“Opere complete di Learco Pignagnoli” di Daniele Benati: Ergo, la perfezione può essere riscritta

Non riesco talvolta a evitarlo. Quasi mai. Leggere qualsiasi cosa m’induce a leggere sempre di più qualsiasi altra cosa ed è una specie di catena di non ricordo più quale santo, ah, Antonio. La qual cosa mi fa ricordare che, su un polveroso scaffale giace da anni Sostiene Pereira di Antonio Tabucchi, per cui mi sto chiedendo se la lettura è un mio sogno da cui non mi è consentito svegliarmi, oppure se è quel che dona un senso alla mia vita.

Opere complete di Learco Pignagnoli di Daniele Benati
Opere complete di Learco Pignagnoli di Daniele Benati

Entrambe le interpretazioni non sono falsificabili: sono atti di fede religiosa.

A pagina 286 di Banchetti letterari (a cura di Gian Mario Anselmi e Gino Ruozzi) colgo la citazione di un autore reggiano che colpevolmente ignoro, Daniele Benati appunto. Per cui chiedo immediatamente lumi alla mia pusher di libri preferita, la quale si chiama, non a caso, Beatrice, se riesce a procurarmi qualche titolo (nel saggio sopra indicato è citato Vita di un poeta morto). Dopo circa sei mesi Bea è riuscita a rintracciare Opere complete di Learco Pignagnoli, che ho iniziato ieri sera a leggere e sono già a buon punto. Fine. Nel senso di bello.

A quanto ho capito, Learco Pignagnoli è un horcrux dell’autore, ergo esiste nella sua fantasia. Ergo esiste. Vorrei dare una smilza idea di un concetto che risulta oscuro anche a me, Pur essendo un tomino non certo enorme, il genio dell’autore (diviso a metà fra Learco Pignagnoli e Daniele Benati) riporta ben 244 Opere! Ergo non so se ce la farò a leggerlo tutto. Ergo ci proverò. Quando uno si ritrova nelle peste, a volte un tot di Ergo riescono a donargli una pur folle speranza.

Se un racconto è un sentiero che si biforca a ogni tre passi, come disse qualcuno di nome Jorge e di cognome Borges, qui di certo non mancano le piste ciclabili (Reggio Emilia ha il record nazionale delle stesse, anche se molte sono farlocche, cioè l’Amministrazione ha reso molte vie un senso unico e una parte della strada è destinata alle bici). Scendo in garage e mi accorgo che la bicicletta è sgonfia, per cui decido di andare a piedi. En marche! ‒ come disse Arthur Rimbaud, il quale pare che abbia smesso di leggere e scrivere a diciannove anni. Più o meno quando iniziai io.

Nella sapida Avvertenza, dopo che sono citate miriadi di autori che mi vergogno d’ignorare, fatta eccezione di Ermanno Cavazzoni, Ugo Cornia e Gino Ruozzi, colgo, tra l’altro, una fake new, che essendo questo un libro di narrativa (anche l’Avvertenza lo è, a occhio), dovrebbe essere una fiction: “Gino Ruozzi, ha inserito brani di Pignagnoli nella sua raccolta di aforismi per la collezione Meridiani Mondadori.” – (la virgola indica che Gino Ruozzi è così monumentale da fungere talvolta da ablativo assoluto, ma forse questa piolata la capisco solo io) – opera in due tomi che posseggo da anni e che corro immediatamente a consultare. Non mi pare di averne rintracciati. In verità leggo contemporaneamente troppi libri e ho la testa sempre un po’ Altrove, per cui potrebbero essermi sfuggiti.

Nella fascetta, il curatore (Gino Ruozzi stesso?, bella domanda!) lo definisce “un capolavoro della letteratura e dell’umorismo contemporaneo che rievoca il fulminante Campanile delle Tragedie in due battute.” – opera che non ho mai letto, ma mi è capitato di ascoltarne dei brani recitati, per cui concordo. Mi ricordo ora che in cantina, a padîr, a fermentare, c’ho In campagna è un’altra cosa di quell’ironico e barbuto autore, per cui… per cui temo che leggere sia come collezionare foto di murales, un lavoro che non ha mai fine! Tipo supplizio di Sisifo ma anche di Tantalo!

Ho ora numerose viuzze da percorrere, anche tutte; oppure talune, accuratamente scelte, che forse è meglio. Commenterò solo quelle che mi andrà di farlo. E chi lo decide questo? Io me. Del resto, anche con Le città invisibili di Calvino mi sono comportato in simil guisa.

Posso aggiungere un preziosismo tratto dal mio slang arşân: masêda non è tanto il colpo di mazza, la cosiddetta legnata (in testa per lo più), ma è anche una barzelletta in una o due battute del tipo: e l’óva? Pâsa! Questo aveva in mente, credo, Achille Campanile. E anche Daniele Benati.

Un autore non inventa mai nulla, se non nel senso che, quando lo rinviene, in genere per terra, poi lo sa sapientemente re-inventare e colorire con tinte sue. Còst l ē pôc ma l ē sicûr!, questo è poco ma è sicuro.

“Conoscevo uno che sbagliava sempre le parole…” – che, abbagliando, spingono a errare dappertutto. È un brano dell’Opera n. 1. Nella successiva si parla di un fraintendimento, per cui un ottantenne scambia una carriola per un uomo. Il fatto mi ricorda un aneddoto raccontato da Rosalinda Borghi, la mia storica madre. Un contadino era andato a ringraziare un anziano ipoacusico per non so quale gentilezza ricevuta nel recente passato e quello, non capendo una mazza, forse ipotizzando che avesse di nuovo bisogno della carriola, gli disse: la cariōla l’ē là in fònda!

La domanda che a questo punto un onest’uomo si pone è: c’era stato o no un fraintendimento?

Tornando al racconto di Learco Pignagnoli, chi aveva visto giusto, l’ottantenne o la signora, che gli era suocera e, probabilmente, ancora più anziana? Poco c’è di certo al mondo. Sempre mia madre diceva che ‘d sicûr a gh ē sòul la môrt.

Passiamo alla prossima: un “endecasillabo” ha un’energia così intensa che finisce per scoppiare. Succede a ogni particella, che più è virulenta e più la sua vita è breve. Mistero della fede quantistica.

Un tipo, in un film trasmesso in tivù, viene fucilato. Al che lo spettatore, insonnolito, decide di andare a nanna. E io, non Learco, mi chiedo: gli hanno poi fatto il funerale? O è stato elargito il suo cadavere ai porci?

Lezione di vita: a ogni racconto, per quanto perfetto, manca sempre l’ipotetica coda.

Nell’Opera n. 5 si parla di una coppia di avvinazzati, in cui il più grave indossa la tonaca. Secondo me quest’ultimo potrebbe essere indennizzabile dall’Inail, per una causa di servizio dovuta a un rito che, troppo spesso ripetuto, finisce per inebriare. Ciucca deriva, si dice, da ciuco.

Nel successivo romanzo-saggio colgo un’atroce verità: i ricchi sono pingui sia nel conto che nel corpo corrente, nutrendosi in eccesso grazie a un sacco di risorse esterne, per lo più altrui. La proprietà è quasi sempre un furto. Ogni evento spazio-temporale è però relativo e indeterminato.

Dall’Opera n. 7 deduco la pur caduca prova della teoria scientifica che ieri ho trasmesso a Beatrice, la quale mi chiedeva di controllare se il presente tomino fosse quello che, atarassicamente, cercavo da un semestre: l’unico libro buono è quello accattato. Mentre lo leggi può però diventare indigesto. Mi capitò nel divorare il cosiddetto capolavoro (per fortuna incompiuto) del Divin Marchese. Rigurgitai persino le virgole, quella volta.

Nell’Opera n. 8 leggo di due opere scultoree di diversa costituzione fisica, nonché di conseguente costo. Una volta, in una trasmissione a quiz di Mike Bongiorno, sentii un concorrente, che era un pittore astratto, affermare che i suoi quadri erano venduti un tanto a centimetro quadrato, come gli scampoli delle stoffe. Quelle che la mia ex moglie definiva le pezze.

Nell’Opera n. 9 leggo degli effetti letali della “mortadella” – che mia madre chiamava mortainguerra. Per scherzo, ovvio.

Passiamo all’Opera n. 10: “Tonino” non sa spiegarsi come possa essere “l’ottavo di sette figli”. Ipotizzo che uno di loro sia uscito di casa scappando anzitempo dal ventre materno.

Nell’undicesima si parla di morti di cui “è meglio che non si sappia in giro” che lo sono. Chiedo, non per un amico, ma per me: un lavoratore in serena quiescenza è un liberto o uno zombie?

Nell’Opera n. 21 s’ipotizza che il Redentore fosse un “Davoli”. In tal caso si formerebbero immediatamente due sette, una cattolica e romana per cui si adorerebbe un Dàvoli (come il famoso Ninetto) e una celtica-gotica-unna in cui si onorerebbe un tipo che di cognome fa Davòli, come il mio amico Dino.

L’Opera n. 24 indica che il mezzo autore Daniele Benati, diventa un terzo, come pure Learco Pignagnoli, in quanto sta subentrando un diverso io narrante, il cui nome è “Giuliano.”

In due diverse opere (la 14 e la 25) si narra che lo scrittore chiamiamolo A pone la propria foto “in copertina”; mentre il letterato chiamiamolo B la sistema “nel retro” della stessa. La cosa m’inquieta: vado subito a cercare Mein Kampf e non lo trovo! C’era o no la foto dell’autore? Quando, sei/sette ore dopo, lo rinvengo nel Mare Magnum dei miei libri vergini, vado a scoprire che l’avevo riposto, in modo apparentemente casuale, vicino ai tomi di Kant e di Heidegger. Al momento non ho voglia di comunicare la risposta al mio stringente quesito. Dico solo che mi sento decisamente sollevato.

La 28 m’informa che nel Corano è riportata una stranezza. La lessi tutta, la traduzione dello stesso, troppi anni fa, e non ricordo nulla a riguardo. Secondo me è l’ennesima fiction. Per averne la prova dovrei rileggerla, quella benedetta traduzione, oppure l’originale, ma chi ce la fa… Io non saprei rileggere manco la Sacra Bibbia, che fagocitai in 51 giorni nel corso di uno di quei fantomatici Anni Santi. Io non riuscirei manco a ingurgitare di nuovo i tre volumi della Vita di Samuel Johnson di James Boswell, figuriamoci! In ogni caso, se mi capitasse d’incontrare da Beatrice uno dei due o tre autori del presente tomino, gli parlerei (anche a tutti e tre, all’occorrenza) di un fatto che pare sia capitato a un certo Joshua in un paesino del Kashmir non più grande di Pixuntum. Fiction anche questa? Bisognerebbe partire e andare a verificare. Solo che colà c’è, da svariati decenni, un po’ di casini bellici, di cui il mondo pare ignorare l’esistenza. O, se lo viene a sapere, poi se ne frega.

Un’avvertenza per i lettori del lettore del presente tomino: anche i reagenti letterari, se non anche addirittura i critici, ma dovrei chiedere ancora a Gino Ruozzi, creano fiction e, a volte, docu-film.

Quel che capita a quell’anonimo alcolista, così ben descritto nell’Opera n. 30, mi ricorda la U.S. di Zeno Cosini.

L’Opera n. 35 mi rimembra invece l’inverso di una canzone di protesta di Gianni Morandi: Al bar si muore. Qui un tale di nome “Mauro Barchi” pare sia colà risuscitato.

L’Opera n. 39 rispolvera un mio atroce ricordo. Frequentavo da giovanotto un (ig)noto, cioè non dichiarato, omosessuale. Quando uscivo con lui, le donne finivano sempre per corteggiare lui, che aveva il pregio di risultare dei due il più presentabile dei due (senza che gli uscisse l’ernia per lo sforzo). Nella presente opera la scelta rivolta sempre all’Altro e mai all’io non è motivata.

L’Opera n. 41 narra una storia anormale anche rispetto alle precedenti. Quando un uomo in età da matrimonio si reca in un paese nuovo chiede sempre chi è la più bella, ché la vuole sposare subito. Egli pare ignorare che sono sempre le migliori che se ne vanno (che convolano a nozze). Di fatto il tipo rimane ogni volta celibe e forse vergine.

Falsifico l’Opera n. 49: non è vero che Cristo avesse tanti discepoli solo perché garantiva loro l’eterna sopravvivenza. Il mondo è ricolmo sia di nèsi (da nesciens), che di martiri autodistruttivi. Si pensi alla fine inversa che toccò al primo apostolo, che fu prima tremebondo rinnegante, poi pentito papa.

Riporto e commento l’estenuante Opera n. 54:Si possono dire un sacco di cose, tutte marce”: se non lo fossero non servirebbero. Se il seme non muore,” dice André Gide, sono cavoli mica da ridere. Perché il seme dapprima esca e poi giri i piedi all’uscio, è necessario che il frutto agonizzi.

Riporto per intero l’Opera n. 58:Un elefante ne ha spinto un altro dentro la vetrina di un supermercato.” – e poi dicono che le bestie sono meno distruttive delle scimmie nude e sbarbate!

Mi chiedo ora se al personaggio (de)cantato nell’Opera n. 62, che ha “preso paura” a causa di “un pomodoro” che gli hanno messo sotto il naso, è passata poi la fastidiosa “acidità di stomaco”.

L’Opera n. 66, a cui manca una cifra per essere demoniaca, m’ispira un detto tcrapanese: come si disse u scecco a u mulo, avemu cose di pigghiarla ‘ndo… Ma occorre leggere l’opera per capire.

L’Opera n. 87 mi mette in crisi. Lasciamo perdere la fiction secondo cui il cognome del noto romanziere americano era Falkner e non Faulkner (e da perfetto idiota ho immediatamente consultato zia Wiki). Il saggio di Learco cita due opere. Una l’ho letta nel 2000 ed è pressoché sepolta in un borgesiano oblio. La seconda la inizierò fra una settimana o due, oppure tre. Dipende dai miei impegni.

Dopo aver assunto, come se fosse un farmaco, l’Opera n. 97 mi sento in obbligo di promettere ai tre autori (ma che fine ha fatto il terzo?) che, ogni libro che ricevo, da chiunque, io poi m’impegno a leggerlo e a commentarlo in poche settimane.

Quattro opere dopo l’autore spara una pur relativa immensità: “… non avete letto un romanzo, ma solo guardato un chilo di carta.”: quanto è capitato a Mentre morivo di William Faulkner ne è una disgustosa prova. Speriamo che lo stesso non succeda a La paga del soldato.

In Opera n. 103, s’ipotizza “del rancido in questa tanto vantata evoluzione della specie.” – ma se essa non fosse effettivamente andata a male, potremmo star qui a discettare in modo così paternalistico ai nostri imperfetti lettori?

A proposito dell’Opera n. 104, il cui numero identificativo la dice lunga, e in cui l’autore medita d’impiccarsi pensando ai lettori di un noto giornalista, mi viene da dire che non ne vale la pena, ché di doman non c’è certezza. Fu-tu-ro ha tre sillabe. Il –fu riguarda ovviamente il passato. Il –ro deve ancora venire. Ci tocca perciò vivere un sempiterno –tu.

Tre opere dopo, leggo che “l’uomo che ha una bella donna, lui guzza, sta benissimo.” – spiego all’eventuale lettore fenicio: in certi idiomi guzzare è fregare, in altri è gusêr, compiere un bel coito.

Lo so che rischio d’essere definito il solito maschilista, ma lo dico ugualmente. Nel suddetto romanzo-saggio, si parla anche di “pugnette”. Ebbene, io credo (religiosamente) che in assenza di passione amorosa, la mancanza di coiti può essere risolta con l’onanismo, al termine della quale ci si scorda, almeno per una buona mezz’ora, dell’esistenza del pianeta donna. Poi occorre replicare. Ma non tutti ce la fanno. Il che è segno di prossima guarigione. In ogni caso, in genere, dopo aver consumato quel fiero (?) pasto, uno va a letto e dorme serenamente.

Quello che capita all’io narrante, nell’Opera 109, insieme a “un certo Fofi, da non confondere con il critico”, in cui entrambi russano in un cinema, occorse nell’agosto ‘92 anche alla mia ex moglie e a me (e, per capire come e perché, si rilegga con attenzione il mio commento all’Opera n. 107). Per fortuna che era un cinema all’aperto, presso gli ex Stalloni (nomen omen) di Reggio Emilia, in via Campo Samarotto, a due passi da via Dante.

Nell’Opera 106 conto 6 volte un termine equivalente a fece (che non è un tempo verbale). Mi correggo: sono 7. 2 in quella successiva. Meglio che spalanchi la finestra. 3 in quella dopo. E 2 in quella che segue (una è però è un derivato).

L’Opera n. 117 dicono che è ora al vaglio degli inquirenti. Ma si capisce che è una burla!

Opera 119: chi l’avrà scritta? È citato, un paio di volte, in terza persona, Learco Pignagnoli. Un omonimo? Conto 4 “chi se ne importa?” e 1 “Chi se ne importa?”

L’autore dell’Opera n. 120, si chiede “chi poteva essere Learco Pignagnoli”, e l’enigma lo assillava “tante volte, di notte”. Anch’io scrivo mentalmente le mie cose migliori fra un sonno e l’altro. Poi me le scordo.

Opera n. 136:Un cognato sa sempre come bisognerebbe fare andare il mondo. Ha poche idee ma essenziali.” – a volte anche confuse. Un giorno presenterò al misterioso autore Andy, il mio verace e controverso ex cognato.

Opera n. 139: Il nome che tenta di ricordare, non Andy, ma Learco Pignagnoli, l’ho trovato su zia Wiki. Ne riporto le iniziali: A. C.

Raccolgo, come se fossero aspri cagnetti, uno dopo l’altro, 3 “non mi ricordavonell’Opera n. 142.

Chiedo, non so più a chi, se quel Cavalcanti citato nell’opera successiva, si chiami Guido di nome.

Quello che è capitato a “Simonini” (vedi Opere n. 144 e n. 146), m’accadde nell’ottobre 1978 presso la caserma GASSVA di Piacenza, dove frequentavo, assai poco volentieri, il corso per, appunto, artificieri. Broom, broom, broom! Cose che capitano ai vivi.

Opera n. 148: atroce confessione dell’io narrante: “L’unico che ha fatto cilecca sono stato io.” – per tutta la vita c’ho provato anch’io, ma ho fallito anche nel fallimento. Ho il dubbio di non essere altro che una particella virtuale che non ce la fa a esistere, ma che, grazie a lei, qualcun altro, sia pure per un tempo limitato, ci riesce.

Opera n. 151: ove balza alle cronache un io narrante di nome “Fausto” (signando lapillo?)

Opera n. 152: l’idea che ha permesso a “un tennista che non era mica tanto alto, anzi era basso, sì e no 1,60” è stato in seguito utilizzato a manetta (traduco per il solito fenicio: regolarmente) nelle partite di volley, almeno nelle serie maggiori.

Opera n. 166: caro il mio birbone, a chi la vuoi dare a bere. Questa poesia te l’ha suggerita Salvatore Quasimodo, mica Giacomo Leopardi!

Opera n. 169: un signore dice a un “poliziotto”: “io bevo solo quando guido”. E quando quello lo prende a multate, pensa che è “un matto”. Quando uno guida deve pensare solo a guidare. Prima o dopo faccia quel che vuole. La vita è la sua (e di chi gli taglia a strada). Si presti perciò attenzione.

Opera n. 176: dove si parla di “Sanguineti”. Volevo solo dire che suo figlio (non rammento il nome) insegnava nell’Ateneo di Fisciano (SA), frequentato anche dalla mia ex moglie. C’era anche Ugo Dotti: un cognome, una garanzia.

Opera n. 180: sarei curioso di sapere se quel “palare” (penultima riga) è un refuso fortemente voluto.

Opera n. 181: mi chiedo quale sia la differenza anagrafica fra i docenti di filosofia e “le loro mogli intelligenti”.

Ora urge per me fare una confessione, mea culpa mea culpa mea maxima culpa. Ho iniziato a leggere Opere complete di Learco Pignagnoli raccolte da un certo Daniele Benati, non tanto perché quest’ultimo è un caro amico di Gino Ruozzi, né perché fu un collega insegnante, mi pare a San Martino in Rio, di mia sorella (che se lo ricorda come un simpatico). La verità è che lo stesso giorno ho cominciato Rayela – Il gioco del mondo di Julio Cortázar, uno dei romanzi più densi e pesanti (simil piombo), diciamo meglio: fortemente gravitazionali, che mi siano mai capitati tra le mani. Le Opere Complete di Learco Pignagnoli mi sono servite da analgesico. Almeno all’inizio… Poi, a partire dalle Opere n. 201, n. 202, n. 203, n. 204 il farmaco non ha più fatto effetto. Per cui mi sono ridotto a leggere un capitolo del libro dell’autore argentino per rinfrancarmi un po’ dopo l’attenta disamina di un’Opera dello scrittore arşân. Talvolta è capitato anche il contrario. Leggere un nuovo tomo è come cambiare barrocciaio.

Opera n. 191: che è quella che finora mi ha esaltato maggiormente. Dovrebbe essere una lettura d’obbligo dalle elementari fino ai corsi di Laurea in materie umanistiche. Morale della favola: lo scrittore si occupa di quel “niente” che non appare (agli altri). Anche lui non lo trova mai, certo, ma almeno l’ha cercato.

Opera n. 195: il cui testo finisce con una verità che reca dolore. Potendo esserci dei bambini in giro, preferisco al momento sottacerla. La comunicherò a tu per tu, dal vivo; oppure tramite whatsapp.

Opera n. 200: è la più lunga finora e, purtroppo, la meno sintetizzabile.

Opera n. 212: mi viene da chiedermi se il figlio di quell’asino s’è messo poi a scalciare.

Opera n. 217: Dio ti benedica, ragazzo! M’hai resuscitato un detto di mia madre: “andare all’uva”, espressione che si rivolge a chi sta rompendo. Veh, nèsi, va’ all’óva!

Opera n. 118: effettivamente c’è chi ascolta il prossimo solo per poterlo contraddire. Quando uno lo fa con me lo ringrazio, se m’ha convinto del mio errore. Diversamente gli dico: Veh, nèsi, va’ all’óva!

Opera n. 220: per 3 volte l’io narrante è indicato come Learco.

Opera n. 221:Io, prima, c’è stato il portiere dello stabile…” – un anacoluto mi fa ogni volta alzare dal divano, dopo di cui comincio ad applaudire. Per fortuna in genere leggo in una stanza deserta.

Opera n. 223: “… una pallottola può partire a 400 chilometri all’ora…” – ai tempi di Tex andava più lenta: per cui lui le schivava quasi tutte. Quelle che non schivava sfioravano di striscio la sua tempia destra.

Opera n. 234: l’io narra paragona sé a un “Maestro Zen”, il cui nominativo è “Learco Pignagnoli”.

Tre opere dopo è tirato in ballo “Brenno Pignagnoli, mio zio”.

Opera n. 244, detta, da me l’Estrema: ricordo che un noto poeta, a cui non dispiacevano gli uomini a prescindere dall’età, disse una volta che le sue liriche più complete erano le più brevi. Questa è l’opera più lunga dell’intera silloge. Ma il problema è un altro. Chi l’ha scritta sostiene di essere un certo Bonini.

Una frase significativa:Bastava poco, ma si vede che quel poco era molto grande.” – la relatività galileiana, poi falsificata da Einstein e prima o poi spunterà un Bonini dal Nulla che falsificherà quella e quell’altra.

Dopo l’Estrema, non può mancare che l’Ennesima, l’Opera n. 245, di cui dirò l’essenziale: pare un haiku, non tipo quelli giapponesi ma tipo quelli di Denis Ferretti, inclito grammatico arşân, anche se il numero delle sillabe eccede le canoniche 17: colpa della solita, micidiale, mortadella.

Daniele Benati
Daniele Benati

Giacomo – romanzo autobiografico di Learco Pignagnoli: ovviamente Giacomo è il solito nom du plume dell’autore (chiunque egli sia). Un ipotetico ma mai effettivo suocero dello stesso, avvinazzato e, direbbero gli inglesi, unemployed, tanto poco ha in simpatia il nostro eroe che, solo a scorgerlo da lontano, “faceva il gesto di saltar fuori dalla finestra mettendo un piede sul davanzale oppure vibrava un pugno nell’aria…” – immagine icastica ma soprattutto plastica.

Lo stesso Giacomo, ammette che “a quarantadue anni non faceva quasi niente di lavoro”: ecco forse perché il suocero virtuale non l’aveva in simpatia: era come un rimirarsi allo specchio. Sua figlia Nadia poteva aspirare a qualcosa di meglio. A pagina 144 Giacomo insiste a chiamarsi Giacomo.

È decisamente un tipo distratto che, se perde qualcosa, prima diventa matto, poi la ritrova, senza però rinsavire. E che poi discetta sull’illusorietà del tempo, avendo forse letto e in parte assimilato l’opera omnia di Julian Barbour e di Carlo Rovelli. O forse inventandosi da sé alcune teorie.

Le sue tesi sulla scrittura meriterebbero una tesi universitaria. In sin-tesi: le parole celavano ogni sorta di mistero, ma a lui bastava aspettare “che bussassero alla porta mentre che la testa mi si riempiva di parole.” – aveva in pratica scoperto l’acqua tiepida, e non tutti ci sono arrivati.

Lieto fine: “… e fu così che cominciai a scrivere.”

Poesie di Learco Pignagnoli: provo a commentare alcuni versi della terza.

“Non c’è mai niente di vero/ In quello che viene detto/ Di un personaggio/ Sia artista o fornaio.”

Era sufficiente fermarsi al primo verso. Ma di una poesia, come dell’uomo e del maiale, non si butta via niente.

La successiva mi fa venire in mente un ragionamento di Jorge Borges: “la memoria è fatta di oblio”.

Opera teatrale di Learco Pignagnoli: da ex contabile mi pregio di assicurare l’utenza che i conti alla fine quadrano.

Fine (da leggere sia nella traduzione italiana che nell’originale inglese). Alla prossima, Beatrice! Nonché a tutti gli autori citati!

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Daniele Benati, Opere complete di Learco Pignagnoli, Quodlibet, 2022

 

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