“Con altre parole” di Lucia Rodler: la divulgazione umanistica

Nella Premessa del libro Con altre parole” di Lucia Rodler scritta da Gian Mario Anselmi leggo che “l’arte della narrazione poi, lo storytelling, come si usa dire, fortemente in debito con la letteratura di ogni tempo, domina la cultura contemporanea”, in “un’infinito narrare’ che è quasi la cifra principe del mondo attuale” – e Kurt Godel apprezzerebbe quell’indeciso e indecidibile quasi. Non solo nell’arte, ma nel cosmo intero, nessuna operazione umana è accertabile e conclamabile.

Con altre parole di Lucia Rodler
Con altre parole di Lucia Rodler

Chissà perché è così? Si cercano a volte delle risposte che hanno delle radici troppo lontane, che assurgono al rango di mito. Non sappiamo più rinvenire in noi il significato della nostra stessa vita. Si confida nell’Altro più che in noi. Queste ultime affermazioni erano in origine delle domande che ponevo, poi ho deciso di scegliere kierkegaardianamente: Enten-eller? Oggi scelgo il primo dei due.

“Lucia Rodler ci mostra un percorso affascinante del desiderio di tanti pensatori e scrittori di offrire le conoscenze a pubblici più ampi degli addetti ai lavori…” – e questo può essere inteso come un atto di ri-conoscenza, un voler trasmettere al prossimo quel che si è ricevuto dal precedente; non do ut des, sed do quod accepi. A prescindere, diceva Totò.

Anselmi definisce sé e i colleghi “docenti di Letteratura” come i futuri “portatori di un viatico, di un varco che illumini la critica come educazione al discernimento e alla libertà” – e la cosa mi pare affascinante, anche immaginando che si sia tutti dei reggitori di una pur minuscola fiaccola, ognuno alla sua velocità, poiché di tempo, che è un’illusione, ce n’è finché si vuole, finché si osa sognare. Ogni scrittore, ogni lettore è un diverso tedoforo. Jorge Luis Borges, tu cosa ne pensi?

Nell’Introduzione dell’autrice leggo:Ho cercato di riflettere sul linguaggio culturale e in particolare sul modo in cui esso diventa pubblico, descrivendo alcune forme di divulgazione della letteratura…” – e qui colgo provocatoriamente una micidiale differenza: una elle minuscola, mentre in Gian Mario era maiuscola. Non so cosa questo significhi, perché anche per me è Letteratura. Che vi si celi un bisogno disperato di sacro che, nel senso indicato da Mircea Eliade, possa convivere con noi? En passant (ma mica tanto), come si legge nella quarta di copertina, l’autrice “insegna Letteratura, pregiudizi e stereotipi e Comunicazione scientifica all’Università di Trento”, e chi si considera ed è una scienziata deve stare il più possibile sveglia, per non confondere le provette e gli alambicchi. Jiddu (Krishnamurti) mi ha insegnato a dimenticare il conosciuto per non essere soffocato dai pregiudizi. Purtroppo spesso marinai la sua scuola, andando in bici a Modena, a giocare a biliardo, a girovagare con gli amici per le vie del centro, o recandomi alla Rinascita, che era una libreria reggiana che si definiva un luogo d’incontro, e io presi alla lettera quel messaggio, che mi spinse infine a leggere fin troppi libri.

Tutto dev’essere minuscolo, frazionabile, se lo scopo è di meglio esaminare e accertare. Lucia ha cuore “la divulgazione della letteratura, della critica letteraria e delle Humanities” – per cui conviene sospendere eventuali giudizi, che appena paiono definitivi e infalsificabili, rivelano la loro natura religiosa e la conseguente fragilità.

Per Marco Santagata “la frattura linguistica, intervenuta con una rapidità che nessuno aveva previsto, ha reso ‘antica’ la nostra letteratura, fin dentro al ‘900.” Il fatto ci dovrebbe indurre a “tradurre”, “per rendere attuale e fruibile un patrimonio che, lasciato a se stesso rischia di scivolare, neppure tanto lentamente nell’antiquariato” – oppure in quello che si chiama, con quasi un ossimoro, modernariato: quel che non si adopera più da alcuni decenni e che si può ritrovare sulle bancarelle dei mercatini del disuso, nonché nei nostri solai.

Interessante è l’accenno all’“italiano ‘pidocchiale’”, cioè “una scrittura praticata non solo da semicolti, ma pure da letterati che frequentano lo stile semplice.” – e sto pensando a Pasolini, a Gadda, e ad altri. Semplice, non facile, e che occorre talvolta una traduzione, come certi discorsi in dialetto, che, per noi boomers degli anni ‘50, possono essere inintelligibili, come per un non romano alcune opere dei due autori citati. Ognuno ha l’inintelligibilità che si merita. Scusa cara (poi tornerò subito al lei), mi viene ogni tanto di dare del tu all’autrice/autore che sto leggendo, che non è che un pacchiano tentativo di aggregarmi a lei/lui nella sua opera, magari con le mansioni di gregario porta borraccia… Cara Lucia, gli esempi che fai, di dotte traduzioni di opere antiche da parte di autori moderni (e quella che più mi attizza è “il poema di Boiardo ridotto nei circa quaranta racconti di Gianni Celati”, da confrontare con un’opera analoga di Calvino basato sul capolavoro dell’Ariosto, che ho letto; ed aspetto con ansia un eventuale conato di Ermanno Cavazzoni)… scusa cara, che intendevo dire?… ah…! Scrivere e ri-scrivere sono la medesima azione svolta nel medesimo ambito, sia pure da due terrazze diverse, con la conseguente espressione e la successiva comunicazione. Il che mi ricorda la foto di quelle due signore dei quartieri spagnoli di Napoli, che si porgano l’un l’altra il caffè dai rispettivi balconi. Che belli i loro sorrisi!

Durante il primo atto, l’autore anela alla nuda solitudine, condicio sine qua non si può creare, da quel quasi nulla, alcunché: ed è quel quasi che intriga, e poco altro. L’autore cessa di essere figlio, fratello, genitore e amico di nessuno, se non della propria memoria. Poi c’è la comunicazione, senza la quale tutto ridiventa vano, silente, deceduto, piombante nel khaos. Quando lessi che Oreste Del Buono si augurava una traduzione in italiano moderno del Decameron di Boccaccio, rimasi sbigottito. Eppure, cos’ho divorato, a suo tempo, se non la traduzione de I racconti di Canterbury? E si sappia che non ho mai letto القرآن, al-Qurʾān, bensì la sua italica versione.

Tu parli di “libri invendibili e illeggibili, anche a causa di ingombranti apparati di note e bibliografie.” – beh, sappi che il tuo lo sto ingurgitando, a mo’ di varano di Komodo… E questo è solo un primo avvertimento! Io odio, peggio disprezzo: le note poste non solo a fine del capitolo, ma addirittura del libro! Causano troppo fatica, dai, al lettore, costringendolo a una partita di ping pong tra le pagine correnti e quelle finali, oppure a fregarsene, magari scorrendole tutte d’un fiato come se fossero dosi di chinino. Per le Bibliografie sono incline a chiudere il mio occhio misericordioso.

“Questo libro potrebbe essere uno stimolo ad avviare una riflessione…” su un fatto: “che la comunicazione è anzitutto ricerca dell’altro…” – okay, eccomi qui!

Ti riporto ora una frase di Ilaria Tuti scritta al termine del suo recente (e mirabile) Come vento cucito alla terra:In fondo, scrittura e lettura, sono un passo a due.”

Il primo capitolo parla della “divulgazione”, che è, etimologicamente, un “parlare tra il volgo, rendere pubblico” una storia, un pensiero, un dato di fatto, anche scientifico. Leggendo la definizione tratta dalla “fonte Treccani”, mi verrebbe da dire che quella che io cerco è più una inclitazione, in quanto l’Altro è ogni volta prezioso in quanto non sono io, e da lui posso attingere risorse che non ho. Socrate diceva di sapere di non sapere, io ammetto di non sapere nemmeno se so, ed è leggendo lo sconosciuto che posso rimediare qualche abbozzo di risposta.

“Il termine diffusione pare più appropriato alla società liquida attuale perché orizzontale ed estensibile.” – basta solo lasciare che scorra, e anche scegliere il più breve degli affluenti, purché poi confluisca sul fiume principale, che infine si getterà a mare. “… la diffusione ha scarsa originalità e scarsa scientificità; usa un linguaggio particolare; promuove la curiosità e la partecipazione civile…”treccaniamente corretto, nonché banale, nel senso indicato nel mio Patriarca preferito (Salvatore, sempre sia lodato autore di Elogio della banalità). Come avrei potuto leggere una trentina di opere di quella che una volta era detta fisica superiore, per lo più relativistica e quantistica, se non avessi ricevuto l’aiuto di maestri come Leon Lederman, Stephen Hawking, Julian Barbour, Carlo Rovelli, Lee Smolin, ma ne potrei citare un’altra ventina. La sapienza che ne trassi non mi permetterebbe di lavorare al Cern di Ginevra, però mi ha aperto la mente, insegnandomi ad adoperare dei concetti esoterici a mo’ di concia nelle mie reazioni.

Leggo, a pagina 23, che gli stessi Εὐαγγέλιον, i vangeli, hanno rappresentato “un caso originalissimo di diffusione e di ‘scrittura performativa’.” – e cerco di capire cosa intendesse con questa espressione il “comparatista George Steiner”: qualcosa che è collegata all’agire, piuttosto che all’esame della realtà. Un giorno mi dirai, spero, quanto ho capito di quel termine. Ogni libro per me è performativo, in quanto, grazie a esso, varia la mia performance umanistica.

“Oggi si parlerebbe di narrazione, intendendo una modalità conoscitiva primaria” – mi viene da pensare ad Alice nel mondo dei quanti di Robert Gilmore.

“… la cultura o la civiltà…”, secondo Donald Sassoon, “… è quell’insieme complesso che include la conoscenza…” – con tutte le sue diramazioni e specifiche: un campo da arare, per gettarci dei semi e poi attendere che si sviluppi la pianta, eliminando giornalmente le gramigne che crescono da sé.

Lucia Rodler - Photo by AracneTV
Lucia Rodler – Photo by AracneTV

Quando parli della “trasformazione popolare del secondo Novecento, favorita dalla televisione, che impone anche la lingua italiana sui dialetti regionali…” – citi, a ragione l’opera divulgativa di Piero Angela, nonché del figlio Alberto: meritevoli come pochi altri, fra cui vorrei citare un altro Alberto, il Manzi di Non è mai troppo tardi. Tutte le sere, con la mia famiglia, assistevamo alla trasmissione: io e mia sorella bimbetti, mia mamma con la quinta elementare, mio padre quasi diplomato (serale) e lettore di Postuma di Lorenzo Stecchetti, dell’Idiota, de L’uomo che ride e di Martin Eden. Ed è grazie a papà che, pur tardivamente, dopo i vent’anni, sono diventato un lettore seriale. La trasmissione di Manzi è l’abbecedario della divulgazione italiana. Quark è una scuola superiore. Un vero ateneo è il Passepartout del mio amico/amore purtroppo mai conosciuto di persona: Philippe Daverio. Una trasmissione che svolse un ruolo importante era la rubrica Sapere, ideata nel 1966 da Giovan Battista Zorzoli, in cui erano affrontati tutti i tipi di argomenti. Il mio maestro elementare Enrico Paoli, profugo triestino, laureato, campione di scacchi, capitano di lungo corso, esperto violinista, ce la imponeva sacralmente a metà mattinata nell’aula in cui v’era una televisione, E poi ci chiedeva un commento scritto. Che Paoli, che pur ci bacchettava le mani, esigendo sacralmente un Grazie, sia sempre lodato! Per Piero Angela “divulgare infatti vuol dire, in pratica, tradurre dall’italiano in italiano, dicendo le stesse cose in modo chiaro.” – anche agitando un po’ le braccia come usa fare il suo bravo figliolo.

“Bonghi precisa così che il critico è mediatore fra ‘la mente degli scrittori’ e la ‘vita sociale’” – un medium quindi, un aiuto da casa.

Per Citati “… la critica è molto di più un’attività sociale di quanto non lo sia la letteratura.” – lo è, a mio parere, solo perché in essa è forse, non necessariamente, carente quel che abbonda nell’autore letterario, la cogenza espressiva.

Nel secondo capitolo parli della “biografia”, questa altrimenti conosciuta. All’inizio di ogni capitolo, poni come esergo un paio di lettere, non so quanto reali, quanto frutto della fiction (mai mi permetterei di dire false) di docenti/allievi/e: per esempio, quella che inizia con un “Ecco Prof.” – come io, per scherzare, ma non troppo, uso chiamare Prof (in maiuscolo!) il noto docente Luciano Floridi, stimato e riverito anche a Oxford e in America – beh, quella lettera mi pare molto narrativa, e lo intuisco, senza averne certezza, per quel sospettosissimo “eh” finale.

“… nel 2020 sono stati stampati 21.246 testi letterari moderni, cioè romanzi, racconti, libri gialli e di avventura” – senza contare le avvertenze e le istruzioni d’uso dei prodotti farmaceutici e delle caldaie, suppongo. Mi stupisce quando leggo che “dominano romanzi e racconti (circa 19 mila) che rappresentano da soli il 22,5% dei titoli e il 26% delle copie stampate” – e questo la dice lunga su come la gente cerchi “la letteratura”. Mi domando, anzi ti domando se in questa massa rientrino anche le opere autofinanziate dall’autore o pubbblicate da quel noto venditutto yankee che fra poco ci proporrà anche gli odori da infilare nel brodo. Aggiungerei che la narrativa è la forma più facile da scrivere e il cui autore può ormai essere chiunque disponga di pur minime risorse finanziarie. Anche Foscolo autoprodusse alcune sue opere (e una mia conoscente mi disse che egli poi si scordò di saldare il debito con un editore reggiano, suo antenato).

“Rodari fa un uso democratico della parola”, rivolgendosi non tanto ai lettori seriali, quanto a “insegnanti e genitori, bambine e bambini con cui giocare con la parola e la fantasia.” – con i sogni di tutti, insomma.

“… nel Novecento l’autore scompare insieme con lo psicologismo…” – al suo posto, s’impone una presenza più volgare, ma tetragona: il “lettore, colui che attiva la macchina pigra e compie passeggiate inferenziali dentro le opere aperte davanti a lui…” – colui che è in itinere anche quando l’autore ha girato la coscia al destino: in arşân: à vultê galòun, per l’eternità.

“Così si giunge al nuovo millennio con l’idea che la lettura sia un’esperienza enattiva (dal latino enasci), cioè creativa, sia quando un testo viene letto e riscritto…” – nonché “… digitalizzato, cioè trasformato in numeri e reso così disponibile in rete…”o tempora o mores, o canales, o links.

“… si parla di prosumer per indicare colui che al tempo stesso produce e consuma la cultura della contemporaneità.”praticamente un uroboro.

“Allora l’autore rappresenta il nesso fra il testo e la realtà: può essere zavorra…” – oppure “punto di attracco, contatto con la terraferma, se inteso come responsabile di una narrazione situata.” – una specie di Presidente del Comitato d’Amministrazione, ma quel che conta è la maggioranza dei soci. Un testo è gestito da una specie di cooperativa, in cui la voce più autorevole è quella dell’editore, e dove l’autore assurge al rango di pedina. Quest’ultima considerazione appartiene a me, non a te.

“Così, precisa Todorov, la critica diviene ‘una lezione di vita’; parola di strutturalista flessibile e attento ai pericoli di ogni fanatismo ermeneutico.” – che tale pare, spesso, l’interpretazione altrui.

“… ogni biografia compie in fondo un piccolo miracolo: è una finzione che, però, narra la vita di un individuo realmente esistito che, di per sé, è opaco e inaccessibile nella sua interiorità…” – il suo io negletto e misterico, che “diventa invece trasparente quando la biografia trasforma la non fiction in fiction, offrendo tutte le informazioni necessarie a un’interpretazione coerente della persona…” – intesa come maschera teatrale?

“La metonimia e la sineddoche sono le figure più utili alla narrazione biografica…”: “una cosa dipende da un’altra”, di svariate importanze e grandezze, sempre pronte a simulare e dissimulare (ogni scrittore è un potenziale Catilina) “una vita che resta comunque impossibile a conoscere a fondo.” – come tutto quel che pare giacere o agitarsi nel cosmo.

Il terzo capitolo parla della “divulgazione per l’infanzia”, qualcosa di più abbordabile di quella trasmissione che Paoli ci portava a vedere. “Un tempo questo genere di narrazione riguardava prevalentemente la vita di santi e sante, oggi dominano scienziati e scienziate, sportivi e sportive, artisti e artiste, da ultimo, persino qualche scrittore.” Mia figlia mi somministrò, come una medicina, Ragazze con i numeri – Storie, passioni e sogni di 15 scienziate di Vichi De Marchi e Roberta Fulci: per cui o lo leggevo o mi diseredava. Obbedendo a quella tirannella, oggi posso affermare di esserle grato.

Leggo che talvolta si ricorre all’“autobiofiction”, che è “una finzione biografica in cui personaggio e narratore coincidono.” – e l’espediente m’affascina e m’emoziona. Per cui capita di assistere a un Dante che dice:mi collego a Internet, ascolto conferenze in streaming, uso Google e scarico quel che mi aggrada.” – finché c’è connessione c’è commedia. E poi quello confessa che non cambierebbe granché della sua Commedia, ma “forse aggiungerei all’Inferno qualche personaggio dei giorni vostri, ma potete farlo voi, se volete…” – eppur mi ricordo che qualcuno lo fece negli anni ‘70, inserendo personaggi come Marilyn Monroe e Jack Kennedy. Chissà chi era! Lessi la notizia mi pare su un numero di Oggi. Su zio Google non trovo nulla…

Riporto questo inaspettato regalo: “gli Azzurri indossano con orgoglio un blu intenso, l’azzurro Savoia, che i reali scelsero come omaggio all’iconico manto della Madonna.” – grazie, cara!

“… la narrazione usa spesso una struttura seriale” – e chi si chiede il perché non ha mai assaggiato la fatica di leggere i tre volumi della Vita di Samuel Johnson di James Boswell; secondo me il relativo serial sarebbe più scorrevole, nonché godibile (I guess).

Gian Mario Anselmi
Gian Mario Anselmi

Segnalo ora un mio problema, di cui Houston risulta già informata. Capitò anche a Dino Campana col suo capolavoro, dopo che aveva dato a qualcuno il suo manoscritto, che poi andò perso. Anzi, fu solo smarrito. E quando fu ritrovato, Dino aveva già riscritto (e migliorato) i suoi Canti. Acari o pachidermi, si è tutti immersi nella medesima selva oscura. Ieri, terminato il desinare da una mia consanguinea, salvai su chiavetta il file, per poi tornarci a lavorare nel mio domicilio. Cosa accadde non so, ma probabilmente lavorai ancora su chiavetta salvando poi il file che era sul desktop nella chiavetta stessa, per cui stamani mi trovai solo il file di due giorni fa.

Orrore? No, natura.

Ricomincio ora il mio travaglio, ma prima ricordo che, anche per chi scrive, vale il principio intuito da Hugh Everett III (dei primi due non ho mai trovato traccia): l’IMM, l’insieme dei mondi immaginari che seguono, ognuno, una diversa e ipotetica sbandatura della particella emessa. Ogni tragitto è un mondo, che diamine! Diabolus et Deus sono testimoni che non mi sto inventando. Prova ne è che ora ho ripreso in mano 4. Una forma. L’elenco.

Da buon ex funzionario parastatale ho sempre amato gli archivi, anche per uso personale: del tipo le l’elenco delle cose belle che ho visto insieme alle persona che amo, anche i particolari delle stesse: non solo Praiano, ma anche la Grotta dello Smeraldo e il Fiordo di Furore. Potrei sembrare, anzi, sicuramente sono un tipo ossessivo/compulsivo.

“I contributi non analizzano lo scrittore ‘con una lente di ingrandimento’ da entomologi…” – da ragazzino non ero solo tassonomico, ma anche tassodermico, poiché amavo inchiodare nel cartone le cetonie dorate e le vanessa elengans, ma non le cavolaie, che erano più svelte di me, più furbe che belle. Anni dopo mi convertii all’animalismo.

“… ma lo osservano ‘con un cannocchiale, da lomtano’…” – a essere riportato a parlare è il sempre lodevole Gianni Rodari, a cui rivolgo un caro saluto.

L’elenco “aiuta la diffusione culturale perché corrisponde a due esigenze contemporanee…” – sintetizzo: scorrere ovunque e velocemente, perché non manca la curiosità dell’infinito, ma il tempo per percorrerlo tutto. Anche se spazio e tempo sono forse illusori, come insegnano Barbour e Rovelli.

Discuto soltanto, ma di passaggio, un’opinione di Eva Cantarella, che “per i greci l’importante era vincere” – e non partecipare come insinuava Pierre de Coubertin. D’accordo, ma se non si partecipa non si vince, se si vince significa che si è partecipato. Il che vale anche per chi scrive.

Due esigenze per “lo scrittore Georges Perec”: una è “quella di censire Tutto’, di chiudere una questione in modo esaustivo, e quella di ‘dimenticare comunque qualcosa’, di lasciare aperta e incompiuta la ricerca di un ordine sensato del reale.” – io amo quel notevolmente preciso e manchevole scrittore francese, ma anche un altro scrittore che ancora non ho letto, colui che insegnava a svaccare, svicolando dove manco tu sai dove ti stai recando, quel Gianni Celati  di cui ho recentemente seguito on line in un incontro letterario curato dal mio amico Gino Ruozzi.

5 – Un divulgatore. Giampaolo Dossena – già nella pregressa e per sempre obliata reazione dissi, quasi in esergo, che questo studioso merita di essere definito sinaptico, per come la sua lezione, secondo l’accurata descrizione da Lucia (sono ripassato al lei), è volta al collegamento fra le fonti, fra i neuroni dei vari agenti: scrittore, critico, lettore, trasmettitore di dati etc. Egli era senz’altro un tipo “confidenziale”, “divulgativo” come pochi. Il capitolo a lui dedicato è da leggere con amore, perché con amore è stato scritto.

6 – Modelli e pratiche. Mappatura, collegamenti, link, dove il termine inglese significa anello, anello che tiene, almeno finché è servito alla comunicazione: un entanglement, una correlazione fra quelle infinite particelle. Chi scrive e lascia il tutto nel cassetto è destinato all’entropia cosmica. Forse tutti lo siamo! Aiuto etimologico essenziale per capire, a pagina 97: “comunicazione”, deriva da “cum” e da “munus” – regalo da condividere.

“Senza dubbio la scelta di leggere i testi in traduzione è limitante, ma…” – si fa quel che si può. Lessi Bhaghvadgītā, I ching, La storia di Genji e il libro di Muḥammad nelle versioni italiane. Si pensi a come mi sarei ridotto se, prima, avessi dovuto imparare per bene i loro idiomi. Divorai libri di poesia in inglese, americano, francese e spagnolo, e l’esperienza, pur gratificante, mi sfinì. Un principio vitale è di non fare mai tutto, per lasciare agli eredi almeno una grana.

Ebbi l’occasione di conoscere di persona Gian Mario Anselmi, persona davvero mitabile, che non mancò di dirmi che la mia conoscenza quasi esclusivamente libresca rappresentava un limite culturale. Concordo sulla diagnosi. So di avere di problemi: quando leggo (e scrivo) desidero la solitudine. Lo stesso capita a mio figlio Michelangelo, amante della settima arte, con i film. Per amor suo, due decenni fa vidi l’intera Saga di Harry Potter. Per amore di mia figlia Anna, quando lei non era ancora scolarizzata, mi sciroppai quella di Barbie (il mio preferito era Barbie Raperenzolo; mentre il più negletto era Il diario di Barbie) e, sempre con lei, rividi la Saga di quell’orfano maghetto. Il tempo che passi con chi ami è sempre un tempo ritrovato. Nel vedere uno schermo, anche quello di un cellulare, io ho bisogno di un insegnante di sostegno psicologico, altrimenti do tutto all’aria, rifugiandomi nella pagina scritta. Preferirei leggere l’opera omnia di Artusi, io che so appena preparare un caffelatte, piuttosto che assistere da solo alla proiezione de Il Giovane favoloso, nonostante io tanto adori quel Giacomino.

Concordo con quel che scrisse Umberto Eco, e lo adatto con altre parole mie: la cultura è sempre “inchiesta”, e il suo caso resterà sempre magicamente irrisolto.

In Conclusione provvisoria, riporto che “gli umani sono simili ai macachi, cioè possiedono i neuroni specchio…” – quindi anch’io, anche Gino Ruozzi, anche l’inclito Gian Mario Anselmi, il cui ultimo titolo pubblicato è, non a caso, White mirror. Grazie a quegli specchietti le scimmiette “comprendono le azioni di altre persone, imparano attraverso l’imitazione e si mettono in relazione con i comportamenti di altri individui e con le loro emozioni.” – con cui si fissano i ricordi, come informava una dispensa di mnemotecnica: occorre abbinare un dato a un dolore o a un fatto buffo, perché sia meglio fissato nella memoria.

“Ma, accanto alle potenzialità creative ed espressive della metafora, esiste la forza comunicativa della metonimia e della sineddoche…” – figure che finalmente sei riuscita a farmi entrare in zucca, e ci sono arrivato, eh! Ma adesso, cosa ho usato, un’allegoria o una metafora?

Postfazione di Giovanna A. Massari: che conferma, citando ancora Piero Angela, quest’ultima affermazione. Memorizzare è una necessaria sofferenza.

“Le forme di narrazione più adatte allo scopo appartengono indibbiamente alla cultura visuale e alle scienze della rappresentazione.” – tenendo presente dell’eventuale necessità del docente di sostegno.

Il dono maggiore che mi hai comunciato, cara Lucia? Mi hai mostrato in modo lucido e chiaro in che senso la mia ignoranza possa essere compatibile con la mia cultura; e come i due opposti alla fine convergeranno verso una salvifica armonia. Grazie.

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Lucia Rodler, Con altre parole, Marsilio, 2023

 

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