnifico giardino, splendeva, in tutta la sua fulgida bellezza la statua di Davide di Michelangelo, in una copia perfetta.
Si erano innamorati della statua visitando Firenze e l’avevano ordinata ad un grande scultore e poi fatta venire a Melbourne e fatta installare nel loro giardino, siamo rimasti stupefatti ad ammirarla, contemplarla, trattenendo il fiato per la straordinaria sorpresa!
Abbiamo brindato a questo bell’avvenimento con infinita gioia e allegria.
Intorno all’elegante staccionata della casa in mattoni bianchi, c’era un brulichìo di gente e bambini che scherzavano guardando la bellissima statua.
Abbiamo salutato tutti con le mani alzate e il sorriso gioioso e siamo andati via felici.
Stavo sempre pensando a questa bellissima idea, di avere in giardino una meraviglia di grande prestigio storico, che i nostri giovani amici avevano realizzato.
Avere un pezzo famoso della nostra Italia in giardino davanti casa, era meraviglioso, attraente, stupefacente e anche commovente. Qualcosa di originale e straordinario avere il Davide in Australia.
Pochi giorni dopo, guardando il news alla tv, ascoltai interdetta ciò che diceva il giornalista:
Una vergogna in una casa a Melbourne, una statua italiana di un bel giovane nudo, fa bella mostra nel loro giardino davanti la casa, una cosa oscena, visto la grande folla che si ferma a guardare ammutolita, questa assurdità di un uomo completamente nudo esposto al pubblico. Specialmente i bambini, le ragazze, i ragazzi, qualsiasi passando da lì, si ferma a guardare e ridere scandalizzati, non si può accettare una simile sfrontatezza, il comune interverrà per rimuovere questa cosa vergognosa, che fa arrivare bambini e ragazzi tardi a scuola e le persone tardi al lavoro, per stare lì a godersi questo stupido spettacolo.
Intanto tutto era trasmesso in tv, anche la casa a due piani e la statua alta e stupenda che troneggiava nella sua sfolgorante bellezza, tanta gente attorno a guardare affascinata la statua.
Rimasi allibita da tutto ciò, guardavo disgustata il video che trasmettevano insieme al telegiornale in tutti i canali, il news era uguale su per giù in ogni canale, per mostrare a tutti quest’evento…
L’indomani, ancora sconvolta, telefonai alla mia amica, mi rispose piangendo:
My darling, non possiamo ancora rassegnarci a capire questo disonesto e assurdo imbroglio, ma non sanno cosa significa una cretinata simile? Ma sono davvero ignoranti? Sai my sweet friend, dopo tanti battibecchi con le autorità, sono scesi ad un compromesso, o coprono la parte vergognosa, o devono rimuovere la statua.
Sai cosa hanno pensato di fare i ragazzi? Hanno coperto la parte della vergogna con una bandiera australiana, così il bel Davide, ha in mezzo le gambe la bandiera australiana.
Il Davide di Michelangelo a Melbourne, è Italo-Australiano!
sez. b – accetto il regolamento
LINDA MOTTI SEZIONE A ACCETTO.IL REGOLAMENTO
Ti vidi all’ improvviso fra le grate di una cella
amarti divenne solo.una promessa
mi sfioravi lento con le tue parole
divennero l’eco di uno sparo
Secondo me, Linda, le persone evocate in questa tua bella poesia e quelle suggerite da A. Alban nella poesia del 7 maggio si conoscono, o addirittura sono le stesse!
LINDA MOTTI SEZIONE B ACCETTO IL REGOLAMENTO
INFURIA TEMPESTA
Infuria, per dio, infuria tempesta meditabonda taci alchimia di neuroni fissi come chiodi sfulmina sgrandina becchi d’uccello che planano in soccorrere pietade pietà l’acqua scanner voglio buttarmi in spazi aperti notturni giù più giù ancora a esalar l’ingiuria l’offesa diario nauseabonda come fece quell’ aspra angelica luce che morì in poltiglia sotto dall’alto fatto colomba intrisa di candido orrore che ingoiava strappando le membra sanguinanti negli anfratti attanagliarti i denti e con essi morso a brandelli la mia espiazione doveva essere infinita strematica nell’anima mia venduta allo schifo di vivere, allo schifo di vivere non son più capace oh mia testa indomita e dolorosa di scalpelli battuti su ferri della colpa mia avvinghiata alla neritudine del mio grido mantide pronta a caderti in ginocchio sventrandole con l’ aguzzarsi del cervello a te dono a te mortale e ammazzarmi lungo il dirupo della pena perché l’io scioglie i tuoi legami ho inghiottito il veleno per sputarlo a te enorme faraone di pietra disintegrata ai tuoi piedi lacrimando mi sono data.
L’amore ti fa bella
L’amore ti fa bella, ti dà luce
sconvolge le mie inerzie e tira dritto
mi adopera le mani, mi confonde
col fiato che mi lasci a mezza bocca.
Dinoccolo le braccia disarmate
l’ossigeno al cervello trova il vuoto
nel vortice di trottole stropiccia
quegli ultimi brandelli d’intelletto.
Eccoti gli occhi, che avevo lì perduti
tra fogli in lungomari controvento
dentro la luce che non s’è mai spenta
sopra la testa di me e te a specchio.
Accetto il regolamento – Sez. A
Angelo. Poesia sez. A .Accetto il regolamento
Gemma intorno
Sembra
che il cielo
raccolga le nuvole
intorno,
si circondi
di sussulti laboriosi,
un dolore spaurito
di raggi in fuga
per il mondo,
si sollevi
a cercare il dono
dei sogni
perché sia
un desiderio raro
sulle palpebre
che amo. Io adulatore
di bianche mani,
di occhi
sulle case di paese
di dolce effetto,
un miscuglio
dei miei baci
che arrossano la tua pelle.
Sembra
che il lato buio
della stanza
nasconda le gioie
d’infanzia,
c’è un trastullo
di voci di donne
ridenti
prima che gli occhi
si aprano.
Non possiamo sfuggire ai nostri peccati
(Your sins will find you)
Dopo appena sei giorni il silenzio fra di loro divenne regola.
L’improvviso affondamento della nave, il piccolo ed antiquato cargo che faceva rotta tra il Mar Nero e l’Olanda, era stato come un incubo. L’incidente era capitato a notte fonda, al largo delle coste Galiziane, quando un solo uomo era di veglia; ma l’ufficiale in seconda, il sonnacchioso Hasan Demir, di turno in quel momento, non si era rivelato all’altezza della situazione.
L’esplosione in sala macchine aveva causato uno squarcio enorme ma l’uomo, prima di riuscire a capire di cosa si trattasse, aveva tentennato sul da farsi, ed aveva in tal modo irrimediabilmente compromesso il destino dell’equipaggio. In meno di cinque minuti la nave era colata a picco portando con sé nove uomini e, cosa inaudita, nessuno era riuscito a lanciare un SOS.
I sopravvissuti erano solo tre: il comandante, il suo secondo ed un assistente cuoco.
Il capitano Walsh era un uomo dall’età indefinibile, magro, dal volto affilato come la lama di un coltello, i capelli biondi e gli occhi celesti che spiccavano come cristalli su di una carnagione incredibilmente chiara. Si diceva fosse inglese, ma nessuno a bordo ne era sicuro; non era mai stato visto bere una birra, e nessuno era riuscito nemmeno ad entrare nella sua cabina per cogliere qualche indizio che ne rivelasse la nazionalità. Solo la sua proverbiale riservatezza era nota a bordo.
Il secondo sopravvissuto era il vicecomandante che era di guardia la notte del disastro. Nativo di Istanbul, Hasan Demir aveva una cinquantina d’anni che tuttavia non dimostrava. Era piccolo di statura, aveva capelli neri ed una folta barba che gli incorniciava il volto sul quale due guance perennemente rosse erano divise da un imponente naso. Nonostante la gravità dell’accaduto sembrava aver superato la cosa con apparente noncuranza.
L’ultimo passeggero della scialuppa era un uomo di colore. Jamal Al Kharsi veniva dal Senegal e lavorava nella cucina di bordo. Giovane ed atletico era sempre di buon umore, persino ora, nella situazione di emergenza nella quale i tre si trovavano. La scialuppa, che Jamal era riuscito disperatamente a sganciare pochi secondi prima che la nave si inabissasse, era quasi totalmente priva di qualsiasi cosa potesse loro servire per sopravvivere in mare. Il piccolo apparecchio radio era fuori uso, e le razioni di viveri ed acqua che avrebbero dovuto trovarsi sotto ai sedili erano meno di un quinto di quelle previste. Una tela cerata e cinque razzi di segnalazione marciti a causa dell’umidità erano tutto ciò che avevano a disposizione. Solo il comandante, prima di finire in acqua, era riuscito a salvare il coltello multiuso dal manico in osso che abitualmente teneva nella tasca dei pantaloni.
Così, maledicendo ora l’armatore e la sua taccagneria, ora la malasorte, si trovavano oramai da una settimana in balia dell’Oceano Atlantico, ormai quasi senza viveri e con la certezza che nessuno li stava cercando.
Dopo i primi giorni di adattamento i tre sembravano aver trovato una specie di equilibrio tra loro. Al giovane cuoco spettava ancora il compito di dividere i viveri residui sotto l’occhio attento degli altri due; le iniziali discussioni tra il comandante e il suo secondo su cosa potesse essere successo, avevano lasciato il posto a sempre più lunghi silenzi, rotti solo dai fischiettii del giovane senegalese mentre con la cerata cercava di recuperare un poco di acqua piovana dagli sporadici acquazzoni che li investivano.
A una decina di giorni dal naufragio la situazione si era come cristallizzata; nulla accadeva di diverso giorno per giorno, e i tre uomini passavano un’ora dopo l’altra come in trance. Solo il sig. Walsh rimaneva ostinatamente in piedi, riparandosi gli occhi con una mano scrutava l’orizzonte in tutte le direzioni alla ricerca di qualche nave che li traesse in salvo.
E proprio lui si era rivelato il più debole del terzetto. Si agitava sempre più spesso inutilmente sulla scialuppa passando da un capo all’altro dello scafo, impartendo ordini insensati ai compagni che lo osservavano senza capire. La situazione drammatica gli aveva dato alla testa, o forse si sentiva gravato di responsabilità più grandi di quanto non riuscisse a sopportare, sta di fatto che il sig. Walsh era diventato un peso più che una risorsa per i suoi compagni. Qualche occhiata furtiva ogni tanto scattava tra il secondo e Jamal, ma subito gli sguardi si abbassavano per quella sorta di complicità nascente.
Fino a che una mattina Jamal, svegliandosi, trovò davanti a sé solo il turco, addormentato come sempre di traverso su fondo della barca.
– Ehi, capo Hasan, dov’è finito il comandante ? – esclamò allarmato.
L’uomo aprì lentamente gli occhi, infastidito da quella voce, e senza voltarsi rispose sgarbatamente:
– Hai provato a guardare in sala macchine…? o forse no, meglio nella sua cabina … – sogghignò mettendosi a sedere.
– Mio Dio – continuò il giovane – ma com’è possibile, sarà caduto in acqua stanotte … era buio pesto, forse è inciampato, e col mare mosso
sarebbe stato difficile distinguere il rumore di una caduta dallo sciabordio …
Il turco, senza nemmeno fingere di guardare tra le onde, rimase immobile a fissare un punto lontano all’orizzonte, come cercasse di forare la foschia con lo sguardo per individuare terra. Immobile, senza rispondere, solo annuendo lentamente col capo, quasi stesse suggellando con quel gesto l’inevitabile conclusione cui erano destinati, preceduti forse solo di qualche giorno dal comandante.
– Purtroppo -riprese il cuoco – siamo rimasti solo noi due.
– Già – rispose il vecchio – solo noi.
Poi, voltandosi con studiata lentezza verso Jamal, gli disse scandendo bene le parole:
– Quindi i pochi viveri che spettavano al sig. Walsh ci daranno qualche giorno in più di possibilità, vero…?
Jamal non rispose, ma annuì abbassando il capo in segno di comprensione.
– Bene – continuò il turco tornando a sdraiarsi – bene.
Quella notte Jamal quasi non chiuse occhio. Il pensiero del comandante che scompariva tra i flutti non lo abbandonava, anzi l’immagine che si era costruito nella mente, l’uomo che affoga tendendogli disperatamente le mani, lo faceva sentire quasi in colpa per l’accaduto.
L’alba lo trovò ancora vigile, mentre il secondo continuava nel suo sonno ostinato.
Al momento di dividere una delle ultime scatolette di carne residue, qualche ora dopo, Jamal rimase di stucco vedendo comparire nella mano di Hasan il coltello che era stato del comandante.
La sua sorpresa non passò inosservata al turco, che maneggiando la lama con insospettata abilità, divise con un colpo secco in due parti uguali la porzione e con fare brusco gli chiese:
– Che ti prende Jamal, non fa lo stesso se sono io a dividere il cibo?
– Certo capo Hasan, solo mi chiedevo… quel coltello…
– Non farti strane idee, l’ho trovato sul fondo della barca dopo la scomparsa del comandante.
Il giovane abbassò il capo, non riuscendo a sostenere lo sguardo deciso di sfida dell’altro. Tuttavia riuscì a controbattere:
– …ma capo, lei è stato quasi tutto il tempo addormentato, e non si è mai mosso da lì…
– cosa vorresti insinuare ?? – quasi urlò il turco alzandosi di scatto e brandendo minaccioso l’arma.
– Nulla, capo, si calmi, non voglio dire nulla – rispose Jamal in modo remissivo
– Bè, meglio così – concluse l’altro dandogli la schiena e cominciando a masticare rabbiosamente l’ultimo boccone di carne del giorno.
In quel momento Jamal comprese che la propria vita era in pericolo; la reazione del turco alla sua osservazione era stata spropositata ed il fatto che gli avesse nascosto d’ aver ritrovato il coltello suonava per lui come una implicita confessione.
Oltre al pericolo tangibile del naufragio, della fame, della sete e con le poche residue possibilità di sopravvivenza, ora doveva anche convivere con l’ansia della presenza di Hasan, un uomo di cui non si fidava più e col quale doveva condividere quello spazio ristretto.
E fu proprio il giorno dopo, mentre in piedi scrutava l’orizzonte in cerca di qualche aiuto, che il turco colpì. Passandogli dietro con insospettabile agilità gli diede un possente spinta che lo catapultò fuori dalla barca. Quando riemerse dall’acqua gelida non gli restò che urlare:
– capo Hasan, hai fatto lo stesso anche col comandante vero?
Il secondo, seduto al centro della scialuppa, lo guardò quasi divertito, e senza alcuna emozione nella voce gli rispose:
– che differenza fa per te saperlo ?
– mi faccia salire, presto mi aiuti la prego – disse il ragazzo cercando di avvicinarsi alla scialuppa. Ma non appena cercò di issarsi appoggiando le mani sul bordo della barca lesto l’altro estrasse il coltello dalla tasca e con un colpo deciso lo ferì tagliandogli ripetutamente le dita. Il giovane lasciò urlando la presa, scivolando nuovamente in acqua mentre una grande macchia rossa cominciava a formarglisi intorno.
– Non c’è posto per due su questa nave figliolo. Mi dispiace.
La rabbia livida negli occhi di Jamal copriva persino il dolore alle mani ferite ed il suo sguardo esprimeva un odio puro verso l’altro.
– Che Allah ti maledica, possa tu pagare per la mia e le altre morti le pene di ogni inferno ….un giorno ti ritroverò…- fu l’ultima cosa che Jamal riuscì a proferire prima di venire sommerso da un’onda più forte delle altre.
Hasan lo osservò in silenzio venire inghiottito dall’abisso, pulendosi la lama del coltello sui pantaloni. Poi, dopo un paio d’ore, accertatosi della definitiva scomparsa del giovane con un’ultima occhiata guardinga, si sdraiò nuovamente sul fondo della barca stringendo il coltello tra le mani e chiuse gli occhi.
* * *
Il suo vicino di casa è una brava persona.
Ma pur sapendolo Hasan limita i rapporti ad un semplice buongiorno, scambiato di fretta quando i loro passi si incrociano casualmente durante la passeggiata mattutina mentre l’altro prosegue per il molo cui tiene attraccato il suo piccolo scafo a motore. Al saluto segue immancabile il mutismo più assoluto, una forma di ignorarsi cui il vecchio è abituato.
Perchè Hasan è così, non concede confidenze a nessuno, nemmeno a quelli della propria famiglia. Almeno quel che ne resta.
Di poco oltre i settanta l’uomo vive solo. O meglio, trascorre una vita anonima in una vecchia autorimessa adibita a monolocale; un seminterrato triste, a livello del marciapiede, nella prima periferia di Anadolu Kavagi, l’ultimo centro abitato sulla riva asiatica prima che il Bosforo si apra nel Mar Nero. Il resto della casa, uno di quei condomini di due appartamenti risalente agli anni sessanta, è abitato dalla ex moglie, l’acida Fatma e dalla figlia Nehir con il bambino avuto qualche anno prima frutto di un mai perdonato errore di gioventù.
L’edificio è posto all’inizio di un lotto all’ingresso del paese e si affaccia da una parte sulla strada principale che conduce ad Istanbul e dall’altra su uno strapiombo di un paio di metri che finisce direttamente in mare.
Il terreno, lungo un centinaio di metri, non è coltivato, eccezion fatta per un minuscolo orto attaccato alla casa e per due filari di viti che si sviluppano paralleli in lunghezza sino a finire a pochi metri dalla riva.
Ma l’acqua, in questo tratto fra il Mar Nero ed il Mediterraneo, non è mai particolarmente mossa, tanto che nessuna mareggiata ha mai minacciato il vigneto.
Hasan vive la sua incipiente vecchiaia lavorando nel negozio di piccola ferramenta che gestisce quasi a tempo perso da oltre dieci anni e cura i suoi filari non appena possibile. Non è la vecchiaia agiata e serena che aveva sperato, ma dentro di sé lo sa, è così dal giorno di quel maledetto naufragio, quando la sua vita aveva improvvisamente preso una piega non voluta e tutto aveva cominciato ad andargli storto; la compagnia, dalle finanze già traballanti, a causa del disastro era fallita e lui era rimasto senza lavoro. Nell’ambiente marinaro, ancora così terribilmente superstizioso, lui era ormai additato come una specie di lebbroso, lui era il sopravvissuto, l’unico sopravvissuto, e nessun equipaggio era disposto a tenerlo a bordo.
A seguito di ciò i rapporti con la famiglia si erano irrimediabilmente guastati e a nulla era servito tornare a casa e interrompere le lunghe assenze di mesi come quando era imbarcato; come se non bastasse anche la salute lo stava tradendo.
Un giorno il suo medico, osservandogli le analisi e scuotendo la testa, aveva sentenziato: devi fare del movimento, fai delle passeggiate, esci, cammina insomma.
L’uomo aveva annuito senza proferire parola, com’era nel suo carattere, ed era tornato a casa con ben chiaro in testa come comportarsi. Camminare, gli aveva prescritto il medico, e lui avrebbe camminato. Tutti i giorni, due ore al giorno. Così avrebbe fatto.
Ma di andare in paese proprio non aveva alcuna voglia. Sentirsi quegli occhi puntati addosso come spilli, immaginare le voci dietro le finestre rivangare nel suo passato “ecco, vedi, quello è Hasan, sai, quello divorziato…da giovane andava per mare” oppure, “guarda come cammina con gli occhi bassi, si dice sia l’unico superstite…”.
Sì, li vedeva già complottare, costruire chissà quali supposizioni sul suo conto.
Così aveva deciso una cosa molto più semplice.
Si era comprato un paio di scarpe comode, di quelle sportive per corsa leggera, e aveva disegnato nella sua mente un percorso sul terreno dietro casa, un grande rettangolo i cui lati più lunghi costeggiavano i filari di viti mentre i corti erano da un lato la strada, dall’altro il mare. Poi aveva cominciato a camminare. Inizialmente l’erba alta gli era stata d’ostacolo, ma passaggio dopo passaggio, giorno dopo giorno lui l’aveva avuta vinta. Prima l’erba era scomparsa davanti ai suoi passi, poi la sua ostinazione, che non temeva feste o ricorrenze, era stata premiata dal progressivo comparire di un preciso sentiero sterrato. Passo dopo passo si era creato una pista battuta, una propria corsia personale sul quale impiegare due ore ogni giorno. Mai un minuto di meno.
E come non c’era Pasqua o altra festività che impedisse quel rito, per lui agnostico, così nessuna condizione atmosferica, per quanto avversa, lo avrebbe fermato. Persino sotto alla neve, quando magari già una decina di centimetri caduti durante la notte gli ostacolava il passo, riusciva a identificare il tenue avvallamento della coltre e a percorrere spedito il suo sentiero nonostante i fiocchi cadessero ancora.
Quest’anno settembre è cattivo. La pioggia che cade quasi ininterrottamente da due settimane ricopre il cuore di grigio. Persino la sponda europea, a poco più di un chilometro, sembra scomparire tra quei colori smorti che si confondono all’orizzonte mescolando in una unica tinta case ed alberi come fosse cenere all’interno di una stufa.
I mercantili continuano a passare, in lenta processione, in ambo i sensi; ogni tanto una sirena lacera l’aria per farsi dare il passo da qualche pescatore che si è avventurato nel canale, poi, terminato l’eco disperso nelle anse del canale, torna il silenzio ed il monotono ticchettio della pioggia.
Anche stamattina Hasan sta camminando, come sempre a quest’ora. L’acqua che cade non lo infastidisce più di tanto, semmai è il fango sul sentiero a rompergli il passo rendendogli l’equilibrio instabile.
Il terreno fradicio ormai non ha più capacità di assorbimento e sul suo cammino la terra è solo fanghiglia informe.
Giunto all’estremità del suo giro Hasan si volta per tornare a casa, al coperto, e già pregusta il buon the che si preparerà di lì a poco.
Ma proprio tra la riva e i filari, un piede gli sfugge ed inizia a scivolare verso il mare. Annaspando da terra alla ricerca di una presa l’uomo infila le mani nel fango, ma ormai la leggera pendenza lo sta portando inevitabilmente a cadere in acqua. Con un ultimo sforzo artiglia il terreno cercando un appiglio, ma è tutto inutile, le dita lasciano piccoli solchi nel fango che subito si riempie di acqua piovana. Con un rumore sordo cade in mare e viene sommerso dall’oscurità. Immediatamente l’istinto prende il sopravvento e l’uomo inizia a dibattersi e nuotare per raggiungere la riva che ha proprio lì, ad un metro dalla sua mano.
Ma qualcosa lo ostacola, qualcosa gli impedisce il movimento delle gambe. Terrorizzato Hasan guarda sotto di sé cercando di togliersi di dosso il giaccone impermeabile. Ma anche questo gli è impedito, qualche cosa che non riesce a definire lo sta gradualmente immobilizzando. Sono alghe, rami di alghe che sembrano danzargli intorno, portate dalle correnti e che gli si sono avvinghiate alle caviglie e intorno al corpo. Hanno la forma di braccia, lunghe e potenti braccia nere, tra le quali inorridendo gli sembra di riconoscere un volto, quello di Jamal. E’ un viso ancora giovane, e si protende verso di lui con un ghigno che gli ricorda quello di un teschio; le orbite vuote lo guardano dritto negli occhi e da quel vuoto sembra uscire una voce: sono tornato a prenderti.
Il terrore lo attanaglia e cerca disperatamente di divincolarsi. Ma la presa delle alghe resiste e un fascio gli avvolge il collo e lo trascina ancora più giù, sempre più verso il fondo. Ormai l’uomo è in preda al panico, quando ricorda di avere il coltello, quel coltello, nella tasca.
Con un gesto disperato lo afferra e febbrilmente cerca di recidere le erbe che lo avviluppano. Ma mentre sta per accingersi a tagliare, dall’oscurità sottostante appare una macchia bianca, un grande polipo che con mosse lente e sinuose, come fosse al rallentatore, con un tentacolo gli si avvinghia al braccio e con un altro gli strappa il coltello dalla mano.
Hasan capisce che non riuscirà mai a liberarsi da questi fantasmi, ed è questa come una rivelazione, una liberazione per l’uomo che smette di dibattersi.
L’ultimo pensiero di Hasan è per i suoi filari di vite, si immagina a primavera con le forbici in mano a potare, con l’aria tiepida di fine aprile che gli accarezza il viso… poi un dolore acuto al petto lo scuote un’ultima volta e tutto il resto diventa buio.
Piero Pullini – Accetto il regolamento. Sez. B
Davvero molto bello, anche se il finale è un po’ prevedibile. Solo una cosa: visto che Hasan probabilmente è mussulmano, al posto di Pasqua avrei citato una festività islamica.
Un’altra cosa: molto suggestivo il fatto che Hasan cada in mare scivolando lungo il sentiero che lui stesso ha
“creato”
FUOCO D’AMORE
E, dopo, ti chiamai brace
per quell’ardore sommesso,
per quell’inquietudine audace
che brilla nei tuoi occhi
anche sotto un cielo sereno.
E mi piace ricordarti così,
di profilo come una regina etrusca,
stagliata contro la luce del giorno,
impegnata a scrutare un sogno
troppo fragile per farne parola.
Piero Pullini – Sez. A – Accetto il regolamento
Perdendomi
Nel vuoto nel quale fluttuano
materia e spirito,
si riempie di arzigogoli paradossali,
soffocando come gramigna
quel poco di spazio vitale.
Mi apro senza pudori
nell’assurdità dei fatti,
sei il mio canto di libertà.
Ogni giorno è uguale a mille altri.
All’angolo di una piazza ti aspetto,
ma non arriva mai …
Decreto la rinuncia
alla partecipazione
al tempo che scorre,
perdendomi nei meandri
del tempo che non torna più!
Antonio Pittau
Accetto il regolamento
LINDA MOTTI SEZIONE A GIUSTO, ACCETTO IL REGOLAMENTO
TI vidi all’ improvviso fra le grate di una cella
amarti divenne solo una promessa
mi sfioravi lento con le tue parole che in quel silenzio
divennero come l’eco di uno sparo.
Sofferenza sociale – insufficienza artistica
Ho dei problemi psichici e sessuali
perciò non trovo neanche chi mi abbracci,
nessuno sta con me (sono letale,
per l’ego) e quindi sono sempre solo:
non c’è chi viva insieme a me una storia
strana, anormale – unica e fantastica –
chi rinasca ogni istante e pur rimanga
vero e identico sempre, insieme agli altri;
avrei bisogno in giro non ci fosse
tutta questa violenza, che ci offende
fino al cuore del cielo e della terra
che vanno sempre insieme, e che gli umani
si trattassero come dei bambini
dove tutto “era” gioco e il male un soffio,
attimo che sparisce con un bacio –
il poco che non dura né spaura;
sono un’anima forte e delicata,
smembrata da chi perde l’infinito
accumulando pezzi – Frankestein,
mostro senza costrutto che nessuna
scarica artificiale può far vivere;
così l’umano ha rovinato il mondo,
si nuoce gravemente alla salute:
per carità, scendete dalla croce!
Sono Dio, mi sentite: anche in voi stessi;
l’infinito che siete e violentate
costringendovi in gabbie di terrore,
facendovi la guerra tra illusioni –
fantasmi che si straziano, convinti
che gli altri sian là fuori e non in sé:
non vedete l’immensa comunione,
fioritura perenne in varie forme?
È mio ogni nome, tutto in me si trova
e riconosce briciola di pace,
parte di pane eterno e universale:
guarda il mio volto in quello di ciascuno,
trova le mani con cui lavorare
e fa’ i conti con l’incommensurabile,
renditi canto e componiti al tutto,
semina gloria – consapevolezza;
ai corpi piace toccarsi, attraverso
l’Altro – al di là dei limiti mentali,
morte, per traguardarsi oltre tu ed io:
fondersi, e poi tornar più ricchi e gravidi
di quell’amore che c’informa e supera
per trasmetterlo ad altri – farne fiato
unico, e nuovo aspetto dell’eterno
che viaggia in tutti noi e ci trascende;
ci comprende e trasmuta, trasfigura –
per piacere, smettete la tortura:
siete fatti di tutto, non sentite
le ossa nel clima e il bene tra le stelle?
Ogni cosa è tuo padre e madre insieme,
tuo fratello e sorella, figlio e figlia:
la vita è proprio questo render grazie,
in spazio e tempo, all’infinito amplesso…
(Sez. A, accetto il regolamento.)
Sezione A. Accetto il regolamento.
La notte.
Nelle pause degli alberi
oltre la luce sudata dei lampioni
a ridosso di finestre perplesse
densa in ogni angolo smussato
passeggia notte.
Fluida e calda
fino al silenzio degli amanti
avvolta ai sogni di chi non dorme
tra pieghe di pensieri che non sa,
eppur risponde.
Pura come una bestemmia.
Intriganti la luce sudata dei lampioni, le finestre perplesso…
Sezione: “B”
Accetto il regolamento. 02/06/2024
Spiragli.
Mi torturavo nell’incertezza, ma sapevo di essermi già arresa da troppo tempo.
Ricordo che fin dall’adolescenza respingevo i ragazzi più brillanti ed intelligenti per infatuarmi in maniera ossessiva di quelli belli, vuoti e senza un briciolo di capacità intellettiva che facevano di loro tante piccole nullità.
E’ per questo che avevo sposato proprio quello peggiore?
Solo perchè lui era alla ricerca della classica sistemazione o forse perchè io ero una graziosa e disponibile donna e fra le altre cose assolutamente non gelosa?
Non avevo mai affrontato questa ipotesi, probabilmente ero una sciocca ragazzina pure io, ma con una gran voglia di apprendere, di capire, di informarmi su come girava il mondo.
Lui era la classica ameba, lavoro manuale a contatto con la gente ad intavolare sciocche discussioni ed a lecchinare clienti con un servilismo che io non tolleravo.
Era ignorante per vocazione: mai visto con un libro né un giornale in mano, giuro.
Ma ormai era tardi per fare marcia indietro, sarebbero bastati pochi mesi e poi sarei riuscita
ad avere quella consapevolezza che mi avrebbe aiutato a capire in tempo ed a svignarmela.
Mi fermai, ero stanca e quindi mi dissi : Sarà quello che sarà, ora non devo pensare.
Ci sono riuscita per un discreto numero di anni, ingoiando bile e ribellione.
Quest’ultima ha avuto la meglio in parte.
Pur continuando a vivere insieme per troppi motivi, me lo sono letteralmente scrollato di dosso, mi sono creata il mio spazio e la mia vita, non eclatante ma serena.
Un ambiente tutto mio dove pensare, scrivere, coltivare amicizie ed iniziare anche a guardarmi intorno, oltre la finestra, oltre il silenzio e le grida.
Dedali di vicoli sotto casa e bar, negozi di arredi, vecchi gioielli e chincaglierie con la voglia di concedermi qualche pazzia.
Ho ancora tanta voglia di vivere quella vita che non ho mai vissuto prima, spendendo i miei soldi, continuando a camminare in silenzio, con un sorriso sciocco sulle labbra avvertendo per la prima volta un’improvvisa sensazione di intimità con tutto il resto del mondo.
Il Ritorno
Era sempre uguale quella spiaggia di sabbia fine a ridosso della piattaforma di assi di legno. I tavolini del bar stavano ancora posizionati a cerchio, come ogni stagione e ogni anno si ripeteva il rito dell’estate e dei turisti e i loro tristi affanni. Da lì il mare era sempre più azzurro, potevi perderti tra le acque ed annegarci i tuoi pensieri. Potevi esplodere dentro il cristallo trasparente e riflettere tutta te stessa annegando fino in fondo all’abisso per cercare un castello inventato.
Eppure i bagnanti sembravano persi nelle loro materiali e banali azioni quotidiane, quasi fosse normale stare lì, come fosse ovvio sedersi di fronte ad un tale scenario di pura bellezza. Venivano ogni anno per mostrare i loro corpi al sole e cercare riparo dai colpi dell’inverno sceso come una dura accetta sulla loro fragile esistenza. Erano corpi giovani e freschi pronti a sbocciare alla luce del giorno, corpi maturi e disfatti spesso celati dietro coltri d’abitudini e gesti ripetuti, corpi ingenui, impauriti, spaventati, sicuri di sé, ostentati.
Seduta al suo tavolo Olga vedeva tutto, sola per la prima volta a ricevere miliardi di sensazioni. I suoi occhi si posavano sui numerosi turisti che affollavano la piattaforma quel principio di agosto: una nuova ondata di gaudenti vacanzieri certamente. Discorsi e conversazioni d’ogni tipo e quel cicaleccio la faceva volar via, verso altre realtà, diverse dalla sua storia di solitudine. La solita mamma preoccupata per il bagno del figlio, o la coppia di fidanzati che litiga o la nonna che la nipote adolescente non rispetta mentre invano cerca di imporre la propria autorità. Eccoli lì, gli innamorati che si perdono in una vacanza voluta da tempo. Sono belli, giovani, hanno proprio tutto tranne la joie de vivre…..
“E’ sempre la stessa storia – non mi ascolti.”
“Ti ascolto invece, non posso fare altro, mia cara Valentina.”
“Mi avevi promesso, niente computer in vacanza, Andrea. Detesto vedere i tuoi occhi dentro lo schermo”
“Dovrei guardare te invece? Non mi hai neanche ringraziato per questa vacanza e per aver annullato il mio meeting a Parigi”
“Ho rinunciato anch’io a qualcosa per venire qui. Lo sai che mi aspettavano a Milano per quella conferenza”.
Un bagliore di luce la colpisce. Dando lustro al suo volto. Ha i capelli lunghi e neri ed un colorito particolarmente pallido forse anche per i diversi strati di protezione solare spalmati in fretta e furia per non far tardi a colazione e non provocare l’ira di lui. Aveva voluto quella vacanza intensamente, il loro rapporto non va bene da tempo, l’ultimo tentativo, un ultimo viaggio in barca per riafferrare anni di amore. Lui non sembra così disperato, forse sta tentando di lasciarla andare. Come sarà senza di lui? Oppure è solo la paura di sentirsi sola che la spinge ad afferrarsi sempre più forte a quel tronco che la marea sta portando via?
La nonna sta gridando in lontananza. La nipote non vuole uscire dall’acqua. Molti bagnanti si voltano allarmati.
“Stai in acqua da ore, la mamma arriva nel pomeriggio e dobbiamo rientrare subito.”
“Non ho nessuna intenzione di obbedirti, non sei mia madre”
“Non rispondere così a tua nonna, sono qui per te. Lo sai bene quanto si preoccupi la mamma”.
“Meno male che mamma torna più tardi!”
“Me ne vado. Per quanto mi riguarda puoi tornare da sola.”
“Non me ne frega niente, nonna”.
“Vediamo se ritrovi la strada o non sei piuttosto capace di chiamarmi col telefonino”. Era stanca d’essere offesa da sua nipote. Ma come andar via e lasciarla lì? Non aveva animo. Avrebbe aspettato ancora un po’.
Olga proprio non si ritrova tra questi vacanzieri infelici capaci solo di sprecare il loro tempo. Se potesse parlare e spiegar loro l’importanza del tempo che fugge. A quest’ora lei e suo marito starebbero senz’altro in acqua a rincorrersi sul fondo, unico ambiente capace di unire tutti al di là di ogni possibile divisione. I colori e i giochi di luce riuscivano ad attrarli al punto da dimenticarsi del resto del mondo e del trascorrere del tempo. Solo loro alla ricerca dei misteri più nascosti, a immaginare velieri naufragati in fondo al mare o castelli abitati da splendide sirene e magici tritoni.
Sì, la loro vacanza non poteva non svolgersi al mare, ogni anno senza eccezione. Si erano innamorati lì e avevano deciso di tornare ogni anno. Il ritorno sarebbe stata una conferma del loro amore. Un amore senza figli, senza ricordi da lasciare, senza storie da raccontare. A volte si sentiva come la protagonista di un racconto, una solitaria principessa imprigionata in un castello. Perché principessa era come lui la faceva sentire nonostante i segni del tempo e lo sguardo che non riusciva ad andare oltre l’orizzonte. Principessa, sì, perduta in una storia senza tempo e senza spazio, una libellula leggera in cielo. Si sarebbe alzata.
Ancora agitata per la discussione Valentina sentì come una brezza gelida che le passava accanto.
“Hai sentito anche tu questa corrente d’aria?”
“Sei pazza? Ci sono trenta gradi all’ombra. Valentina! Dove vai?”
Doveva parlare con qualcuno, la sensazione di freddo era troppo forte per essere ignorata e proveniva da qual tavolo vuoto, vicino il parapetto prospicente il mare.
E fu proprio il barman a dirle che nessuno sedeva mai a quel tavolino, anno dopo anno. Era il posto preferito di Olga, una giovane vedova, morta annegata dieci anni prima.
sez. b, accetto il regolamento
Complimenti. Solo alla fine, rileggendola, si capiscono alcuni accenni (potevi perderti tra quelle acque e annegarci i tuoi pensieri… Annegando fino in fondo all’abisso… E quel: “Si sarebbe alzata”, che non è un banale alzarsi dalla sedia ma…
Cenere d’alba su Gaza
E venne l’alba sul rosa di una terra
senza sole, tra morbide colline
perdute tra bagliori di cocci sguinzagliati
come notte di petardi accesi.
Alba offuscata, intrisa di polvere
a coprire l’innocenza cancellata,
bimbi già nati nella morsa di catene
troppo strette, sposati al vento
come giocattoli rotti o troppo usati.
Pioggia di lacrime di mamme disperate,
tonfi improvvisi e sordi tra macerie
e poi le urla, a lacerare gli occhi,
su pelle rossa sparsa incandescente
tra fuochi e scoppi sotto cieli cupi
e smorfie di universi inesistenti.
Non più sorrisi ma colori senza luce
su crepe di mura sinistre e fatiscenti,
nulla su nulla in mucchi di dolore e
mani incerte in stille di disseccata linfa.
Manca la terra, le scarpe solo sfiorano
carne nuda stesa a memoria sulle travi,
mancano gote rosee e risa di fanciulli
smarrite dentro cerchi di memoria.
Ceneri d’alba senza occhi sul domani,
giovani vite su bieche grate di cemento,
fiori appassiti sul fumo di inutili speranze.
All’alba Gaza insegue note senza suoni
tra rulli di tamburi e cieca indifferenza.
sez. a, accetto il regolamento
Aspetto con ansia una poesia dedicata agli uomini, donne, bambini/e e creature non ancora nate trucidate da Hamas il 7 ottobre (tra l’altro data simbolica, essendo l’anniversario di Lepanto. A noi non interessa, a loro oh se interessa!)
Poi è giusto che la sensibilità di ognuno accenda i riflettori su un punto piuttosto che su un altro, ci mancherebbe. Soprattutto se (ma qui entriamo nel personale) con grande dignità artistica come in questo caso
Sezione B accetto il regolamento
Un fantasma bellissimo.
Hada era giunta in città. Il filo che la univa alla famiglia s’era spezzato. Aveva scorso gli annunci sul giornale e si era presentata al civico 36 di una via del centro. L’indice sul campanello. Nella porta aperta una donna grossa la fissava.
“Sono la domestica che…”
“La domestica?” Sul suo viso una smorfia. “Sembri una ballerina, magra come sei.
Qui non c’è lavoro per te.”
“Aspetti!” Lei urlava. La porta si chiudeva. Le braccia spingevano. “Il lavoro non mi spaventa, vengo dalla campagna, io”.
I piedi di Hada si posavano con rispetto sul pavimento di piastrelle e gli occhi perlustravano la stanza: strisce di tappezzeria s’alternavano sui muri, per terra barattoli di colla e rotoli in attesa; più in là, isolato come un mango, un divano in finta pelle.
È una casa bellissima, pensava e inspirava odore di calce.
La donna la guardava dall’alto come una statua.
“C’è da lavare, cucinare, ramazzare, ho cinque figli io e la nonna ammalata”
Dalla bocca le parole veloci. Hada ascoltava.
Improvviso un colpo sulla schiena l’aveva fatta traballare. La donna rideva, gli occhi affondati nella faccia, la mano in alto.
“Sei come ramo di jacarà, si piega ma non si spezza. D’accordo, mi hai convinta, ti assumo”.
La giornata di Hada iniziava all’alba, nella fila di abiti colorati fermi sul marciapiede. Il camion dell’acqua arrivava, i secchi per terra pronti a ricevere il prezioso liquido.
Non devo versarne una goccia, ripeteva mentre tornava a casa.
Hada preparava la colazione, vestiva i piccoli e li accompagnava a scuola, dribblava fra i banchi del mercato e setacciava la merce con lo sguardo, poi sceglieva: la padrona si sarebbe arrabbiata se i pomodori non fossero stati maturi!
Camminava dritta. Il cesto sulla testa. Nelle orecchie i fischi dei ragazzi che la sbirciavano e sparivano.
Mentre la pentola sbuffava, Hada si consumava le unghie sfregando le macchie sulle tute dei giovani. Dalla camera la voce della nonna insisteva, lei strofinava i palmi sul grembiule e correva.
Quando la mano tesa della notte sfiorava quella del giorno, Hada tirava un sospiro di sollievo.
Si chiudeva in bagno col sorriso sulla faccia: chi l’aveva mai visto un bagno? Non lei, abituata a fare i bisogni in un buco lontano da casa.
La cosa più strana, però, era la doccia. Le dita agivano veloci sul rubinetto, gli occhi aspettavano fissi sull’aggeggio pieno di buchi. Ma l’acqua non usciva.
Non importa, pensava, uscirà quando l’impianto sarà finito.
La padrona diceva che presto sarebbero arrivati i soldi.
Ma chi inviava sempre soldi? Hada ci aveva messo un po’ a capire che era la figlia grande; lei lavorava all’estero e guadagnava molto.
Seduta sul divano Hada si chiedeva che faccia avesse la ragazza che tutti nominavano con rispetto. Sicuramente era bellissima, ma la cosa che l’affascinava di più era il suo potere: un potere più forte di quello del nonno, un potere simile a quello di un dio.
Il denaro è il suo alleato, pensava, non c’è famiglia che abbia tanto per merito di una ragazza!
Ad Hada non sembrava vero: la misteriosa giovane pensata e sognata, ora le stava davanti. Aveva i capelli lisci, le guance color biscotto appena arrossate, le labbra lucide. Indossava jeans stretti e una camicetta a fiori, ai piedi scarpe appuntite col tacco. Hada la guardava come si guarda un idolo nella casa del dio.
Lei rideva.
“Perché mi fissi? Non sono un fantasma!”
In un certo senso lo era, almeno per Hada; un fantasma bellissimo, però.
La ragazza, la domenica, portava i fratelli al mare con la macchina. Caricati i bagagli saliva a bordo e sbatteva la portiera rossa di polvere. Hada guardava la vettura sbiadita che sobbalzava sulle buche come crateri. Poi, s’aggirava per casa a cercare borse, vestiti, trucchi, riviste; con la scusa di far ordine, li prendeva in mano, li guardava: come sarei felice se …
Scacciava quel pensiero. In fondo era soddisfatta: anche lei col suo lavoro sfamava la famiglia.
Hada aveva deciso: avrebbe usato tutto il coraggio per parlare alla ragazza prima che ripartisse.
Le mani piegavano abiti e magliette, gli occhi erano fissi sul viso davanti allo specchio.
“Se vuoi qualcosa dillo” le aveva detto la giovane senza voltarsi, “avanti…coraggio”
Lei, inspirava.
“Che… lavoro fai in Europa?”
“La parrucchiera”
“Anch’io…anch’io vorrei fare la parrucchiera, è il mio sogno, dimmi… come…”
La risata riempiva la stanza.
“E’ facile. Basta che tu vada in agenzia, penseranno loro a tutto, ti scriverò l’indirizzo”.
Il giorno dopo Hada aveva attraversato la città disidratata, polverosa, maleodorante. Era salita di corsa su una scala dai gradini sbeccati, fragile spina dorsale di un palazzo scalcinato. Era entrata in un ufficio dalle pareti macchiate; un tizio grosso come uno scaldabagno era dietro alla scrivania.
“Tu vuoi fare la parrucchiera in Europa?”
Le aveva chiesto.
Lei fece sì con la testa.
La risata nella stanza.
“Metti una firma qui, tra un mese avrai i documenti e il biglietto”
La penna tremava nella mano: Hada non ci credeva che quel lurido ufficio fosse una catapulta che la lanciasse lontano, oltre il mare.
Ho girato e rigirato
intorno alle parole.
Le ho piegate, stropicciate.
Le ho confuse e poi strappate.
Ho cercato di farle volare,
ma si sono perse in un cielo di suoni.
Allora ho coccolato il silenzio
e mi ha sussurrato che t’amo.
© Daniela Giorgini – Sezione A – Accetto il regolamento
Daniela, forse la tua poesia migliore: descrive in modo appassionato il lavoro
del poeta, che secondo me è creare spazi di silenzio intorno alle parole. Permettimi un piccolo appunto: avrei finito con “E mi ha sussurrato ti amo”
POESIA
Al crepuscolo dei sensi, m’avvolge
cautelosa, di fiamma temeraria,
questa mia poesia
che ammaliziando vibra d’essenze
in ogni corda, in ogni fiato.
Arrossa di rabbia la tristezza
del tempo ladro che con destrezza
la vita mi ruba, senza rimorsi,
estraneo di poetico amore,
d’impenitente carnale.
Di me è parte e di rosa appassita,
riottosa al grigio, all’empio
d’un frale silenzio rima,
in stasi e quiete vitale passio
che tutto muove in crudeltà.
Succhia gli olezzi del mio mondo
eppoi tracima dal pozzo dell’anima,
più in là intima spira soave
alata di goffe fragili delizie,
di mestizia canto e musica stramba.
Sandra Ludovici
Sezione A – accetto il regolamento
— CONTEST CONCLUSO —
Si ringrazia per la partecipazione.
I risultati saranno resi noti fra qualche giorno.
Auguriamo un buon inizio settimana ed anticipiamo che a breve ci sarà un nuovo contest!
Domanda: se è un CONTEST, perché i giudizi sono inCONTESTabili?
FINALISTI “The Mistral Came ‒ seconda edizione”
Sezione A (poesia)
Sandra Ludovici con “Poesia”
Rosella Bucari con “La notte”
Michele Pochiero con “Mistral”
Milena Musu con “Il silenzio”
Daniela Giorgini con “Ho girato e rigirato”
Maria Anna Martino con “Il cacciatore di anime”
Vincenzo Giusepponi con “La Madonnina che prega”
Sezione B (racconto breve)
Marco Leonardi con “Il dono”
Emanuele Quindici con “Zenone e l’arte della guida della motocicletta”
Annalisa Scialpi con “Bagaglio unico”
Pietro Rainero con “Gallerie”
Lucilla Vezzi con “Spiragli”
Piero Pullini con “Non possiamo sfuggire ai nostri peccati”
Chiara Sardelli con “Un libro senza titolo”
Pzaai gne carrak! ( traduzione dal tanzillo: grazie per la scelta)
Risultati Contest:
https://oubliettemagazine.com/2024/06/17/vincitori-e-finalisti-del-contest-letterario-the-mistral-came-%e2%80%92-seconda-edizione/
Si ringraziamo tutti i partecipanti.
Tra qualche giorno sarà online un nuovo contest di poesia e racconto: vi aspettiamo!