“Vita mia” di Dacia Maraini: la storia insegna solo ai giusti?
La famiglia Maraini nel ’43 era diventata un pericoloso corpo di miscredenti da condannare e punire.
Dacia Maraini parla di sé in questo saggio “Vita mia”, di sé e della sua famiglia. A differenza dei suoi famigliari, le sorelle, la madre e il padre che già hanno avuto la forza di tirare fuori quanto era loro accaduto, per lei ci sono voluti anni.
All’inizio del saggio ci regala una poesia dedicata “alla sua vita svirgolata”.
Quando aveva sette anni la piccola Dacia viveva in Giappone con la sua famiglia, per via del lavoro d’insegnante all’università di Kyoto del padre.
Ci narra della loro vita e, stranamente ho pensato, chiama i genitori coi loro nomi di battesimo, Fosco e Topazia, non mamma e papà; ma forse perché così è più facile parlarci di loro. In questo modo li vede e ce li mostra come due individui, anziché come i suoi genitori. È sempre difficile evitare di giudicare le gesta dei nostri cari; così facendo riesce a mettere un poco di distanza fra il sé narrante e loro.
È il 1943 e viene chiesto loro di giurare fedeltà al governo nazifascista della Repubblica di Salò. E non accettano. Per questo vengono internati in un campo, in Giappone, come traditori della Patria.
“Una cosa però li univa: il rifiuto del razzismo.”
Come giustamente scrive, io, ma credo anche molti altri, non ero a conoscenza di questo fenomeno: “Molti anni dopo sono tornata a Nagoya a ritrovare il campo di concentramento dove siamo rimasti chiusi per due anni.”
“Nessuno sapeva nemmeno che fosse esistito un campo di concentramento per italiani antifascisti.”
La loro esperienza è stata tragica per la detenzione, per le minacce delle guardie, per le condizioni igienico sanitarie terribili, per le malattie come lo scorbuto; per la fame.
Dacia ammette di aver mangiato di tutto, anche le formiche per placare i morsi della fame. I serpenti, cucinati nel campo, anche se avevano un sapore melmoso.
Veniva loro detto che male, ma almeno venivano mantenuti, mentre altrove sarebbero già stati uccisi. Ma dove? Loro non avevano idea di cosa stesse accadendo in Europa.
“E invece abbiamo saputo che proprio in quegli stessi anni, c’erano altri campi dove i prigionieri, appena entrati, venivano uccisi.”
La Maraini è oggi una donna forte e ricorda, a coloro che ancora adesso non credono ai campi nazisti, di tutto ciò che ancora è consultabile.
La loro prigionia dura fino allo scoppio delle due bombe atomiche. Dopodiché i loro aguzzini fuggono, lasciandoli soli. Perlomeno riescono a girare intorno al campo e a trovare di che nutrirsi; anche se sembra che tutti si siano dimenticati di loro e nessuno venga a prenderli.
“Ci avevano dimenticati in quelle campagne piene di serpenti e di gelsi per i bachi da seta.”
Per ricomporre i suoi ricordi si affida anche alle pagine di diario scritte dai suoi genitori; unite a quanto riesce ricordare, si è formato questo prezioso saggio.
Spesso compara il passato col presente, creando riflessioni che, a loro volta, escono dal libro, venendo a prendere per il bavero la nostra coscienza.
“La cosa che mi allarma è ritrovare molti ingredienti di allora nella ondivaga storia di oggi.”
Perché la storia insegna ai giusti, ma per coloro che non hanno paura di macchiarsi, non significa nulla.
Un testo prezioso, che sarà sicuramente costato molto all’autrice, in termini di sofferenza, di paure, di ricordi di quanto in basso li avessero posti, facendoli divenire stracci. Eppure, tutti loro che stavano nel campo, non si erano mai piegati e mai erano diventati stracci senza anima.
©2023 Rizzoli
ISBN 978-88-17-14097-3
Pag. 223
€ 18,00
Written by Miriam Ballerini
Info
Leggi un’altra recensione del libro “Vita mia”