“Le ceneri di Gramsci” di Pier Paolo Pasolini: il significato di un infinito, irregolare, regolatissimo dibattito
Pier Paolo Pasolini, questo celebre personaggio per lo più sconosciuto, è un uomo che non può che esprimere se stesso, perché gli urge la necessità di spiegare se stesso a se stesso, prima ancora che agli altri. Come tutti noi, ma lui assai di più. Lui è l’Altro, e gli Altri siamo noi. L’unico modo di leggerlo è cercare almeno di assomigliargli un po’ e di dire a noi stessi: “Je est un Autre”: Arthur Rimbaud! PPP!
E lui li conosce, gli altri, li teme, ma li affronta ogni volta, essendo questo il suo mestiere di vivere. Non intende fuggire, ma rimanere in attesa del conflitto, che deve esser scatenato, tanto, prima o poi anche, senza il nostro aiuto, egli sorgerà ugualmente, improvviso, dalla fumante cenere di qualche capro espiatorio e perciò sacrificato.
“Le ceneri di Gramsci”. In L’appennino leggo: “… il marmo, a Lucca, o Pisa, il tufo/a Orvieto…” – il verso è metrico e poi subito libero. Lì quei materiali sono più palesi che altrove, dove abitualmente conduciamo la nostra fiacca esistenza – “Orvieto, stretto sul colle sospeso/tra campi arati da orefici, minia-/ture, e il cielo. Orvieto illeso” – quella parola no, è stata segata in due – “la carne e la miseria hanno placidi/ariosi suoni. Ma nelle veline” – spezzerò anch’io i tuoi ragionamenti, per quanto lirici siano. – “Ragazzi romanzi sotto le palpebre” – e poi? – “e fanno dell’Italia un loro possesso” – che dura il tempo di consumarne le ultime briciole – “e vizioso, chiude nell’incoscienza/le palpebre, si perde in un popolo/il cui clamore non è che silenzio.” – l’ultimo effetto a cui non si può sfuggire.
In Il canto popolare leggo: “moderno sia esso/ il popolo, spanto/ in borghi, in rioni, con gioventù/sempre nuove – nuove al vecchio canto –/ a ripetere ingenuo quello che fu.” – e che sempre sarà, finché non occorrerà quel silenzio, che pure decadrà, per infine risorgere (un infine a tempo determinato e indeterminabile) – “jersera… ripete con l’anima spanta” – e quest’entropia che è come una vecchia zia, che spande la tovaglia dalla finestra, e i pezzettini dell’anima si riversano nel cortile, per la gioia di tortore e passeri.
In Picasso leggo: “e ne squassa di tonali/ dolcezze, che, se resiste, e anzi/ irrigidisce, è per materiali.” – l’arte necessita della natura, ma ignoro se sia verosimile il contrario – “dei disaccordi, ecco l’Espressione/ che s’incolla alla cornea e al cuore/irrichiesta, pura, cieca passione.” – e nella seguente terzina (perché è così che tu ora s-ragioni): “cieca manualità, impudico gonfiore/ dei sensi, e, dei sensi, tersa noia” – quella che non prevede l’amore, ma solo il possesso, anche solo di sé? – “volontà di capirlo, è da cercare/ la salvezza. Una società/ designata a perdersi è fatale” – e poi un verso isolato, salvifico e miserando al contempo: “che si perda: una persona mai.”
In Comizio leggo: “gli urli (e in cuore l’odio), più brullo/ si fa intorno il deserto/ dove il consueto, pigro sussurro” – e un altro verso poverello e abbandonato: “s’è stasera perduto…” – è andato a morire per forse risorgere altrove? – “il passato, i fantasmi, i risorti/ istinti. Questi visi giovanili/ precocemente vecchi, questi storti” – fantasmi di sé, questo noi siamo? Il nostro futuro che incombe, ghignando, attimo per attimo? – “col pudore che ben conosco; ed è così mio quello sguardo fraterno!” – se è tuo è anche mio? – “così profondamente familiare, nel/ pensiero che dà a questi atti senso eterno!” – quell’eternità inarcata, creata a misura di sé dall’uomo che non sa che spezzare se stesso?
In L’umile Italia leggo: “Qui venti affricani l’assolato/ inverno bruciano: nascono” – tutti i generi di carnacee illusioni? Come la doppia f che tu spargi ad usta, assoluto e animalesco signore di quell’istante che va svanendo. – “È nel tempo puramente umano,/ accoratamente umano, che/s’incide il vostro guizzo vano/ di animale dolcezza è.” – ed è essa che io ricorderò nel mio caduco infinito. – “ma i figli dei mezzadri, come” – e certamente sai quanta alienazione ha donato la mezzadria a chi non era padrone ma spadroneggiava fino a che non giungeva il proprietario che esigeva la sua parte, e tutti i suoi sogni cadevano a meno di metà, per l’ingiustizia e l’imbroglio connessi. – “dell’umile gente, al tempo umano, al tempo allegramente terrestre” – che è quel che ci rimane, granello dopo granello di ‘sta malsana e implacabile clessidra.
In Quadri friulani leggo: “duri come le mani, e spinti a non parlare/ altra lingua che il troppo vivo dialetto/ persi in albe e vespri a lavorare” – perché è questo il tempo, una cadenza che ogni volta va ripetendosi, ineluttabile.
In Le ceneri di Gramsci leggo: “le ironie dei principi, dei pederasti, i cui corpi sono nell’urne sparse/ inceneriti e non ancora casti./ Qui il silenzio della morte è fede” – nell’uomo, a quel che mi par di capire. Null’altro rimane, a quella scimmia nuda, erta su due zampe, se gli vien a mancare il nume. “morti: Le ceneri di Gramsci… Tra speranza” – e quel che ci vuoi versare per meglio condirla. – “perché non scelgo. Vivo nel non volere” – e so quel che non voglio, come quell’a te distante e serioso amico sa anche ciò che non vogliamo. – “Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere” – qui e là, vicino e lontano, sempre pronto a donarti e sempre irraggiungibile. – “Mi chiederai tu, morto disadorno,/ d’abbandonare questa disperata/ passione di essere nel mondo?” – e di volerlo comprender fino all’ultimo, con folle tenacia, con assurdo spirito, per farlo mio e poi distribuirlo ai miei pur distanti fratelli? – “che al quartiere in penombra si rapprende./ E lo sommuove. Lo fa diventare più grande, vuoto,” – anni, decenni sono che tal verso mi rapprende e mi sommuove: lo colsi che non ero manco ventenne, in un’ormai sperduta antologia.
In Recit leggo: “Come non sentire, con la vita e con il cuore/ esser diverso e uno, essere gelo e sole?/ Come non sentire che è pura gratitudine/ per il mondo anche l’essere umiliati e nudi?” – come ‘sti distici che ora t’ispirano sogni più spogli e rigorosi? – “Ma perché costringermi ad odiare, io/ che quasi grato al mondo per il mio male, il mio/ essere diverso – e per questo odiato/ pure non so che amare, fedele e accorato?” – anche ora osi perdonarci, amico mio? Fra tutti gli artisti sei quello che ho più ben voluto e finora accuratamente evitato. Ma non sempre ce l’ho fatta, talvolta son precipitato nella tua trappola, e t’ho maledetto, solidale a quelli che han sempre pensato il peggio di te.
“Non sono ancora vivi e presenti uomini/ che sono vent’anni vissuti di passioni/ soffocate in petto perché nemiche al mondo,/ brucianti perché estranee a ogni triste e giocondo” – oh, ‘sta civiltà assassina! Di cui abbiamo tanto bisogno! Che stronca l’Eros quando ha gli occhi obliqui! E che ne sarà degli “uomini vissuti per vent’anni col cuore, così fecondo, arso da infecondo rancore?”
saranno fiero pasto per le iene? – “E minacciano morte, sordidamente ossessi/ contro chi tradisce perché è diverso, essi,” – spariranno come tutti, diventando mucchi dell’infame tumulo di cenere.
Leggo in Il pianto della scavatrice: “vivono di esperienze/ ignote a me. Stupenda e misera/ città che mi hai fatto fare/ esperienza di quella vita/ignota: fino a farmi scoprire/ ciò che, in ognuno, era il mondo.” – la cui più minuta parte è frattale dell’infinito Kosmos, che questo dovrebbe voler dire: Ordine. Perché “ogni uomo, umilmente, conosce/ Marx o Gobetti, Gramsci o Croce, furono vivi nelle vive esperienze” – e qui restano tra noi a respirare… Ma degli altri miliardi d’umani che mi sai dire? Anche loro pensarono, gemettero, sognarono. – “mi videro dentro una luce viva:/ mite, violento rivoluzionario/ nel cuore e nella lingua. Un uomo fioriva”. – e io questo posso fare, goffamente annusarti, fiore ritenuto indegno, travolto da quell’auto, giustiziato? “Piange ciò che muta, anche/ per farsi migliore. La luce” – che mi dai mi aiuterà per un po’, smorzandosi all’improvviso.
Leggo in Una polemica in versi: “alla carità – non è. È all’errore/ che io vi spingo, al religioso/ errore… Si riapre, nel rosso sole” – che tale rimarrà pur senza di noi. Ma intanto ci scalda e ci dona una meritata illusione: “Ma in questa malinconia è la vita.”
Leggo in La terra di lavoro: “Se misuri nel mondo, in cuore, la delusione /senti ormai che essa non conduce/a nuove aridità, ma a vecchia passione” – dai, chiamiamola opportunamente stagionata, come una forma di grana, ché potrebbe adirarsi. – “vivi, soltanto vivi, nel calore/ che fa più grande della storia la vita.” – piacevole ma mortale la resa: “Tu ti perdi nel paradiso interiore,/ e anche la pietà gli è nemica.” – versi che non capisco, né accetto e che sempre rileggerò finché campo.
Non t’occorre, come poeta, come uomo, la necessità di farti intendere, quanto quella di farti udire, sentire gemere, morire. Questa è la comunicazione che tu non hai scelto: è lei, materna femmina, che ha scelto te. Tu rifiuti il moderno, il verso libero e improvvisato, tu mediti su ogni sillaba, su ogni parola, fino a spezzarla.
Anche quel tale che ti ha preceduto, l’ha fatto, ed è stato crocifisso. E continueranno a farlo, ogni giorno comandato, perché noi abbiamo bisogno di eroi, e per Bertold Brecht è la prova della nostra miseria di vittime, da compiangere e da ignorare subito dopo il rito funebre.
Alberto Moravia che pronunciò un bel discorso, in quell’amena occasione. Chi se lo ricorda?
Di Antonio Gramsci ho letto solo Lettere dal carcere, pur avendo in casa l’opera omnia. Di te divorai nel 1975 Scritti corsari, poco dopo il tuo assassinio. E solo ora tocca a questi versi, atipici per il secolo in cui li scrivesti.
Voi due siete dei miei cari fratelli che cerco accuratamente di evitare. Perché?
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, Garzanti, 1976
Un pensiero su ““Le ceneri di Gramsci” di Pier Paolo Pasolini: il significato di un infinito, irregolare, regolatissimo dibattito”