“Il corpo crudo” di Valeria Bianchi Mian: raggiungere un altro grado di consapevolezza
Il lupo e l’apollineo, la brama e la luce: l’Archetipo come medium d’agnizione, reificazione e ignizione alchemica dell’Io. Un noir psicologico fra parola e figura dal corpo alla carne.
“L’arte nasce dal senso dell’Ombra, oscura cresce e s’illumina in capo, scende leggera, compie il passaggio, trasmuta in presente, il futuro e il passato. Nel mio nuovo romanzo anche l’arte, l’essere in arte, l’artista con le sue visioni sono elementi al centro della scena.” – Valeria Bianchi Mian
Questo esergo accoglie in sé la carne viva dell’ultimo romanzo dell’autrice torinese. In piani di lettura stratificati, quasi velature, si compenetrano arte, poesia, filosofia, esoterismo e letteratura noir. Questo è il fil rouge che tiene le fila di quest’analisi collaterale dell’opera di Valeria Bianchi Mian.
Un romanzo – quello della psicologa e psicoterapeuta junghiana – che si dipana in un:
– “Dove” – spazio. Torino e la sua periferia. Città esoterica, bifronte, dalla doppia natura luminosa e oscura. Via Ormea, civico 105, Quartiere S. Salvario, una palazzina di proprietà della famiglia Olmotti: Remo e Filomena di professione macellai. La loro macelleria al piano terra. Al primo piano, in affitto, l’appartamento – studio dell’artista Dio+. Sul frontone del palazzo di fronte fregi con fauni, forse demoni, satiri oppure il dio Pan-Priapo? Un segnavia dionisiaco o deminiaco? Un palcoscenico. Un set perfetto per un crudo intrecciarsi di vite, di vissuti, di corpi e carni. Sperma e sangue;
– “Quando” – tempo. 23 dicembre 2022. Solstizio d’inverno. Il momento zero. La scoperta del delitto. Poi si gira pagina, si cambia capitolo e il filo cronologico della narrazione oscilla – un tratto peculiare di questo romanzo – avanti e indietro nel tempo, nello spazio, nella mente e nella memoria dei personaggi nei mesi immediatamente precedenti e successivi al delitto e poi a ritroso di decenni a investigare il vissuto più oscuro di alcuni personaggi. Ma la narrazione scorre lineare arrivando con logica consequenzialità alla conclusione, intrecciando il piano narrativo delle vicende di Bruno Sirio e della nutrita folla di personaggi che gli gravitano attorno e che entrano in scena, si dibattono, vivono e sopravvivono con quello del racconto in prima persona del licantropo che si aggira nottetempo nel suburbio torinese. Piani narrativi destinati a convergere tra suspense e colpi di scena in una ritmica incalzante.
In questo “dove e quando” si svolge la commedia umana di Bruno Sirio, Sirio come la stella binaria sacra a Iside – il Cane Maggiore siderale – nomen omen, alias Dio+, giovane fotografo-artista di fama internazionale geniale quanto spudorato, ricco, controverso, spregiudicato e della sua variegata corte di “muse”, giovani donne avvenenti di cui sfrutta i corpi per i propri scopi utilitaristici – le sue “vittime artistiche” – in una bulimia sessuale mossa da una morale distorta e da una visione paranoica del mondo: un condensato di cinismo e abilità manipolatoria, narcisismo, maschilismo e di un malcelato sadismo le cui radici affondano in una infanzia tanto privilegiata quanto torbida. Sesso come strumento di potere: le sfortunate che cadono nel campo gravitazionale di Sirio fanno una brutta fine: tossicodipendenti, pazze o alcoliste. Un artista ambiguo, tanto divino quanto sulfureo come l’angelo che svetta in piazza Statuto nella capitale sabauda. E poi Greta, matrigna incestuosa; Maristella, la “quasi fidanzata” di Bruno, badante distimica nella vita e devota sacerdotessa del “Vangelo dell’odio e dell’amore” di Dio+ fuori e dentro le lenzuola; Michele, garzone di bottega, tuttofare, angelico e inquietante, dall’indole schiva e ferina, “ami-nemico” dall’infanzia di Bruno Sirio a cui è legato da un rapporto perverso di dominio e sottomissione.
E poi il brutale assassinio di Dio+ nel suo appartamento. Il suo corpo trasfigurato anzi transessualizzato dal suo carnefice. Un delitto efferato e rituale che nasconde un crimine passionale, interessi economici o invidie professionali nel mondo dell’arte contemporanea? Oppure… altro?
Il corpo crudo: desiderato, concupito, toccato, leccato, penetrato, innalzato, sublimato, esposto, idolatrato, decadente, morso, concusso, sezionato, macellato – un pasto nudo, sepolto e decomposto allo stato carbonico elementare. Il sesso è ricorrente lungo tutto il romanzo, a testimoniare la prossimità tra impulso sessuale e morte, e riguarda tanto l’uomo quanto l’animale. L’abissalità del sesso e della morte resa il più possibile esposta e manifesta, per essere desacralizzata, esorcizzata, tollerata: la superficie che si sforza di mostrare il fondo. Questo e molto altro è Il corpo crudo.
Una tomba… sono queste le parole che Platone usa nel Gorgia per descrivere il corpo espresso nella sua fisicità. Nella filosofia platonica il corpo è “carne senza vita”, sema (salma) che per liberarsi dalla limitatezza necessita della psychè, l’unica via per poter raggiungere un livello superiore e potersi avvicinare alla verità. La natura castrante del corpo incatena nel mondo sensibile, nella dimensione delle passioni e dei vizi l’anima. Secoli dopo nel 1931 il tedesco Husserl pone le basi per una nuova ontologia, distinguendo il Leib dal Körper, il primo è il corpo vivo, è la carne, esso si muove con l’essere umano ed è un corpo che sente e patisce, il soggetto che percepisce e l’oggetto che viene percepito – conosce attraverso l’esperienza ed è corpo vissuto, ma sempre sul punto di oggettivarsi; il secondo è il corpo cosale, anatomico, che occupa uno spazio, che ha misura, che abita in un mondo fisico insieme a tutti gli altri corpi.
“Il corpo – scrive Heidegger – vive in un mondo di significati e di atmosfere emotive che lasciano inevitabilmente una traccia su di esso” in altri termini solo attraverso la carne emerge il senso dell’essere sempre mio dell’esperienza; il corpo vissuto è ciò che ci caratterizza come esseri umani e che porta con sé le tracce della nostra storia, di chi siamo ora e di chi saremo in futuro. L’importanza ontologica del corpo emerge tuttavia in modo evidente soprattutto nelle riflessioni del francese Merleau-Ponty (che tradusse Leib in chair “carne viva” termine che in francese designa l’insieme delle forme dell’epidermide, dei muscoli del corpo umano e l’aspetto della pelle). Per il filosofo il corpo è il luogo che genera e subisce la percezione. Il corpo vivo è una struttura necessariamente e originariamente relazionale, poiché rappresenta l’orizzonte delle possibilità d’azione. Il corpo (dunque noi) non è semplicemente nello spazio e nel tempo, ma abita in essi; il nostro corpo li abbraccia e noi ne facciamo esperienza in questa esistenza. L’esistenza, le nostre esperienze e il nostro essere-nel-mondo, dunque, risuonano continuamente nel nostro corpo, sia come anticipazione sia come memoria. La carne, di conseguenza, diviene l’unica possibilità di apertura e di incontro verso l’altro – il luogo dove può accadere la vera reciprocità; il tessuto connettivo che unisce mondo e corpo in un legame che si realizza in una stessa trama, conducendo le due “entità” a mutare e a integrarsi tra loro in una metamorfosi che non avrà fine: il chiasma. La carne incarna il principio dell’essere, divenendo espressione di reciprocità in cui pulsano il visibile e l’invisibile; un modo generale del divenire, dunque, in cui visibile-vedente/tangibile-toccante convivono, lasciando al di fuori qualsiasi dualità e contrapposizione. La chair successivamente sarà definita come “metonimia e metafora del corporeo, dello spirituale, del solitario e del solidale, del desiderio”.
Ed è proprio chiamando in causa il desiderio che non si può non citare il pensiero sartriano. Sartre definisce la carne come fulcro del desiderio, in quanto: “Mi faccio carne per affascinare l’altro con la mia nudità e per provocare in lui il desiderio della mia carne, proprio perché questo desiderio non sarà mai nient’altro, che un’incarnazione simile alla mia. Così il desiderio è un invito al desiderio. Solo la mia carne sa trovare il cammino della carne altrui e io porto la mia carne contro la sua carne per svegliarlo al senso della carne. Nella carezza, infatti, quando faccio scivolare lentamente la mia mano inerte contro il fianco dell’altro, gli faccio sentire la mia carne, ed è ciò che anch’egli non può fare, se non rendendosi inerte; il brivido di piacere che allora lo attraversa, è proprio il risveglio della sua coscienza di carne”. Nell’atto amoroso si vuole incarnare l’altro, e il corpo del desiderato, essendo guardato e toccato, diviene espressione della materialità colta al suo livello più elementare: una contingenza pura della presenza.
In Simone de Beauvoir l’esistenza dell’altro è necessaria, soprattutto all’interno della relazione erotica, per sua natura ambigua, in cui i soggetti sono contemporaneamente spirito e carne. L’incontro con l’altro diventa fondamentale perché “essendo per il e nel mondo” siamo inesorabilmente attratti dall’altro. Il corpo come apertura per conoscere e affrontare il mondo.
Nel Novecento emergono poi altre posizioni rilevanti nell’analisi ontologica del corpo. Deleuze e Nancy proporranno un’idea di corpo come una moltitudine che non può essere arrestata, in quanto il corpo è visto come un essere parcellizzato, atomizzato, polverizzato e mai solo e inscindibile. Il corpus di Nancy è obliato a se stesso, non è mai posseduto: “Il toccare-l’altro come toccar-si, l’uno divorato, riassorbito nell’altro”. Questo rapporto che vede la fusione del sé nel tu, rappresenta un’uscita dai propri confini, dai bordi, per giungere ad una adesione/coesione totale con l’altro e nell’altro. In questa prospettiva la carne come nesso tra i soggetti e il mondo consente il superamento del dualismo che nega la realtà spirituale e metafisica, o che lo contrappone totalmente alla realtà fisica: carne come materia dello spirito.
In altri termini l’autopercezione rende possibile percepire tutto il resto e sentire anche l’alterità. L’accesso della carne di un soggetto alla carne di altri soggetti è un evento che supera questa dinamica e che non può rimanere dentro i confini della semplice percezione, come se si trattasse dell’esperienza di un qualsiasi corpo fisico del mondo. La carne, infatti, si espone nella sua nudità (intesa nell’essere esposta al sentire altrui). La carne si lascia sentire dalla carne di un altro essere in modo che essa sente di sentirla e di essere sentita. È un intreccio che può portare a mille sfumature e a indicibili emozioni, nella gamma che va dall’ostilità reciproca fino all’erotizzazione o alla tenerezza reciproca. Possiamo dire, dunque, che io sento un oggetto fisico inerte come tale perché avverto che non mi consente di fare un passo dentro il suo “mistero”, al contrario, la carne altrui la sento come tale in quanto non mi resiste totalmente, reagisce lasciandomi spazio, facendomi sentire che io provoco qualcosa nell’essere dell’altro, che si tratti di qualcosa di positivo o di negativo o di indecifrabile. Quando questo non succede, viviamo il fenomeno dell’indifferenza o quello della reificazione.
L’indifferenza associa all’esperienza dell’altrui inedia all’incontro, del non riconoscimento l’impressione di non far accadere nulla nell’essere dell’altro. La reificazione si nutre dell’idea della prestanza fisica alimentata grazie alla chimica dei fatti globali e si manifesta nell’offerta della carne a mera materia di percezione, quando il mio essere e l’essere altrui, nel contatto reciproco delle carni, si ignorano in quanto soggetti e si consumano poveramente nella sola consumazione di sensazioni materiali. Manifestazione altra della reificazione è la spersonalizzazione violenta e maligna della carne viva di persone in vita (campi di prigionia, campi di concentramento, gulag, ecc.).
Ma, in conclusione, che si acceda per le vie della carne o del corpo, la meta finale è sempre quella: raggiungere un altro grado di consapevolezza, infiltrando quel divenire progressivo, e senza tempo, che ci rende liberi da qualsiasi assoggettamento delle forme.
Tuttavia “l’erotismo lenisce l’angoscia degli umani per il senso della fine”, come scrive l’autrice nel primo capitolo del romanzo in un continuo rimando di riflessi reciproci simbolici; “il corpo crudo”, quindi, è anche Venere, divinità che nella cosmogonia greca nasce dalla spuma del mare e dal fallo del dio Urano evirato da Crono, ma si rammenti che dal sangue sparso da questo atto cruento nacquero anche le temibili Erinni divinità che con Ecate e Eris sono la personificazione dello spirito vendicativo femminile. E quindi se “… noi siamo carne, siamo potenziali carcasse. Ogni volta che mi reco dal macellaio mi stupisco di non essere lì io al posto dell’animale”.
Simili accenti di devastante malessere del pittore irlandese Francis Bacon, con cui egli denuncia il proprio disagio esistenziale, saranno ora la traccia per delineare un percorso figurativo topico attraverso le pagine del romanzo dell’autrice torinese. Il corpo nudo di Dio+, evirato, seviziato, sospeso e legato alla “torre del potere” in una sorta di Crocefissione moderna o di novello Marsia/Pan capitolino (in cui si cela l’allusione sinistra alle lame dell’Appeso, della Morte, del Diavolo e della Torre), più innanzi, Bruno Sirio dissezionato nella sala autoptica dall’anatomo-patologo Vinciguerra, l’immagine del volto della madre del fotografo “frammentata” nel terribile incidente stradale in cui Bruno, ancora bambino, sopravvive alla madre, il corpo della macellaia Filomena Olmotti riverso esanime in una pozza di sangue, i fermi immagine della macelleria della famiglia Olmotti, del suo retrobottega e della varia umanità che la frequenta richiamano nella mente del lettore più attento archetipi iconografici risalenti già al XVI secolo, ai quadri “di genere” dei nostri manieristi e dei fiamminghi: ai quarti di bue delle macellerie bolognesi apparecchiate da Bartolomeo Passarotti o Annibale Carracci.
Ma è soprattutto al rembrandtiano animale squartato – drammaticamente affiorante dalla penombra di una bottega dei Paesi Bassi – e le successive opere del piemontese Lorenzo Delleani e del bielorusso Soutine che rimandano l’inquieta e inquietante variazione sul tema concertata fra le pagine del romanzo. Una vertigine nichilista: l’horror vacui dell’uomo contemporaneo che si affaccia a strapiombo sul perché dell’Essere. D’altronde questo è anche il filo conduttore che si snoda nell’arte europea lungo tutto un secolo (devastato dalle guerre mondiali, dal conflitto russo-ucraino, catastrofi, terrorismo, epidemie, globalizzazione della paura) e porta, fatti i dovuti distinguo, ai concettualismi di Hirst. Come non cogliere nel corpo crocifisso di Bruno Sirio l’accostamento alla messa in scena di laceri brandelli di bestie e corpi squartati o inchiodati di Tre studi per una crocefissione e altri dipinti di Francis Bacon in una sorta di parallelo tra il marcire della materia e i guasti interiori di un’anima ferita?
Nulla più di ciò che il Novecento rende evidente: l’assoluta artificiosità della naturalità del corpo. La presunta dimensione naturale del corpo è in realtà una dimensione meramente culturale, ideologica. L’organico e la sua unità vitale devono risolversi nella brutalità esposta della carne che vi sta sotto. Corpo e spirito vengono rigorosamente desacralizzati. I “corpi” di Bacon sono in preda al delirio di una carnalità priva di scheletro spirituale, deformati, consumati, distorti. L’intento è di incorporare il movimento nella materia, il movimento che il sistema nervoso produce nella carne vivente. Implacabile e tragico, proprio di ogni esistenza. Dipingere è dipingere forme della distruzione, perché la vita, dalla nascita, è lungo deterioramento. Tutta la morte è in vita, vita che si macella. Ché la Natura sta oltre l’arte, le forme, la storia. L’unica forma possibile è quella che nasce insieme all’eccitazione palpitante per la putrefazione incipiente, per la vista della morte che lavora dentro ogni individuo – macellazione dell’unità metafisica corpo/anima.
Che poi… passeggiare fra le opere di Dio+ – fotografie provocatorie e crude di dettagli in macro di corpi femminili in pose reificanti di quotidiana autopsia di cui il particolare di ognuna si fa macrocosmo – nel suo studio o nei vernissage delle sue mostre, oppure fra i modelli anatomici in cera, gli organi umani o ferini sotto formaldeide delle sale del Museo Anatomico L. Rolando di Torino in compagnia di Maristella con un cuore dilaniato dal rifiuto di un amore non corrisposto, non sono forse un rimando lampante alla performance di Marina Abramović alla Biennale di Venezia, al movimento Actionismus o al controverso artista britannico Damien Hirst, che negli anni Novanta del XX secolo, con le sue installazioni (animali morti in formaldeide sigillati in teche) propone una spettacolarizzazione “pop” della morte, in una società dei consumi che tutto consuma, anche se stessa?
Un tentativo di scuotere una società edonista tesa a rimuovere, ad allontanare da sé ogni sgradevolezza, ogni accenno al dolore dell’esistenza compresa quella degli animali di cui si nutre e da cui di fatto discende. L’autrice alza impudicamente le vesti e mostra una realtà che l’uomo contemporaneo preferisce non vedere nel suo delirio alla ricerca “sacrale” di un corpo asettico, perfetto, incorruttibile quasi cybernetico; che è “oscena” solo per chi ha perduto i contatti – per dirla heideggerianamente – con l’autenticità dell’essere e finge di aver dimenticato che la dualità del mondo e del divenire si regge in equilibrio funambolico sull’asse del vivere-morire. Quasi ekphrasis dell’immaginaria galleria appena ricostruita per associazioni visive alla maniera di Warburg, vengono in soccorso i versi di un esordiente Borges nell’Argentina di primo dopoguerra, in cui il titolo, Macelleria, coi suoi richiami al negozio della famiglia Olmotti e alla loro palazzina in Vai Ormea 105 dove si svolge tanta parte delle vicende narrate, si pone come vera e propria epigrafe di questo breve excursus: “Più vile di un lupanare/ la macelleria sigilla come un affronto/ la strada./ Sopra l’architrave/ una cieca testa di vacca/ presiede il sabba/ di carne sgargiante e marmi finali/ con la remota maestà di un idolo.”
E proprio dalla poesia, dalla tensione di quella contraddizione tra parola della carne e carne della parola che deriva un altro aspetto della prosa de “Il corpo crudo”. Nel monologo del macellaio Remo Olmotti, nelle accese discussioni familiari con la figlia vegana emerge lampante quella domanda sulla “colpa” dell’umanità dei consumi nei confronti degli animali macellati (quasi ci fosse una macellazione più umana) che caratterizza anche la raccolta Macello di Ivano Ferrari (Einaudi, 2004) e che l’autrice porta oltre in una presa di consapevolezza da parte del personaggio del limite evanescente che separa il macellaio dall’assassino “non cambierebbe nulla se vendessi carne umana, sono solo un cannibale. L’assuefazione alla morte”. I macellai sono tutt’uno con le bestie, con la carne che sezionano e vendono al dettaglio. O meglio, devono esserlo.
Essi annullano pensiero e vista nella meccanicità di ogni azione. Primato del meccanicismo sul gesto, per congelare lo sguardo: anestetica del theorein. “Uomini minori” che, nel confezionare il pasto nudo degli altri uomini, ne conservano e nascondono anche il segreto più ancestrale, l’essenza non storica della storia lì fuori.
L’autrice nella ricerca della carne della parola stimola, pungola a volte offende gli organi sensoriali del lettore in particolare udito, olfatto, vista ma senza alcun realismo ingenuo, con parola precisa e densa di simbolicità e di rimandi. Ritornando alla poetica di Ferrari essa non è distante dalla pittorica di Bacon (di cui sopra). Entrambi sanno che ogni forma della carne, è sempre prima di tutto forma. Ma sanno anche che la carne puzza, si decompone. E da questa decomposizione nasce, intima, l’ossessione di una forma che mai raggiungerà la carogna, che mai sarà realmente mortifera. Sanno che dall’indistinto della materia che massacra se stessa non nasce, immediata, alcuna categoria morale, alcun peccato ancestrale, se prima non ci si interroga su come nasce una parola per quel macello/macelleria. In conclusione dal fondo oscuro della storia (massacro di uomo sull’uomo o sulla bestia), di ogni determinato, di ogni storico, l’autrice rintraccia il nucleo non storico della storia: l’Indifferenziato, il caos della carne del mondo, l’ingens sylva. Indifferenza fra corpi, materia indistinta, mescolanza e promiscuità tra viventi, sperma e sangue, insieme di carne non differenziata, non “logicizzata”: questo al fondo della storia, che fonda la storia, che può continuamente capovolgere la storia. Il tutto-corpo non logico, non politico, non storico. Non vi sono individui, solo corpi che trasbordano dai corpi stessi. È questa la sfera troppo umana evocato dal macello/macelleria.
Ne Il corpo crudo si rintracciano stilemi e tematiche tipiche dello stile noir che di fatto hanno sempre a che fare col “perturbante” (Freud, 1919), ossia con gli aspetti più oscuri e disturbanti con cui solitamente non si vuole avere a che fare: passioni violente, i lati perversi del sesso, la follia, personalità tormentate e disturbate, l’inquietudine esistenziale, la disperazione urbana, l’orrore che si può celare dietro la normale apparenza delle cose… ossia in un’espressione, “le belve”, i fantasmi irrazionali e conturbanti che abitano le selve dell’inconscio umano. Un’animalità “rimossa” che nel romanzo di Valeria Bianchi Mian si traduce da una parte anche in una variegata moltitudine di animali, uccelli, insetti che compaiono in sordina nei vari capitoli (a cui danno anche il titolo) partecipando alle vicende dei personaggi quali indici di una ferinità con cui ognuno di noi è tenuto costantemente a confrontarsi e che è parte integrante e indissolubile della nostra umanità e dell’ambiente urbano in cui viviamo; un’umanità illusa che nella sfida evolutiva vinca sempre il genio e la tecnica dei Sapiens.
Noir-Nero. Il “nero” è da sempre considerato il colore della malinconia, del lutto, della morte (Nigredo alchemica) “il colore dell’assenza, quando nel buio della notte e del sonno si perde il contatto con se stessi e con le persone care” (S. Argentieri, in AA. VV, 1989, p. 29). Il noir ha sempre a che fare col malessere, ritratto come “uno stato di incertezza, di perdita dell’equilibrio, di attrazione verso il vuoto in cui spesso si cela la paura di guardare se stessi, come attraverso uno specchio deformante, eppure credibile” (G. Gosetti, in AA.VV, 1989, p.107). In questa condizione esistenziale si intrecciano le vicende dei personaggi creati da Valeria Bianchi Mian. Personaggi dalle personalità complesse, sfaccettate e fragili come cristalli di Boemia o simili a “diamanti neri” – nel caso di Dio+ – oppure simili a specchi neri appannati, incrinati o andati in pezzi in cui il personaggio fatica a ricomporne i frammenti anelando all’agnizione del proprio vero Io o alla contemplazione del proprio Es.
“Il corpo crudo” è “politicamente scorretto”, sovversivo rispetto all’ordine costituito e provocatoriamente “scomodo”: nelle scene pervèrt, nella Torino degli ambienti che contano (una città definita come una cortigiana mascherata da una falsa ritrosia), una disamina umana che riduce estremamente la distanza fra l’upperworld della società “perbene” e l’underworld, nell’ambiente urbano con i suoi moderni orrori fatti di miseria, emarginazione, nevrosi e insensatezza; nei giovani alla deriva della vita, di loro stessi, rintronati dalla fatica del lavoro precario; nel linguaggio a volte colloquiale e sboccato dell’io narrante – che, però, dona lievità alla narrazione specie di vicende torbide e cruente.
Il romanzo fornisce un ritratto spietato di una società postpandemica profondamente in crisi, disorientata e alienata senza alcun punto di riferimento trascendentale e morale dominata da precarietà e dubbio, insicurezza, ambivalenza, opacità e ipocrisia, intrisa di rabbia latente sullo sfondo una Torino nella luce autunnale di un autunno reso insolitamente caldo dai cambiamenti climatici globali.
Il romanzo di Valeria Bianchi Mian è un noir avvincente, analitico, intimistico, individualista, in cui “l’unica cosa che conta è l’enigma della psicologia dei personaggi, dei loro rapporti di amore/odio” (N. Frank, in AA.VV., 1989, p.137).
Un noir in cui forma stilistica e contenuto si fondono nel crogiolo proiettivo del tormentato mondo interiore dei personaggi: una Torino e il suo suburbio fatto di claustrofobici grovigli urbani, il degrado delle periferie, stanze buie dove la luce filtra attraverso le veneziane, strade bagnate, retrobottega umidi di sangue e varechina, luci soffuse, rarefatte, intermittenti, le ombre oblique di qualche lampione, la nebbia notturna, le fratte e i parchi della città Subalpina.
Show don’t tell: con questo ambiguo dualismo la scrittura di Valeria Bianca Mian allude in modo sottile con parole, metafore, nomi, frasi e luoghi a simboli esoterici, alchemici, cabalistici, al tarot o richiama ai miti, al folklore di svariate culture piuttosto che agli archetipi junghiani, il che, apre visioni e interpretazioni altre delle vicende narrate (come già ben delineato da Salvatore Augusto Tonti nella sua recensione del romanzo): come non riscontrare nell’evirazione del “blasfemo” Dio+ un richiamo al culto della Grande Madre (Cibele, Venere, Ishtar, Iside) e del divino paredro (Attis, Adone, Timmuz, Osiride), oppure al mito di Abdys e Dioniso, Urano e Gea o altrove un richiamo ai culti dionisiaci delle menadi (Dioniso crudivoro) oppure al mito dei Dioscuri (diade Sirio-Michele)?
Seppure si presti a una semplice lettura d’evasione non è un romanzo consolatorio, non è divertente, non è rilassante. Sembra una cosa vera. Una volta chiuso il libro e riaccese le luci di casa, non ci manda a letto tranquilli. Ci manda a letto con molti interrogativi sulle nostre pulsioni profonde, sul nostro essere uomini, donne, amanti, figli, genitori, compagni di vita, ed esseri umani nella società contemporanea. Ci manda a letto con gli incubi su una fantasia che assomiglia molto alla realtà. L’autrice evidenzia come il nemico, la belva, il licantropo, il mostro, non sia solo un criminale, uno straniero, una “mela marcia”, bensì una parte costitutiva di ogni personaggio, pure del lettore, con il volto anonimo di chiunque, in un contesto dove il bene e il male non appaiono mai nettamente distinguibili. In altre parole, come già ricordava anche Freud, l’autrice mostra come la psicopatologia che si cela dietro alle motivazioni dei delitti sia in intima continuità con la cosiddetta normalità, e come il confine che separa la sanità dalla follia, l’ordine dal caos, sia assai più sottile di quanto si creda. Nessun ordine geometrico e rassicurante, nessun pragmatismo positivista alla A. Christie. Tuttavia, l’autrice, psicologa e psicoterapeuta junghiana, non abbandona il lettore a se stesso in balia di domande inevase sulla torbidezza della natura umana, ma, anzi, lo prende per mano e lo guida lungo questo labirinto esistenziale di specchi riflessi/“labirinto rizomatico” che si dipana pagina dopo pagina, capitolo dopo capitolo.
Al lettore più attento e sagace Valeria come Arianna regala un filo aureo, un fil rouge che simbolicamente inanella le varie tappe di un percorso catartico e edificante attraverso quell’Inferno che è l’Io con i suoi demoni, i suoi rimossi, i suoi miasmi sulfurei e mercuriali e il Purgatorio dei sensi di colpa.
L’autrice offre una galleria di personaggi con psicologie strutturate secondo il modello dei tre cervelli di MacLean di cui Bruno Sirio rappresenta il prototipo della personalità deviante in cui la neocorteccia e il cervello rettiliano sopravanzano sul cervello limbico. Un viatico per il lettore verso un’utopica evoluzione armonica dei tre cervelli?
Nascosti qua e là fra le righe e le parole l’autrice offre delle possibili risposte edificanti, delle stille di luce, come lei stessa afferma: “I personaggi si incontrano passeggiando per le sale di una mostra, creano arte, si muovono in arte, vivono la vita e la morte dentro uno sguardo artistico, trovano nell’arte il conforto al baratro tra la natura e la cultura”.
Così l’incontro fra Greta, donna matura, ossessionata dalla cura del corpo, dalla decadenza fisica, adusa a una bulimia di rapporti con giovani uomini come dighe erette contro i marosi del tempo, unica donna uscita indenne all’indole distruttiva di Sirio, e Vittorio, incontro che suggella l’inizio di una relazione matura e appagante, avviene proprio ad una mostra dinnanzi alla celebre stampa erotica di Hokusai “Il sogno della moglie del pescatore”, opera in cui l’artista giapponese fonde in un unicum un sentimento erotico sensuale in cui la pescatrice e il polpo perdono le loro forme concettuali per esprimersi in un totale abbandono d’amore dove lei diviene lui e viceversa, in un gioco passionale che supera i limiti del conformismo occidentale. Altrove Greta diventa quell’elemento femminile, quella Shekinah cabalistica citata nello Zohar, in grado di esprimere l’agnizione di Sirio in Dio+ e di sublimare nell’esercizio del suo genio artistico il trauma della perdita della madre naturale; in questa parte del romanzo da una parte l’autrice evidenzia il potere della nominazione, una sorta di alchimia viva in grado di estrarre l’essenza di un essere per dichiararne al mondo il nucleo più vero, dall’altro il potere mistico dell’atto creativo “dare forma alla forma e procedere superando i limiti, mettendo a nudo il soffio vitale nel corpo del mondo”.
In altri termini, forse, il messaggio dell’autrice è che in un’epoca che oscilla confusa tra l’idolo della carnalità esasperata e lo spettro di corpi degradati, ignorati e macellati, abbiamo bisogno di ritrovare la grazia della carne, il cui destino a divenire carezza e luce; ma, nel contempo, l’autrice spinge il lettore a riflettere sulla “banalità” sull’apparente “innocenza” sotto cui si presenta il male che attende paziente solo una breccia, un minimo spiraglio per insinuarsi nella nostra vita e devastarla.
“Abbiamo creduto – dice Greta – di non esistere più come animali, ci siamo pensati distanti dalle belve, ed ecco che l’artista, con uno scatto fulmineo del suo genio, riallaccia il nostro ego alla potenza dell’istinto. La coscienza della vicinanza alla belva e ai suoi impulsi ci perturba. La voragine annienta le nostre pretese e rappresenta l’assenza di sovrastrutture.”
L’Inconscio: l’Ombra dove si aggira il Lupo, perno delle vicende narrate nel romanzo, reifica, con metafora zoomorfa, l’Antimonio alchemico, che, ne L’Antimonio – trattato delle meravigliose virtù dell’Antimonio di Sergio Tira edito nel 1628 a Torino, l’autore definisce “somma medicina”: tramite il processo del “bagno del Re” o “del Sole” è in grado di divorare ogni impurezza dell’oro, Re dei metalli. In Basilio Valentino, ne Il commento alla prima delle Dodici Chiavi delle Filosofia (con analogia mistica), il Lupo/Antimonio diventa metafisica panacea nel percorso di liberazione dell’Io/deificazione verso la luce. Scrive Basilio “Ed è per questo motivo che se tu vuoi lavorare con il nostro corpo, prendi il lupo grigio bramoso che, attraverso l’esame del suo nome, è assoggettato al bellicoso Marte, ma, per i suoi natali è figlio del vecchio Saturno, e che nelle vallate e nelle montagne del mondo, è in preda alla fame più violenta. Getta a questo stesso lupo il corpo del Re, affinché egli ne riceva il suo nutrimento e, quando avrà divorato il Re, fa un grande fuoco e gettavi lo stesso lupo per consumarlo interamente e allora il Re sarà liberato. Quando il re divorato rivive col cuore di un leone, è in grado di conquistare tutte le bestie”.
Di converso “Il lupo – afferma Marie-Louise Von Franz – personifica nell’essere umano un desiderio indifferenziato di divorare tutto e tutti, di avere tutto, spesso a causa di un’infanzia infelice. Queste persone sviluppano un lupo affamato dentro di sé. Sono totalmente soggetti alla coazione. Il lupo provoca in loro un’insoddisfazione costante, ringhiante. Essi vorrebbero letteralmente divorare il mondo intero”.
Tuttavia l’etimologia del nome (lupo in greco lukos) mostra tutta la sua ambiguità visto che Lukios è anche tra gli epiteti del dio Apollo che sono riferimenti al lupo, animale a lui sacro. Apollo dio solare, patrono della poesia, in capo alle Muse, dio di tutte le arti. Figlio illegittimo di Latona e che quest’ultima sotto sembianze di una lupa, proveniva dalle fredde regioni iperboree. Fratello della dea lunare Artemide si mutò in lupo per sedurre la ninfa Cirene.
In sintesi come afferma Alberto Caputo: “Il lupo incarna la doppia veste di bestia selvaggia portatrice di morte e distruzione, e al tempo stesso iniziatore e portatore di conoscenza.”
Animale iperboreo, rappresenta la luce primordiale originale e lo si ritrova infatti al centro di tutte le antiche tradizioni nordiche e sciamaniche: è l’animale che vede la notte e i suoi occhi al buio sono luminosissimi (come il lupo dagli occhi fosforescenti e ipnotici che campeggia sulla cover del romanzo). Ricorre nelle saghe norrene e nelle cronache dei guerrieri-lupo berserkr (il morboso “patto di sangue” fra Sirio e Michele bambini).
È anche uno degli animali totemici più importanti delle antiche civiltà nomadi; un archetipo che incarna motivi sessuali ancestrali, ancor più paurosi della sua stessa animalità. Assurge a simbolo di malvagità in quanto pericolo reale connesso al mondo agreste della pastorizia. Il terrore che incute questo splendido animale è però atavico e universale: può essere associato al buio della caverna, all’abisso delle sue fauci fameliche, alle fitte pericolose foreste. Ma come tutti i simboli, anche il lupo ha una natura ambivalente: la sua gola è la caverna, l’inferno, la notte, l’antro pericoloso il cui passaggio, tuttavia, è necessario perché porta la liberazione. Essere psicopompo, assimilabile al cane sorveglia l’ingresso del mondo dei defunti. Spirito minaccioso, dunque, guardiano della soglia, ma dotato di grande fascinazione per la potenza che, nel bene e nel male, suscita nella coscienza: come la luce esce dall’ombra, il lupo esce dalla tana e dal bosco. Nella mitologia greca, come incarnazione di Ares, rappresenta il lato distruttore. Il lupo dunque è tramite e portatore di una conoscenza che viene dalle tenebre e dal regno delle ombre, per questo è pericoloso: evoca un’idea di forza a stento contenuta, è forse simbolo dell’esperienza archetipica con il numen, che, per definizione, è fuori dal tempo e non è assimilabile ad alcuna altra esperienza precedente. È la gola mostruosa (buio) che inghiotte il sole (coscienza), dinamica che, tuttavia, può essere ribaltata se pensiamo al viaggio iniziatico che prevede l’inderogabile necessità per l’uomo di attraversare, per la sua stessa salvezza, il mondo degli inferi, per riportare la luce nella comunità umana. La bestialità allo stato aurorale vera risorsa vitale.
Al contrario il licantropo rappresenta la belva che alberga nella tana della coscienza, che si muove d’istinto cancellando la propria umanità grazie al potere della trasmutazione; quel tipo di altro che è l’apoteosi delle parti oscure.
La figura del licantropo nel romanzo assurge anche a metafora del Leviatano teorizzato da Hobbes: in una società dominata dal principio darwiniano della vittoria del più forte – come teorizza la morale di Bruno Sirio, in cui l’uomo è naturalmente portato alla diffidenza, all’ostilità nei confronti dei suoi simili, all’istinto di sopraffazione nel soddisfacimento dei propri desideri (il plautiano “homo homini lupus”), in cui lo stato di natura si si risolve in una situazione di continua “guerra di tutti contro tutti”, in cui ciascuno può fare e possedere tutto ciò che è utile alla propria sopravvivenza – una logica tipica del cervello rettiliano, la figura della Belva incombente si pone come recta ratio per stabilire un “patto d’unione”, per creare un’illusoria coesione finalizzata a canalizzare la rabbia latente, la mancanza di prospettive e il disorientamento della massa da parte dei media e delle istituzioni.
Uomini lupo ma anche belve – il feminino ferino: nel romanzo di Valeria Bianchi Mian personaggi femminili come la matrigna “incestuosa” Greta, la macellaia procace, seducente e predatrice Filomena, Maristella, coinvolta di una relazione malata con il fotografo – simile a una versione gotica della fiaba di Cappuccetto Rosso – incarnano tutte il topos appartenente al noir hard-boiled della femme fatale (non a caso Freud definiva la donna il “continente nero” della psicoanalisi), donne segnate dalla sofferenza e da un trauma terebrante che le ha sconvolte nel profondo, donne con lati tenebrosi che incarnano una sensualità insidiosa e maledetta dove l’eros diventa intimamente connesso alla morte, con lo scopo di trascinare l’uomo verso un’inevitabile rovina. Ovvero una donna “ragno”, “mantide”, “pantera” o “vipera” che mostra tutto il suo lato più distruttivo e pericoloso per un maschio che, attraverso la propria rudezza narcisistica, sadica da finto macho (che nel caso di Dio+ incarna un certo modello di maschio alfa propinato dalla società dell’immagine), prova a controllarla a dominarla affinché ella non si trasformi in una forza distruttrice. A Bruno Sirio la mano del passato gli sradica la vita dagli ormeggi del presente, probabilmente già vacillanti di per sé, e finisce per rimanere intrappolato nella ragnatela del proprio destino ineluttabile (proprio come Edipo con l’enigma della Sfinge) prova ne è il rapporto incestuoso con Greta e la sua incapacità di creare un vincolo affettivo e una relazione matura con una donna, una sostanziale incapacità di vincere il femminino uroborico (Sfinge, Drago). In altri termini il prototipo femminile di questi personaggi incarna il luogo di proiezione di tutte le più inquietanti e ataviche fantasie maschili, a cui si contrappone l’altro polo dell’archetipo femminile (la vergine, la madre, la donna tenera e redentrice – sono simboleggiate da una capacità primigenia di contatto benevolo con la natura o con le sue creature). Tuttavia, come riporta Antonio Gramsci in una nota dei suoi Quaderni del carcere, “Homo homini lupus, foemina foeminae lupior” questa è la granitica presa di consapevolezza a cui giunge Greta nei capitoli conclusivi del romanzo, al di là di ogni femminismo, solidarietà di genere ed empowerment femminile.
Ma come ci ricorda in Adagia Erasmo da Rotterdam “Homo homini aut deus, aut lupus” e canta R.M. Rilke “l’animale ha la morte dietro di sé: e a sé davanti, Dio”… che, forse, l’avvertire la carne dell’altro nella cura per la fragilità e nella tenerezza, l’anelare alla nostra parte divina ascoltando il dolore proprio e altrui, con afflato empatico lungo la via della compassione sia lo strumento per avvincere e mesmerizzare la Bestia?
Valeria Bianchi Mian, da fine conoscitrice del simbolismo del Tarot, ha racchiuso tutto il profondo significato edificante del suo noir proprio nell’Arcano Maggiore della Forza: la Giovane serafica che domina la Belva. Un romanzo folgorante.
Buona lettura.
Written by Federico Ielusich
Bibliografia
Valeria Bianchi Mian, Il corpo crudo, Edizioni del Capricorno, 2023
Sitologia
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