“Dizionario delle cose perdute” di Francesco Guccini: tentativo di salvataggio (uno di due)
Iniziare una reazione letteraria con una banalità è come fare stretching prima di un allenamento. Protegge le articolazioni e i congiuntivi.

Il passato ci affratella, mentre il presente ci fa al massimo cugini. Del futuro manco siamo parenti. L’unica virtù di quell’ignoto tanghero è che, mentre accade, immediatamente sparisce, per poi sempre e mai più riproporsi, dapprima come presente, ma è solo un attimo, e poi è irrimediabilmente svanito, come un malato di Alzheimer. Ma è allora che comincia a far del male.
Il tempo è un’illusione che ha il vizio di badare a se stessa, svincolandosi da tutti i suoi cari. La scrittura è un’altra illusione, che si crea creando. Lo si può fare nudi, o col cappotto, tanto nessuno ti vede. Oppure coi due piedi immersi in una vasca di plastica, con dentro una manciata di sale, poiché ti si è gonfiato un calcagno dopo una caduta da una scala ovviamente a pioli. Ed è quanto mi sta accadendo, ma non ditelo a nessuno. Anzi, solo a tre: om, dóni e ragâss.
Se ci si pensa, i malanni sono avvenuti soltanto nel passato, mentre il presente è quell’attimo terapeutico che, pur di rado, può anche funzionare. Di doman non c’è certezza, diceva il saggio Lorenzo de’ Medici. Aspettiamo però, prima di giudicarlo.
Francesco Guccini, che è colui che oggi mi obbliga a scrivere, dopo che ieri mi ha forzato a leggere Dizionario delle cose perdute, è uno di quei cantori che entrano nell’anima senza bussare, come fanno i ladri, e che si limitano a rubacchiarti al massimo dei soprammobili, mentre sei assopito, badando a non svegliarti, mettendo a soqquadro l’appartamento. Arrivano anche a cantarti la ninna-nanna! Prima di uscire, ti lasciano poi alcune bancanote sul tavolo, a mo’ di ringraziamento.
Uno pensa a Conte, De Andrè e a De Gregori, come agli autori della propria anima, spingendosi talvolta fino a Lou Reed e a Tom Waits. Ma poi ti ritrovi a canticchiare le canzoni di Guccini e di Ligabue, all’occorrenza. E t’inventi delle balle. Gi altri sono troppo difficili da cantare, mentre questi sono più alla tua portata. In parte è vero, in parte no. La verità è che in ognuno di loro c’è una propria immensa immensità.
Leggo i brevi racconti di questa silloge come se fossero dei brani musicali, non per scelta, ma perché non posso far diversamente.
Il primo racconto riguarda “l’infame banana” di capelli che formava “un ricciolone enorme e cavo che sovrastava i nostri occhi”. Tortura da cui sono stato dispensato, per fortuna. Anch’io provo vergogna a vedere le mie foto di quando ero piccolo (anche di ora, il che significa che non sono tanto cresciuto). Specie quella che mi fece un fotografo chiamato dalle suore dell’asilo che decise di ritrarre uno a uno tutti i bambini in divisa, seduti a una scrivania e con la medesima penna in mano. Nel mio caso, purtroppo, era tenuta rovesciata, con la punta in alto. Il fotografo non se ne accorse. Men che meno io. Fu un prodromo del mio futuro di reagente letterario.
Bello il ricordo del “chewing-gum”, pronuncia cievingum, ch’era una pratica giornaliera, eravamo tutti cievingum addict. Il più bel ricordo a proposito non c’entra con la mia infanzia, ma a un viaggio in Spagna. In carrozza con me c’erano due bimbi gitani. Uno masticava la gomma, l’altro no, ma fissava l’amico con occhietti rapaci. Quando il primo aprì la bocca con la gomma che pendeva, l’altro gliela tolse in un lampo e se l’infilò di brutto nella propria. Li sentii come consanguinei.
La siringa dura di cui parla Francesco, messa a scaldare per sterilizzarla, m’inquieta troppo. Passo al racconto successivo.
Anche se non ho tanti ricordi Cantastorie di piazza. Semmai del burattinaio Otello Sarzi, di cui un giorno scriverò.
Del Flit so che esisteva, soprattutto in certe espressioni, ma nulla sapevo, prima di leggerti, Francesco. Nemmeno ai successivi tre racconti so dare un contributo. Li ho letti con piacere, però.
Nel seguente, parli delle “resdore”, le reggitrici, i pilastri della casa, insomma. E poi di latarōl (tu che simuli di essere studiato, dici lattaio). Ce n’era una a trecento metri da casa nostra. Il marito portava il latte fino a casa, poveretto. Litri interi di vetro ma poi anche piramidi di plastica da mezzo litro. Latte intero, se ben rammento, per nulla scremato. Tre piani senza ascensore. Mi viene il sospetto che forse erano i clienti a fare le scale, ma non ricordo bene.
Poi parli delle mosche che affollavano le stanze, e qui mi viene a mente la sala da pranzo dei fratelli di mamma, che facevano i contadini, sita a pochi metri dalla stalla, immaginiamoci… Forse è un fatto simile a questo che ha ispirato Buñuel nella celebre scena del cesso comunitario con tutti quanti quei borghesini accovacciati sulla propria tazza, attorno al medesimo tavolo.
Oggi le mosche sono così rare in città che c’è chi pensa di farle proteggere dalla Lipu. Questa, se la studi bene, è un esempio di ironia gucciniana. Che è anche un po’ una mezza piolata.
Parli dei giochi, per esempio “Le palline”, tante “di terracotta, più qualcuna, rara e preziosa, di vetro”: per me, che sono un baby boomer, fu il contrario: poche e preziose quelle di terracotta (forse ce ne ho ancora in solaio!), tutte le altre di vil vetro. Sic transit gloria pallinæ.
Fra gli altri giochi, vorrei, se posso, aggiungere lo sparaelastici, un tronchetto a cui era azzeccato un ciappetto (tradotto a eventuali fenici: le mollette con cui si stendono i panni) di plastica dura. Questo sicuramente ce l’ho ancora in solaio. In fondo al legnetto era seghettato un taglietto orizzontale in cui poggiava l’elastico, tenuto ben teso dal ciappetto. Un ragazzino diventava automaticamente un Pecos Bill. Tex allora era poco conosciuto, almeno in famiglia.
Non ho ricordi infantili di taxi, ma del postino in bici sì. Ricordo che il nostro fu sospeso per un certo tempo. Si vociferava che avesse combinato qualcosa di losco. Che non intendo riportare. Dopo che l’ho saputo, ebbi più simpatia e tanta pena per lui.
Su il dentrifricio e i balli, poco ho da dire. Anch’io andavo in bicicletta senza mani. Era facile come respirare. Oggi non mi attenterei. Apprezzo molto, amico caro, la tua ironia antifrastica: “I vantaggi di questo tipo di frenata sono ancor oggetto di approfonditi studi”. Oggi nessuno ci pensa più, tu stai salvando il ricordo di quel fenomeno.
Nulla ho da segnalare sui liquori, se non che per me l’Archesmes esisteva, come Dio, e come il Misto per dolci.
È la battuta vernacolare di fine pagina 86, che non riporto (chi la vuol conoscere la vada a leggere) anch’essa un’antifrasi? Ricordo che in tedesco si negava il diritto di sporgersi dai finestrini, mentre nelle altre lingue si accennava solo al pericolo connesso.
Anch’io, ma ho qualche anno prima di te, ebbi tardi l’accesso al diritto alle braghe lunghe. Non ricordo di aver mai patito freddo con quelle corte: era il nostro destino di infanti condannati alle scuole elementari (senza che avessimo fatto nulla di male). Probabilmente davamo per inevitabili le pene per il gelo invernale.
La naia è il racconto che più mi scuote l’anima. Troppi ricordi, alcuni amari, e per lo più disperati, ma anche allegri… Se vuoi, ne parliamo a voce. Al bar, magari con Benni e, se ha tempo per passari, il buon e svaccato Celati. Una sola cosa mi va di spiattellarti. Avevo deciso di fingermi omosessuale, per evitarla. Poi rinunciai, pensando al dolore che avei recato ai miei, qualora l’avessero scoperto. E andai alla naia, senza una guerra in mezzo, per fortuna. Fu un’esperienza drammaticamente noiosa, ma formativa, esattamente come la squola (e la trasgressiva q è per me d’obbligo). Ricordo un elogio del capitano che squarciò in due tutta la piazzola: Pioli lei non sa marciare! Anche oggi, per fortuna. E me ne vanto. Tornato a casa, capisti che “la vera naia cominciava allora…” – pensa che papà, mentre mi abbracciava al mio rientro a casa, mi disse: t’ho trovato un lavoretto. Fu la fine del mio sogno marcusiano.
A pagina 102 leggo dell’etimo di Naja: è interessante, e lo metto in saccoccia. Se qualcuno lo vuol sapere glielo regalo, ma a voce.
Non so nulla della costruzione detta “ghiacciaia”, ma so che da noi i contadini, dove non faceva freddo come sui tuoi monti, mettevano il ghiaccio sotto terra. E adoperavano l’aqua druvêda (adoperata) mille volte, fino a quando diventava putrida, per cui veniva buttata in fondo al cesso esterno. Che puzzava da dio anche per quello (che è una bestemmia del tutto involontaria, mio dio!).
Ricordo anch’io che il prefisso telefonico una volta serviva solo nelle chiamate interurbane. T’informo che ho collezionato gettoni telefonici per anni, insieme al mio amico Onorio (ci chiamiamo ancora così: veh… getunêr, cme stêt!), tutti accuratamente stipati in un album: ho uno Stipel 1927, un Timo 1928, un Teti 1945, un Telve senza data e anche un più piccirillo S.E.T., poiché forse non sai che da Napoli in giù c’era la Società Esercizi Telefonici. Chissà a Cagliari che c’era… Poi venne, sempre all’ombra del Vesuvio, la IPM. La ESM a Milano. La UT a Torino. E, infine, la CMM a Catania. Poi nel tragico novembre del 1980 tutto sparì nel Khaos Kosmico, come se fosse stata una misera illusione. Ciao mio amato gettone!
Il tuo primo numero di telefono familiare è stato 32417, il mio fu 49231. RIP! Se ce li ricordiamo ancora è perché allora non venivano memorizzati sul cellulare, che ancora non era emerso dalle nebbie del futuro. E perché era stampigliato sul telefono stesso.
Non ricordo così tassonomicamente come sai fare tu la varietà dei pennini, ma il calamaro di cui parli fu una delle cause del mio attuale stato mentale. Una volta Enrico Paoli mi ordinò di leggere un passo tratto dell’Atlante Storico De Agostini di sua proprietà. Egli era un laureato, un noto scacchista, un diplomato al Conservatorio, un Capitano di lungo corso, nonché il severissimo mio maestro elementare. Che mi ben voleva a modo suo. Un po’ meno mi amò quando rovesciai non so perché la boccetta d’inchiostro su quell’inclito libro. Papà glielo dovette ricomprare. La copia macchiata, per me preziosissima, ce l’ho ancora in solaio, se t’interessa vederlo. È una specie di inconsulto reperto di Rorscach. Vent’anni dopo incontrai Paoli in via Roma e lo salutai con calore. Era quasi centenario e mi riconobbe solo quando gli dissi: Sono io, Macchiafacile! e lui, subito disse: Pioli! Ma come stai?!
Grazie a lui, che era triestino, dico pesce e non pese, fascista e non fasista e mi sciacquo le mani, come gli altri italioti, senza mai siaquarmele. Diversamente erano delle sane bacchettate sulla mano destra messa a pigna. E dovevamo dirgli pure grazie, perché lo faceva per il nostro bene.
Mai salito su una Topolino in vita mia. Ma sulla sua equivalente d’oltralpe, sì: la 2CV6. Il mio amico Tonino mi portò fino a Saint-Tropez, ‘ncoppa a quella meraviglia!
Al caffè d’orzo voglio bene perché mi ricorda mia madre. Anche al caffè cioccolato, e lì non c’entrava nulla il caffè, almeno mi pare, bensì la fecola, che ora nei bar non credo venga messa: usano degli additivi mi sa.
Mi fa ridere il tuo racconto sul prete. A te e a eventuali sardi in ascolto, per mantenere la decenza, riporto una poesia indovinello che ho colto (come si fa con un fiore) in un sito reggiano qualche settimana fa. L’ha riportata il sommo maestro vernacolare Denis Ferretti (che mi bacchetta talvolta, solo con l’ironia, per mia fortuna).
“L arsiprçt ed Cadelbôsch/ a’gh l à céch es a’gh l à grôs/ e a la sîra e a la matèina/ la perpèttua la gh al mèina”

Si allude evidentemente al prete di legno usato per scaldare il letto, un aggeggio di legno di svariate dimensioni, che ho ancora, spero, in solaio, non saprei dirti dove esattamente.
In Le sigarette, dici sempre tabaccaio, mentre nella fascetta della copertina leggo tabacchino, essendo, in emiliano, tabachîn. A Reggio diciamo anche paltèin, da appalto (di sali e tabacchi). Anche da voi?
“C’erano anche gli eroici cercatori di cicche.” – noi avevamo la Bişâra che era famosa in tutta Reggio. Forse ai tuoi tempi erano più diffusi questi individui. Oh, ragazzo, hai qualche annetto più di me. Non tanti, dai…
Una curiosità. Quando papà andava dal paltèin, questi gli esibiva una coppia di pacchetti, al che papà ne prendeva sempre uno solo, che non passava la giornata. E il giorno dopo la scena puntualmente si ripeteva. Capitava così anche da te?
“Un tempo, normalmente, si entrava al cinema quando ci pareva…” – è vero, non alla fine di una proiezione, come accade adesso nelle multisale. Ed è ugualmente vero che si andava a casa di un amico, o passava lui da te, e insieme ci si recava al cine in bici. A volte questo non accadeva se l’amico (liceale) era troppo distante, e ci si ritrovava davanti al cinema. Accade anche quel mitico sabato pomeriggio. Arrivai davanti al noto cinema Eliseo, dove erano in genere programmati i film osè. Quella volta Alberto arrivò con un colpevole ritardo, anche perché il titolo del film era incoraggiante: Gola profonda. Di cui ricordo tutto eccetto la trama.
Mentre lo stavo aspettavo colsi dei commenti ironici su di me da parte delle coppiette passanti…
“Manca però quel senso di Selvaggio West che c’era nei cinema di una volta.” – fosse solo quello che fa difetto, mio caro!
Quello che manca, dicono che ormai non serve più!
Oh! Ora ti lascio che devo leggere il secondo volume scritto dal tuo avatar.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Francesco Guccini, Dizionario delle cose perdute, Mondadori, 2012