“Pupetta” di Philippe Vilain: la Mulier di un Vir perduto
La Storia è una controversa serie di interpretazioni di storie, che raramente s’armonizzano, nemmeno se lo si desidera intensamente.

Camorra (o gamurra) è una veste femminile che può servire a camuffarsi, come tentò di fare Achille, in accordo con l’espressione campana: vestirsi da scemo per non andare alla guerra.
Non so da dove derivi l’espressione sicula grandissima camurria! Pare da gonorrea, ma non v’è certezza.
La mafia è nata, si dice, da una setta di vendicatori ed è ora un’organizzazione criminale fra le più pericolose. La camorra è senz’altro una grandissima camurria. Agli inizi, chissà cos’era!
Ci sono tante storie e leggende, secondo cui un tempo l’onore era il dato più importante di un’esistenza, sia nella sua parte celata che in quella visibile.
Né bisogna dimenticare che fin da piccoli ci hanno fatto leggere i salgariani romanzi del bandito Sandokan e del Corsaro Nero. E che negli anni ’60 c’erano i film di Vidocq, che da ladro si tramutò, come per incanto, in un poliziotto: entrambe le professioni furono da lui svolte con astuzia e valore.
Questa è la forse troppo lunga premessa per cercare di comprendere il presente romanzo Pupetta di Philippe Vilain (battuta: nomen omen?), in cui gli eroi principali si macchiano di vari delitti.
Nell’esergo è riportato un lungo pensiero di Falcone, da cui estrapolo il punto dove si dice che tali “uomini d’onore”, che così si presentano al mondo, “sono uomini come noi” – il che è una banalità che reca in sé una verità quasi scientifica. E dove si specifica che la mafia “ci somiglia” – dovremmo essere pertanto tutti quanti fratelli, come predicava Qualcun Altro. Nonché parenti serpenti.
“… per avere la stoffa di un vero guappo bisognava essere generosi, prodighi, almeno per pagare da bere a tutti, bisognava saper perdere per vincere.” – sapendo investire delle risorse al fine di vederle incrementate nell’immediato futuro.
Per il padre di Pupetta “che la vita fosse ingiusta, su questo era perfettamente d’accordo con lei, lui lo sapeva meglio di chiunque altro, dato che si era sollevato dalla miseria solo con le sue forze…” – come mio papà anch’egli aveva lavorato fin “da giovane”, poi ognuno dei due aveva scelto come campare. Per Assunta Maresca tutto parve inevitabile: meglio essere sfruttato dalle situazioni o sfruttare le stesse? – “… la scelta era presto fatta”. Papà a quattordici anni trovò un impiego in regola, e lavorò onestamente per quasi mezzo secolo.
Per la giovane Pupetta il problema più cogente è poter scegliere il proprio marito, senza farselo imporre. La madre, che vive da “prigioniera”, rinchiusa nei suoi obblighi familiari, ogni giorno l’ammonisce: “… non sei tu che decidi!”
Pupetta sceglie un tipo che non piace in famiglia: “Pasquale Simonetti, detto il Colosso”, un “camorrista in piena ascesa…”.
Leggo col fiato corto la descrizione che l’autore fa dell’iniziazione del giovane camorrista. Preferisco non riportare nulla di questo. Non è che non mi paiano cose interessanti, tutt’altro, ma vorrei ora tentare di capire quale sia l’intento artistico di questo Vilain.
Egli descrive Simonetti come “un camorrista della peggior specie, uno di quegli idealisti che non scelgono la strada della mafia per interesse ma per convinzione.” – non per caso ma per necessità, direbbe Monod. È un caso di cogenza esistenziale.
Egli sa che “si otterrà sempre meno con i convenevoli che con i proiettili”: mi pare un discreto camorrista, almeno nelle premesse.
“Nessun mafioso è ateo…” – ma venera il dio che si merita. A ciascuno la sua fede e il suo destino!
I due colombi sono innamorati, e cosa c’è di più bello?! Si sposano e lei è incinta. La scansione temporale è indifferente quando ci si ama: cambiando l’ordine degli addendi il risultato non muta. La natura e la socialità sembrano così armonizzarsi.
Per santificare la loro unione, Simonetti sceglie di andare in carcere per un breve periodo, per saldare un piccolo debito con la giustizia e, soprattutto, per riorganizzare le idee: due ottimi motivi. È come andare in trasferta al fine d’incrementare le proprie risorse. Strano modo di pensare, eppure pare che a volte funzioni.
Intanto Pupetta sta imparando a “essere donna”, per “far emergere un senso di sé e un’emozione negli altri.” – l’intento della coppia è lo stesso che per tutte le altre: vivere per sempre felici. Quell’avverbio di tempo è qui estremamente caduco. Perché, là fuori, “Napoli godeva della sua tragica potenza”.
Pasquale se la prende con un “fratello” che l’ha tradito e minaccia d’ammazzarlo. È la sua fine. È la sua morte. È l’inizio dell’epopea di Pupetta.
Fiction e realtà si mescolano ogni volta che s’accende la scintilla che conduce alla tragedia: era lui, “Pasquale Simonetti medesimo a venire trasportato dentro quella bara, e il suo ricordo svanì in un senso di finzione.”
Lo spettacolo deve però continuare, essendo come rinvigorito da quella disgrazia.
Pupetta dichiara a “Gargiulo, il commissario” che tutti sanno il nome del colpevole della morte del marito. Il poliziotto le dice, “con aria falsamente innocente”, che, in carenza di prove e di testimonianze, non si può far nulla.
In guerra si deve ogni volta decidere se attaccare o attestarsi nelle retrovie, a seconda del vento che spira, forse neanche quello del tutto innocente. Per quanto riguarda i testimoni, “la paura li rendeva codardi”, e poco si fidavano di un “padrone che cambiava secondo delle guerre di gang”.
Nulla cambiava se ogni volta, trasformandosi, tutto tornava a essere uguale. Ho storpiato un pensiero di un personaggio de Il gattopardo di Tomasi di Lampedusa. L’idea però era quella.
A Pupetta non rimane che condurre il proprio destino verso un atto eroico quanto disperato: una giustizia fatta da sé, ovviamente non gratuita, ché le sarebbe costato forse una vita di patimenti, la sua e, senz’altro, quella del bimbo che fra poco avrebbe bussato nel suo ventre, pronto a uscire.
Dopo quel nuovo e cogente misfatto, lei non può che levare finalmente un grido “al cielo”: “Riposa in pace, amore mio!”. Tragœdia missa set! Ite!, in prigione, per tanti anni!
La catarsi è però avvenuta. Dopo di cui segue la forzata pausa, essenziale per meditare.
Una frase a pagina 127 mi ricorda il titolo di un thriller di Gabriele di Giovanni: “il sangue chiama sangue”, lo vuole, lo pretende. Così è per Pupetta, così fu sempre in ogni guerra, in ogni tipo di conflitto armato fra gli umani. L’uomo è un animale tanto sociale quanto assassino.
La passione è a volte questo, non solo amore, è anche morte: Eros e Thanatos.
Pupetta diventa un’eroina per tanta gente, soprattutto per le donne che così pensano: “qualsiasi donna si sarebbe vendicata così, per amore.” – per difendere il proprio Onore.
Pupetta affronta la sua sorte con onestà e virtù. Non nasconde nulla, né finge alcunché.
“La legge non ha il cuore di una madre, è spietata, applica, esegue senza preoccuparsi dei drammi che causa…” – non è forse anche maschile, paterna?

Dopo pochi anni le viene tolto il figlio nato a cospetto di quella tragedia. E questo la deprime ulteriormente, facendola rinchiudere ancor più dentro di sé.
Un giorno però lo rivedrà, essendo scarcerata grazie a un’amnistia presidenziale.
Tredici anni di gattabuia e poi, d’incanto, la salvifica luce.
Il figlio torna fra le sue braccia, un po’“intimidito” da tanta madre, ma “il suo sguardo era quello di suo padre”. E questo potrebbe preoccupare.
In un certo senso quel Simonetti fu un martire, nel senso di testimone.
Pupetta fu l’eroica vestale, la protettrice del nome del suo uomo.
Ma chi è senza crimine, se può, lanci in cielo la prima fedina!
Ma che strana e infida menzogna è la Storia!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Philippe Vilain, Pupetta, Gremese, 2023