“Fine di un matrimonio” di Mavie Da Ponte: l’amore è conflitto?
“Alberta, devo parlarti.” – lo dice Libero, nomen omen (anche se sarebbe più corretto identificarlo come Liberto, ma da cosa si sta affrancando? o si è già affrancato e siamo ai saluti?).
Egli è un ginecologo per questione di famiglia, anzi, di razza, con padre e avi vari che già operavano nel settore, il quale si dichiara “stanco di tutte queste donne che prima sono ossessionate dall’idea di riprodursi e poi passano la gravidanza a piagnucolare. Stan-co!” – come un funzionario parastatale di fronte all’ennesima pratica da sbrigare, gemella di quella che l’ha preceduta.
Alberta, detta Berta è la donna con cui anni prima Libero si era sposato e da cui si sta dissociando, come se si trattasse di un terrorista pentito a metà. Per lui, non è una nemica, ma una prossima estranea, non meritevole di eccessive spiegazioni. Di fatto il e la consorte è colui/colei che esige delle spiegazioni: dove sei andata/o, con chi ti sei vista/o, cos’hai fatto? Quando lo chiede in modo diretto è fastidioso/a, quando non lo fa c’è da temere che abbia indagato per conto suo, oppure che il tuo destino non lo/la interessi più. La scelta necessaria, a volte, è tagliare i ponti, quelli che potrebbero rendere vana la propria fuga. Sfuggire qualcuna/o per poter incontrare qualcun’altra/o. L’io narrante è Berta, diminutivo con cui è conosciuta normalmente Alberta. Libero è il marito che non dà eccessive spiegazioni, uno che parla poco. Il matrimonio è un conflitto, diversamente si dice che quella è la Famiglia del Mulino Bianco, dove la vita scorre senza incidenti, dove ci si divide i compiti: uno dà le indicazioni e l’altro l’assenso, vidimando la volontà del/della partner. A parità di efficienza psico-fisica, i coniugi sono posti giuridicamente al medesimo livello, ma è il quotidiano che decide le loro sorti. Nel caso in parola è Berta che ha in mano la situazione ed è Libero che, liberamente, segue le sue direttive, e che un giorno ha deciso di deviare, dove lo sa solo lui.
Libero vuole separarsi, ha già parlato con l’avvocato (si torna sempre, alla fine, al fatto giuridico). Il motivo ufficiale, nonché laconico, è: “Ho un’altra donna.” Libero dà poi alcune sparute spiegazioni di tipo psicologico, che lasciano il tempo piovoso che trovano. Per motivi collegati a un nuovo rapporto sentimentale, Libero dice: “ho sentito una forza spingermi altrove.” – il che la dice lunga su questo Libero, che è tale solo per essere trasportato da una parte o dall’altra, come lo è un fuscello d’erba, una foglia d’albero. Non tutta una pianta, non un albero intero ma, almeno all’inizio, qualcosa che può solo svolazzare. Il fusto infisso nel terreno, in famiglia, è, o almeno era, lei, Berta. Ora lui pare in grado, finalmente, di assumersi tutte le responsabilità, per cui dice: “È colpa mia, è solo una cosa mia e me ne assumo la responsabilità…” – arbitro del proprio destino.
A volte chi decide una gara è il guardialinee. Ce n’è uno, in questa storia intitolata Fine di un matrimonio di Mavie Da Ponte? Dov’è, nel caso? Chi è? Misteri che, almeno nella Prima parte, non vengono svelati.
Berta deve agghindarsi per “andare a inaugurare una mostra che stavamo preparando da un anno.” – in una galleria d’arte dove lei espone dei quadri, non per motivi culturali, ma per puro meretricio, pardon, volevo dire per mero commercio.
“Mi vestii, tirai su la zip dell’abito senza chiedere il suo aiuto.” – gesto notevole in quanto simbolico, in quanto, per contratto, tirare su la zip della moglie (posta sulla schiena, ovviamente) è una delle tante mansioni di competenza di un marito, come portare in strada la spazzatura.
Berta è una persona che ragiona per simboli, me ne sto accorgendo. A pagina 13, aveva chiesto al marito, che però era interessato a ben altro: “… Hai saputo di Parigi?” – del disastro occorso alla cattedrale di Notre-Dame. Anche il suo matrimonio s’è frantumato di botto, almeno dal punto di vista di lei. Quello che più ferisce l’abbandonato/a è che, quasi sempre, è l’ultimo/a a saperlo, se gli/le va bene è il secondo, mai il primo/a. La sensazione che si prova è quella che avrebbe un bicchiere di vetro che si frantuma cadendo a terra, se possedesse un animo e chissà se non ce l’ha.
“Mi sentivo stranamente tranquilla, nonostante avessi appena assistito al crollo del mio matrimonio, che sembrava essere venuto giù con la stessa rapidità della guglia di Notre-Dame.” – Libero non aveva mai dimostrato un carattere indipendente. In casa, la tetragona era lei, altro che balle.
“Mi affascinava il commercio, lo trovavo nobile: era una delle ultime forme di comunicazione rimaste che ammettevano il valore dell’ipocrisia, della finzione.” – con buona pace di chi, come la studiosa della letteratura Lucia Rodler, la quale, nel saggio Con altre parole, ricorda che comunicazione deriva da cum e da munus, un regalo che si vuol condividere. Berta non dona opere, le cede a pagamento. Berta ama lucrare. È la sua vita oramai. Libero le aveva comunicato la sua idea e il suo io ora sta narrando una strana favola, il cui soggetto principale è, per la prima volta, Libero: “… e mi sembrò che la sua presenza al mio fianco non fosse così rilevante. Forse quel vuoto mi donava, e in qualche momento ebbi la sensazione che essere sola mi semplificasse le relazioni, rendendole più immediate, più fluide, meno vincolanti.” – la passione amorosa è una catena, e rimane tale anche se talvolta il meccanismo è arruginito.
“Il matrimonio aveva spento le luci che mi permettevano di guardarmi.” – una specie di buco nero, in cui si poteva soltanto brancolare. L’io crea delle allegorie che tendono a essere contagiose. Ed è un attestato del pregio della scrittrice. Quando un aspetto della scrittura è condiviso, risulta più facilmente digeribile. Un libro è una pietanza che può piacere oppure no, ma l’essenziale è che sia assimilata dall’organismo estraneo che si è intrufolato dentro, il vil lettore. L’io di Berta definisce Libero “quel vulnerabile animale che, forse, mi aveva sposato proprio perché gli impedissi di andare in frantumi.” – singolarità attrattiva che unifica l’Altro a Sé, proteggendolo dall’entropia cosmica. Per come lo ricorda quell’io, il matrimonio fu una specie di transazione commerciale: “mi ero innamorata di Libero con una serenità indolente e avevo lasciato che entrasse nella mia vita senza opporre resistenza, ma anche senza spalancargli le porte. La mia riservatezza era una forma di emancipazione.” – non un dono fine a se stesso, ma un accordo stipulato fra le parti.
“Libero dominava un impero dove tutto era stato scritto prima: era ginecolo da generazioni.” – questo era il suo orgoglio, la sua casta di appartenenza. Gente messa bene economicamente.
Berta veniva da una periferia che io riconosco simile alla mia, non distante dal centro, eppure s-centrata, dove si parcheggia però sotto casa. La sua origine modesta – era figlia di un commerciante di scarsa levatura (secondo quanto il suo io va dicendo) – la differenzia anche dall’amica Carla, che apparteneva a una famiglia di più alto lignaggio, nulla di straordinario, eppure tale da apparirle privilegiata. Un banale episodio della sua giovinezza la dice lunga su quanto poca simpatia Berta provasse per quella che sarebbe diventata la sua amica del cuore. Si tratta di un piccolo gesto, assai significativo, che è accennato a pagina 58. Leggere per credere.
Alcune descrizioni minimaliste, dei piccoli segni, come “la matita nera intorno agli occhi” sanno ben illustrare certi aspetti pregressi e attuali della personalità di Berta. Quell’io, oltre che narrante, è figurativo, per cui abbondano le allegorie, le metafore e soprattutto le similitudini: “la fine di un amore è un orologio che ha esaurito le pile, e anziché cambiarle, ci si compra un altro orologio…”.
L’io di Berta è dotato di grande capacità d’osservazione, per esempio quando di una signora dice: “vidi la peluria, che le faceva ombra sopra le labbra, brillare in controluce.” – lei è una mercante d’arte in ogni attimo della sua vita! Philippe Daverio sì che la saprebbe apprezzere!
Scena quasi ossimorica: “… sentii il telefono vibrare, da qualche parte. Lo cercai: era nella borsa. Quando lo presi in mano, aveva smesso di suonare. Era Libero. Feci per richiamarlo, colta dal panico e da una inconsueta spavalderia. Dava occupato.” – non so a quale gestione telefonica facesse capo, ma il cellulare di Libero non era libero.
“… avevo un’aria pittoresca, da commedia, o da romanzo popolare, trasandata e disorientata com’ero.” – un quadretto ottocentesco?
Mi spieghi il concetto chi può: “Non era mio marito a mancarmi…” – bensì “mi mancava la certezza del suo ritorno a casa.” – era un capitale che sarebbe andato perso, un investimento andato a… a farsi benedire. Chissà chi era quella donna che se l’era accalappiato?
Una reazione l’io ce l’ha quando, dopo nove mesi di finta menopausa, le tornano le mestruazioni: aveva ri-partorito il ciclo donnesco. Un altro aspetto da indagare è perché si rechi così spesso a rifarsi le unghie. Avendo una figlia che ha un analogo problema, lo chiederò a lei. La descrizione che Berta fa di sé è penosa, composta com’è da “lentiggini sul dorso delle mani”, “capelli grigi che iniziavano a moltiplicarsi”, “rughe che…” – si badi che Berta ha meno di mezzo secolo di vita e che quel limite angosciante non è stato ancora oltrepassato, quando inizia la Seconda Parte.
Il sedicesimo capitolo si conclude con un prevedibile proposito: farsi “risistemare da Sara” le unghie. Sara è cinese e il suo nome originale è troppo difficile da ricordare. Nel frattempo qualcos’altro si era rinnovato: il marito “era tornato da Carla per inerzia, ma egli stesso non sapeva che farsene di questo ritorno, di questo ritrovarsi che era una tappa intermedia tra il lavoro e la sua vera vita…” – il cui fulcro era, insieme a tante altre cose, altrove. A pagina 109 comincio a collezionare le similitudini ideate da Berta, e d’ora in poi ne indicherò alcune, e ce ne sono di assai penetranti. Pensando a Carla, le pareva che “la sua esistenza si era piegata e poi rivoltata, come il ramo più basso di un albero che affonda nel terreno per stanchezza e poi esce, e non sai se è sempre lui o una pianta nuova”: ognuno diventa l’avatar di se stesso. Pensando a Libero, le viene in mente quel gatto, tanto amato dal padre e tanto vilipeso dalla madre, chissà perché.
Altre similitudini significative alle pagine 118 e 123 e un paio di assai fantasiose a pagina 125.
Ogni tanto Berta la smette di fare paragoni fra le situazioni che sta vivendo e il mondo che le gira attorno, richiudendosi in sé per meglio giudicarsi. In fondo a un capitolo, dice: “Ero diventata vecchia senza mai essere diventata adulta.” – cioè? Che le sia mancato quell’attimo in cui uno dice che è giunto a qualcosa di importante, e ne è soddisfatto? Altre tre similitudini a pagina 127, dopo che, nella pagina precedente, si era detto che “era da un bel po’ che stagnavo in un eccesso di realtà.” – e questo le avrebbe dato diritto a “un po’ di finzione”. Altre quattro similitudini a pagina 129, dopo di cui, per caso e un po’ per necessità, Berta si scotta una mano. Il che la distoglie da una più bruciante verità, avendo appena intravisto Libero guidare “una Clio rossa” e “accanto a lui, c’era l’altra.” Altre salvifiche similitudini alle pagine 132 e 133 e, nel frattempo, Berta si iscrive “a un sito di incontri”. Registro poi altre similitudini, in una specie di foresta di mangrovie, alle pagine 138, 139, 141 e 143. Non so poi se le ho segnate tutte. Ce ne sono tante!
Berta ha un urgente bisogno di verificare l’altro, nel senso di Altri, di gruppi, nonché di gente sparsa: “… iniziai a osservare la gente: uscivo la sera e guardavo i passanti con insistenza…” – come se fosse un esercito che non si sa bene quanto sia composto da invasori o da alleati. Berta si sente come un paese occupato: le similitudini sono mie. Dopo aver parlato con colui che ancora definisce “mio marito”, come dire il mio maschio alleato, purtroppo di fatto ex, dopo aver chiuso con una mezza insolenza la telefonata, scrive: “riattaccai esultante, e senza una sola ragione per esserlo.”
Due pagine dopo la similitudine di pagina 151, aggiunge: “tentavo di riempire i vuoti con le parole, come fossero stati quadri da appendere alle pareti; era per quello che avevo aperto una galleria, per colmare i buchi, per provare a non perdermi nell’eccesso di spazio e di tempo che mi usciva dalle tasche.” – che ora rischiano di tornare vuote, com’erano prima del matrimonio. Altra ricerca di gente, ma diversa dalla solita: “spacci asiatici dove puoi trovare di tutto”; altra similitudine a pagina 159, nonché a pagina 160, 167, 172, una un po’ più estesa delle altre a pagina 177; “quelli del kebab”, uno dei quali le dice ogni volta, quando gli passa accanto: “Ciao, bella signora”, che poi lei ancora non ha capito se siano egiziani o turchi, poco cambia in effetti; il “minimarket dei pakistani”, per la frutta; e poi c’è Sara, la cinese dal nome impronunciabile, colei che si occupa delle sue unghie che, come tutto, scorrono in avanti, per cui sono da ridimensionare periodicamente.
Berta ha un incontro romantico procuratole da Carla, che finisce nel migliore dei modi: così così, tra varie similitudini e allegorie, che si alternano mestamente, specie a pagina 180, 182, 184, 186. Quel tipo, Lorenzo, “non era sgradevole: era solo giovane. Era acerbo come le pesche, quando non è ancora giugno e appaiono voluttuose e rose ma, se provi a mangiarle, ti accorgi di non riuscire a violare la loro polpa legnosa, che sa di linfa e di mandorle amare.” – il sapore del cianuro, dicono. Ulteriore similitudine, vocabolo che rima con solitudine, a pagina 188.
Berta non è una cuoca, né provetta né scarsa, e mangia per lo più cibo da strada o da supermercato, soprattutto “kebab che detestavo” – o pizze da scongelare, che non sono male dai, mica uccidono! Per allietare ulteriormente la mesta serata, Lorenzo annuncia lo scoccare del ventennio dal suicidio per impiccagione del padre, “il giorno della prova orale della mia maturità”: allegria!
“Avrei potuto almanaccare sui voltafaccia della memoria, che fa ricordare smisurato un giardino grande poco più di un’aiuola.” – capita anche a me, quando passo davanti a quello strapiombo (così mi pareva da bambino) di un cortile di via dell’Aeronautica, che è situato a cinque/sei metri ai piedi di un cavalcavia. Il che mi fa ricordare un passo che avevo letto a pagina 128: “… per un tempo indecifrabile – il tempo notturno, che si dilata e si restringe di colpo, a tradimento –, ero restata immobile, sbigottita, nel buio, gli occhi spalancati sul soffitto, mentre Libero mi ronfava accanto – al solito, inconsapevole.” – tempo e spazio sono entrambi illusori. Ma chi è il mago Silvan che li fa funzionare, esibendoli come reali?
“Io che ero venuto dal Quartiere, che mi ero realizzata sposando un ginecologo; io che ero una persona irrisolta, nonostante mi stessi avvicinando all’età matura…”. Io che non riesco a districarmi nello spazio-tempo, a svincolarmi dallo stesso. Io che vedo in Emilio, ex amico mio, ora costoso legale di mio marito, che veniva dal mio stesso quartiere e che viaggia come un ridicolo parvenu, rinnegando le sue origini proprio come vorrei fare io. Questi ragionamenti sono miei, non dell’io, io glieli ho solo messi in bocca. Mi sono sorti in mente da soli.
L’io, l’avvocato, lei lo chiama “quell’avanzo di quartiere dell’Emilio” – dopo di cui, alla pagina successiva, ho sottolineato due grovigli di galassie fitte di similitudini. Anzi tre, perché il terzo continua nella pagina che segue. Alla fine di pagina 201, colgo una mezza metafora, tre quarti, anzi. A pagina 206, ce n’è una che ne vale almeno quattro quinti. In essa leggo il cognome del marito: Giordano, che è anche il nome di un fiume dove ci si usava battezzare per cambiare vita.
Colgo almeno sei similitudini fra le pagine 206 e 207. E poi altre cinque, ma alcune sono più delle metafore, nelle due pagine seguenti. Dopo di cui scelgo di andarmi a coricare.
“… mi stavo allontanando dai ruoli che avevo interpretato e dagli stereotipi che li avevano definiti. Mi stavo rassegnando a consegnare la divisa della moglie e quella della donna dei quartieri buoni.” – meri abiti di scena. La vita cos’è, se non una commedia pirandelliana? A pagina 211 mi viene da chiamare in causa l’avatar di Roberta, quella Mavie che mi fissa con uno sguardo che non so se debba definire sereno o allarmato, forse un misto d’entrambe le espressioni, dalla fascetta della quarta di copertina. “Ma come come come come ti vengono in mente tutte queste similitudini, infilate l’una dentro l’altra, un po’ come le storie narrate da Proust, che ogni tanto lasciano il passo a un’altra da esse stesse suggerite, come in un caleidoscopio assurdamente rutilante!” Sei come una fucina sempre accesa, come il forno di una pizzeria d’asporto, che sempre ingurgita pizze crude e fredde per poi consegnarle al cliente quando sono abbrustolite al punto giusto. Me lo sono sempre chiesto in che modo facciano a sapere quando è l’ora di estrarle. La tua, cara Mavie, è una poesia in prosa, altro che! Pare che per te sia più importante il dettaglio descritto in quel momento che l’intera storia, che in fondo va dove deve andare e che dà l’impressione che potrebbe proseguire per conto suo, senza autrice e correlato, entangled, lettore. È come una serie di fuochi artificiali, che chi li vede sa come lentamente comincino e come si concludano (con la tempesta pirotecnica finale), ma il bello è in ogni singolo scoppio, più ancora che nell’insieme dei botti. La storia è sì intrigante, ma quel che più mi appassiona è la sequela di serpentine mentali dell’io narrante (e dell’autrice). A volte, mentre ti leggo, stravaccato sul divano, devo posare il libro sul tavolino e correre al computer per fissare il materiale che mi vai continuamente suggerendo e che ormai sovrabbonda e, per colpa tua, ho persino spezzato la punta di una matita!
A pagina 212 riscontro ancora similitudini, nonché, finalmente, un’allegoria! A pagina 213 ce n’è una breve, seguita da una che dura varie righe, la più ossessiva incontrata finora. L’ennesima si affaccia a pagina 214, ed è seguita da un’amara considerazione: “La solitudine mi aveva restituita la misura dei miei anni, di cui prima avevo perso il conto, continuando ad accumularli, mese di luglio dopo mese di luglio” – il mese del genetliaco, che rende più dolorosa l’illusione più inquietante di tutte: il tempo che passa e forse non verrà mai ritrovato. Alla fine del suo serial, Marcel Proust mentì sapendo di mentire.
Grande allegoria in finale di pagina: “Finii di addormentarmi prima di vedere i quattro zeri allineati sullo schermo della radiosveglia, che ancora non avevo spostato dal comodino di Libero.” – che, conoscendolo, l’avrebbero lasciato lì, a far compagnia ai tuoi incubi, Berta. Tu ami ricordare le tragedie collettive, così scansi per un attimo la tua, perciò citi quell’11 settembre, che aveva come cassato con uno sgorbio la storia precedente, poiché la nuova, non meno infame, stava sopraggiungendo a bordo di quegli aerei. In quella ricorrenza, penso di più alla data dell’assassinio di un eroe che voleva cambiare il suo paese, che un mio conoscente definì un idiota, nel senso di illuso. Anche Cristo lo era, allora, anche il principe Myskin, anche Salvo D’Acquisto, anche Padre Kolbe. Ognuno venera l’11 settembre che si merita.
La descrizione di una vicina, a pagina 217, è a metà strada tra la similitudine, la metafora e l’allegoria. Non la riporto per non parere ignorante, per evitare, un ma come! è visibilmente una…! Berta, ma sei sicura di stare bene quando aggredisci telefonicamente quell’ignavo di Libero e lo chiami “Giuda senza capelli”, quasi fosse ridotto a un Sansone a cui Dalilah aveva raso di notte i capelli a scodella?
A pagina 221, dopo la consueta similitudine, m’insegni una cosa che non mi appartiene: “… mi chiamò mia madre. Lo fece di controra, in quella nicchia di tempo tra i piatti ancora da lavare e l’inerzia che ti costringe a rimandare ogni impegno, trattenendoti davanti ai resti del pranzo.” – che mi coglie di sorpresa, avendo io sempre convissuto con chi possedeva una lavastoviglie e avendo la maritesca abitudine di abbandonare il desco subito dopo aver desinato. Il mondo (quello scritto, almeno) mi aspettava Altrove. Ora che non mi reco più a 27 chilometri da quella libreria di Salerno, dove hai recentemente presentato il libro, poco è cambiato nella mia vita. Altri si occupano di quei problemi casalinghi. Che dire? Panta rei! Ma sempre scorre là.
Una certa “doppiezza l’avevo imparata da Libero e dalla sua famiglia, che preferiva una menzogna gentile alla semplicità maleducata della gente del Quartiere” – manco fosse il Bronx. Così a volte hanno chiamato la mia Santa Croce fuori le mura, come se quattro muri (tra l’altro distrutti da un branco di ignavi burocrati nel secolo scorso), potessero sancire una differenza fra gli umani. A casa mia vigeva un detto: a sûn brót, ma s-cét! – sono brutto ma schietto! E tale è il mio quartiere. Ah aha ah! Mi fa sghignazzare la similitudine con cui (quasi) congedi il lettore dal capitolo 42: “… fui tagliente come la pagina di un libro che si crede inoffensiva…”.
La diagnosi del tuo carattere, cara, sortisce da questa frase: “Avevo pianto a lungo, prima di collera e delusione, poi di imbarazzo e infine di tristezza.”. Occorre poi un’atroce e banalissima verità, del resto deducibile da quanto ho letto finora: “Pensai che pure mio marito e io eravamo rimasti due monadi, rette parallele fino alla fine del matrimonio…” – discorso molto dritto, lineare, prive di sbavature, ma che finirà per sbandare. Il rapporto col giovane Lorenzo è di tipo quasi… consanguineo. Voi due vi appartenete, in un qualche oscuro modo. Fra i vostri corpi “non c’era coinvolgimento: non un bacio, non un abbraccio, non un accenno di tensione erotico” – quando lui non c’era, ti mancava; quando c’era, ma è una mia sensazione, era di troppo. Avete mai letto, tu e la tua Mavie, L’amore e l’Occidente di Denis De Rougemont, e delle cabale che l’autore aveva intravisto nel rapporto fra Orfeo ed Euridice e fra Tristano e Isotta? Per Denis la passione dell’amore cresce con la sua assenza e che ciò sia vero lo avverte sulla propria pelle chiunque sia innamorato. C’è chi maliziosamente afferma che, se Romeo e Giulietta si fossero sposati, avrebbero finito per tollerarsi, poiché erano d’animo nobile, sopportando con eroismo idealistico la loro reale Natura, che era differente da quella esibita durante il loro innamorarsi. Quindi, come diciamo noi giovinetti: Ah Berta, sta’ tra’! Sii tranquilla!
“Lorenzo smuoveva i miei sentimenti solo nel tempo in cui non lo vedevo, e non era di lui che iniziavo a innamorarmi, ma delle ore che passavo ad aspettare di incontrarlo, quando la solitudine alimentava l’immaginazione, esandendo le mie aspettative.” – ognuno sta solo sul cuor della terra, ma non sempre questo lo tedia. I rompiballe sono però sempre dietro l’angolo. Nell’attesa, puoi elaborare metafore, similitudini, qualche allegoria (e di questa cianfrusaglia sono zeppe le pagine 229, 234, 235 e 236).
“In quei giorni, consapevole della mia decadenza, la ingigantivo e per questo limitavo il mio riflesso nelle vetrine e nel suo sguardo.” – che è a volte il più impietoso degli specchi.
Poi, tra una similitudine e un’allegoria, accade un fin troppo lesto miracolo: il dado è tratto, qualcuno ha oltrepassato il Rubicone, umidificando la parte più fraintesa di sé. Il gesto verrà poi riprodotto a ogni incontro, come se fosse una copia di un documento da inoltrare, scannerizzato, alla compagna. Ti sentivi “osservata, scrutata come una scolara che ha preso i pidocchi e la sera si fa controllare dalla madre…” – etc etc, perché la similitudine non si ferma mica qui.
E intanto le sue corpose fotocopie continuano a essere inoltrate: sono le prove di un atto dovuto e subito consumato. Ma la mia metafora è ben misera cosa rispetto alla similitudine che tu mi indichi a pagina 243. Inquietante immaginazione, con cui termina abitualmente l’atto: “inquadravo il soffitto da un’angolazione nuova, perché ci distendevamo sul letto di traverso, tagliandolo a metà, e quindi la mia visione della stanza cambiava.” – mutando non solo la prospettiva ma anche le condizioni dello spazio, della luce e, immagino, del tempo: in accordo con le leggi indicate da Einstein! Alla fine di 50, congedi per sempre, ma solo mentalmente, il povero Lorenzo. Poi dirai: “La notte non dormivo. Mi sdraiavo accanto a…” – a colui che ogni volta ti preme allontanare, perché ti invoglia la sua assenza, per cui spesso prevedi l’imminente fine del vostro rapporto.Similitudini e metafore a gogò a pagina 257, 259, 264, 266, 267, e poi, in coda a 53, una dichiarazione di guerra alla mammina: “Lei non aveva il diritto di intromettersi nella mia vita, io avevo il preciso dovere di dominare la sua.” – per cui decidi di invaderla, di occupare il suo spazio-tempo.
È una guerra che dura capitoli interi, zeppi di metafore e di similitudini, con qualche sparuta allegoria. A tua madre non resta che scappare, dileguarsi, farsi catturare dagli alleati, ricoverare in una struttura, far contattare la nemica, non reagire di fronte a lei, sparire per l’eternità, ma solo dopo aver causato la produzione di una frotta di similitudini e di metafore, finché, a pagina 292, cessa, finalmente, questa tremenda Seconda parte. Una cosa non avevo ancora riportato: tu frigni spesso, senza badare a chi c’è e che può scorgerti: “… e mi misi a piangere accanto a quello sconosciuto che mi dava lezioni di premura filiale.” E poi levi un ironico ringraziamento alla madre: “… per una volta hai fatto la cosa giusta…” – e fremo pensando al dolore che provai quando quel tragico destino occorse alla mia. Poi te la cavi con le solite similitudini (una doppia accoppiata alle pagine 305 e 309), e varie mezze metafore a pagina 311 e 313, e una similitudine (che non mi piace forse perché non la capisco) a pagina 314. Anche per oggi ne ho abbastanza di te, per cui vado a coricarmi (da solo). Nel frattempo, scrivi: “… e precipitai al suolo” – detto e fatto (non si tratta di una metafora, ma di una caduta reale, di quelle che distorcono le articolazioni), dopo di cui inizia un via e vai (con le relative difficoltà di deambulazione e di spostamento) fra medici specialisti, ospedali, sale di attesa, stampelle etc.
Colgo ora una similutudine nonché una metafora, a pagina 325; e una leggera entropia a pagina 327: “… e Lorenzo era svanito. Anche quelli del kebab avevano smesso di salutarmi con entusiasmo, limitandosi a un ‘ ‘Gnora’. Decapitando la frase, come se incontrarmi fosse un inconveniente da risolvere in fretta.” – come se la divinità fosse stata sostituita per raggiunti limiti età da un nuovo nume più rigoglioso e vitale. Anche l’assenza di Libero (tu la chiami “tregua”) aveva i suoi lati non troppo negativi, per cui: “Quel generale torpore dei sentimenti mi calzava a pennello: era della taglia giusta, come una guaina contenitiva. non avrei più ceduto alle lusinghe di un uomo né alle fantasie della mia solitudine.” – mi viene quasi da dire che ognuno ha le slogature che si merita.
“Nel buio mi sforzai di concentrarmi sulle quattro cifre rosse della radiosveglia, che apparivano dilatate e sfocate…” – finché c’è pila c’è speranza – “… Erano un sbuffo di colore su uno schermo digitale e non riuscivo a distinguerle, ma il loro alone bastava a segnalarmi un apporssimativo scorrere del tempo.” – che è quell’illusione che, ove manca, arde da dio, come quando si entra in contatto con qualcosa di estremamente gelido.
“La morte di mia madre aveva reso reale quella di mio padre, che l’aveva preceduta…” – a qualcosa anche quella strana donna era servita. Si tratta di uno dei tanti rapporti fra te e l’Altro che rimarranno per sempre sospesi nel giudizio tuo e di chi ti legge. Ecco: sospeso è il termine corretto per giudicare il tuo modo di narrare. Nulla si deposita per sempre, ma fluttua in continuazione: “La scomparsa di mia madre si stava dimostrando più dolorosa del previsto.” – come un’invasione di territori altrui che pareva quasi una scampagnata, e invece…
“… l’inconcludenza della mia vita mi sembrò una forma di purezza.” – non so se il tuo giudizio durerà nel tempo futuro, dove tutto scorrerà più rapido che nel passato. Chi vivrà annoterà.
Annoto una penosa e pensosa similitudine che oscura pagina 314. Tra le pagine 336 e 337 “una Maggiore” – cioè tu – ordina “del giapponese a domicilio”, badando a scegliere con cura “il menù più costoso”.
La tua ortopedica ti spara una metafora: “Vediamo che faccia ha questo ginocchio” – ma si vede che sta scherzando. Lei ti “sembrava una bella donna, una di cui t’innamori e poi lasci la moglie.” – ma ne siamo certi? Non dico che non possa essere attraente, ma che uno lo sia al punto che necessariamente qualcuno lascerebbe la moglie… Cos’è, un campionato? Un concorso di bellezza, ricchezza, simpatia? O è il caso a condurci a matrimoniarci con qualcuno, o con un’idea? Ormai il rapporto con Lorenzo è “fatto di coordinate e di scelte binarie – sì o no…” – e anche qui si può dire che ognuno ha l’algoritmo che si merita. Tanto per cambiare, un paio di metafore e di similitudini fra pagina 344 e 345. A pagina 346, ti abbandono perché ho un appuntamento, ciao. Ci si sente domani. A pagina 350 una metafora ti destabilizza.
Tu sei Pietro e su questa pietra… fonderò la mia (speranza di) rinascita… Ti piace l’allegoria?
“Mi sporsi a guardargli i capelli, fitti come piume di gabbiano…” – non le ho mai notate, perché ad avvicinarsi quei pennuti fuggono ogni volta. A te questo non capita? Un miracolo: “… il desiderio di fuggire si era dileguato come uno sternuto che ti pizzica il naso e poi non arriva.” – come una multa, che tutti noi aspettiamo di ricevere, che sarà notificata, si spera, quando sono ormai decorsi i termini. Ci provo a imitarti, cara, ma non è mica facile! Pietro è divorziato, senza averne l’aria, come Guccini diceva di quella bionda barista. Tue più luminose similitudini e metafore a pagina 353, 354, 356, 357, 359 e 361. Strano rapporto simbiotico fra voi due, come due bestie di specie diverse, la cui prole sarà sterile, ma ostinatamente vivace: “Quando sentii il portone chiudersi, al pianterreno, mi pentii di non avergli chiesto di fermarsi ancora un po’, ma gli fui grata per avermi lasciata sola.” Una metafora allegorica, o un’allegoria metaforica a pagina 362, dopo di cui ti chiedi, pensando a lui, “che ci facevo con un vecchio?” Ci voglio pensare per il resto della mia vita su questa tua affermazione: “una mezza menzogna è la forma più attendibile della verità.”
Pietro è un uomo utile, che ti aiuta a sopportare il disagio connesso al ginocchio fracassato e all’ormai dolente ricordo della madre. Riporto un concetto che è del tuo quartiere e mi chiedo quanto sia corretto. L’infarto “disperazione, si chiama disperazione!”. Pietro, come tua mamma, l’ha conosciuta di persona. Ma non è disperato.
“Pietro aveva sessantadue anni…” – dio mio, quant’è vecchio! Però funziona ancora, dai…
“… parlava molto Pietro. Era tutto un narrare, ricostruire, certamente inventare…” – una fiction. Tu no, eh? Rivedi Libero, che ti dà una notizia che ti cambia la vita, e sembra che tu ora ti stia scordando di Pietro. Sembra.
In copertina ti vedo sospesa a metà fuori dalla finestra, pronta a cadere. Sembri così, ma non sei. L’altra metà, quella celata allo sguardo, è dentro, fissata al pavimento e vedrai che reggerà. Ne sono certo. Solita influorescenza di similitudini a pagina 385, 386, 388, 389, 390, 391, 392 e 396, farcite da un paio di metafore. E poi tutto si spegne, entropicamente, ma qualcosa rimarrà, tra! Lo ripeto: Tra = tranquilla, nel gergo di noi giovani amorosi. Dove rimarrà? … quando partisti, come sono rimasta. Come l’aratro in mezzo alla maggese. E mi fai venire in mente quel mesto Lavandare di Pascoli, ma tu, rispetto a quell’aratro, hai ancora un Pietro su cui fondare il tuo immediato futuro.
Tu sei Pietro e su questa pietra… – gran bell’allegoria! O è una metafora?
Qualcosa accomuna la tua scrittura, Mavie Da Ponte, a quella di Valerio Varesi, di cui ho da poco terminato di leggere L’affittacamere: innanzitutto la figuratività delle vostre descrizioni (non solo similitudini, ma veri e propri affreschi, nonché ritratti dei personaggi, anche di secondaria importanza), e il veder cambiare il mondo che ci circonda, con questa gente che viene dal Sud o dall’Est del mondo e che occupa gli spazi in cui noi ricordiamo che una volta, alcuni decenni fa…
I vostri due libri sono un’infinita serie di immagini di un mondo che non cesserà mai di balzeccare nella vostra anima.
Mi permetto infine di suggerire a entrambi la lettura di The end of time del fisico britannico Julian Barbour. Ricorderò sempre la sua allegoria del tempo, ridotto a un insieme di cartoline stese e appese a un ciappetto, tante configurazioni di stati fisici che formavano una specie di unità. Julian era uno studioso valente, ma non accademico, e quindi si poteva permettere questo ed altro. Il suo libro mi appassionò tantissimo. Il tempo è un mistero che non ha davvero tempo!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Mavie Da Ponte, Fine di un matrimonio, Marsilio, 2023
Un pensiero su ““Fine di un matrimonio” di Mavie Da Ponte: l’amore è conflitto?”