“Luce nell’oscurità” di Gloria E. Anzaldúa: identità, spiritualità e realtà
Una nemesis, tra il geografico, l’etnico e lo storico, perpetrata contro chi, il sottoscritto, da sempre ama infilare espressioni sanscrite (kam’a), arșâni (tót à fîn), latine (nigra sum sed formosa), inglesi (a thing of beauty is a joy for ever), francofone (la petite mort), etc etc, un guazzabuglio, meglio dire: un casôt ed espresiòun mozze e azzardate, che manco io poi capisco mai che intendessi dire e in quale idioma.
Ecco cos’è il presente libro Luce nell’oscurità della compianta Gloria E. Anzaldúa, un coacervo, alla cui cima svetta una singola singolarità: lei. Nella sua serena e accaldata nota introduttiva, Chi è Gloria?, Elisabetta Carreri riporta una frase di Gloria E.: “… ho allontanato tutte le sensazioni che venivano dai miei genitali…” – e qui mi viene da dire: chi è senza sessismo getti il primo membro! C’è poco da scherzare, viviamo in un mondo che è stato popolato grazie al sesso, ma che in quell’evento riesce a scorgere solo un’insana e affliggente fuliggine.
Paola Satti di Bernardi, nella Prefazione, dopo averci stupito con una serie inenarrabile (basta leggerle) di considerazioni, conclude augurando al lettor*: “Ci auguro un buen vjaje.”
Nel ‘ci’ ci stiamo tutt*. L’augurio dell’autrice è: “Dedico este libro a las memorias de mis abuelas…” – abuela semper certa est.
“… l’impulso ad appuntare qualcosa, il desiderio e l’urgenza di comunicare, di dare un significato, di trarre un senso dalle cose, di crearmi con questo atto che produce conoscenza.” – più volgarmente: di scrivere, che per me è un evacuare o un partorire una materica verità (quando ce la fa ad uscire, quasi sempre cioè).
“Chiamo tale impulso l’‘imperativo Coyolxauhqui’: una lotta per ricostruire se stesse e guarire i sustos frutto di ferite, traumi…” – etc etc, le angosce che producono gli spaventi, che più ti saltano addosso e meno le sai gestire. Per zi* Wiki Coyolxauhqui è la dea della Luna, e qui ho detto tutto e forse nulla.
Della moglie, un mio amico campano diceva che era chiar ‘e luna, fantasiosa, imprevedibile, non facilmente adattabile alle circostanze. Sua moglie disse alla mia che suo marito era un rompiballe.
Se sopravvivo alla Prefazione nulla mi potrà più spaventare. Ho in mente troppi concetti da citare, troppo cogenti, importanti. Ce la farò?
Quell’imperativo “… è l’atto di richiamare quei pezzi del sé (anima che sono stati dispersi e smarriti, l’atto di piangere le perdite che ci perseguitano. la bestia oscura e i erelativi desconocimientos…” – e questo non significa forse che è l’ignoranza a smuovere la nostra brama di sapere, di scoprire, di sentire tant* Uliss*? Esisterà un* mitic* Itac* in cui Penelop* gioca a carte e fumacchia al bar, in attesa che l’amat* Uliss* la finisca di gigioneggiare per il cosmo e si degni di tornare all’ovile?
“L’immensa angoscia mentale, emotiva e spirituale mi sprona a ‘scrivere apertamente’ i miei/nostri vissuti.” – anch’io non scrivo se qualcosa non mi co-stringe a farlo.
“Chiamo lo spazio dove combatto con ciò che creo ‘nepantla’” – che null’altro è se non il luogo dove tutto reagisce, “dove questi mondi disparati si coagulano nella mia scrittura.” – orbene, tutto questo è bello, ma tiriamo innanzi.
“Escribo para ‘idear’” – per “dare forma o concepuire un’idea, sviluppare una teoria, inventare o immaginare…” – ciò è banale, essenziale, semplice ed ordinato, almeno a sentire il professor Salvatore Patriarca (autore di un Elogio della banalità).
“Mi do alla luce ‘leggendomi’ e ‘dicendomi’” – dove af-fermo (sulla carta) cose che l’umana che è in me non ancora sapeva, perché ancora non-nata, ma forse già in-nata, eppure ora le pronuncia, le scrive e ve le sta facendo piano piano leggere.
“… abito diverse culture” e “altri mundos” che sto ora attraversando perché non ne posso fare a meno, seguendo l’ispirazione derivata dalla “identità chicana/mestiza”: sto forse ritrovando e riproducendo per iscritto la mia ineffabile bastardità, usando di volta in volta l’idioma, il tono e il timbro necessari e, si spera, sufficienti. Sto soltanto traducendo, a naso, il suo discorso, semmai l’ho inteso.
“Vengo guidata dallo spirito dell’immagine…” – dove mi sento riflessa, ieri, oggi, domani, per sempre e mai, chissà.“La mia naguala (daimōn o spirito guida) è una snsibilità innata che direziona la mia vita.” – la mia navigatrice, che, mi chiedo, si potrà un giorno gettare alle proprie spalle oppure dal finestrino dell’auto?
Essa “si serve degli eventi esteriori per dare un senso alla mia stessa microcreazione.” – per cui va ringraziata, con diffidenza: a me non piace che mi si dica dove devo proseguire la mia ricerca.
“Faccio queste scoperte mentre scrivo, non prima…” – io in genere mentre dormo, a volte anche prima. Per me scrivere è prendere atto di un colpo ricevuto prima, ora momentaneamente definitivo, che tenta di stabilizzare i valori di un nuovo mondo. Per te no?
“Scrivo fuori dal linguaggio teorico/filosofico ufficiale…” – a chi lo dici, Gloria, io sono il soldato più complessamente semplice che conosco.
“La mia è una lotta per riconoscere e legittimare i sé esclusi, soprattutto quelli delle donne, delle persone di colore, queer e di altri gruppi…” – tutti costoro mi dicono più di altri, ma non so quanto li capisca. Però amo ascoltarl*. Ogni tanto mi scappa l’asterisco, ma devo smetterla, per la mà! E per il pà! Sono sfinito mentre da lontano si scorge l’ombrosa ripa del Capitolo Primo.
“Per cogliere qual è la nostra complicità e responsabilità dobbiamo guardare all’ombra…” – di cui Roberto Escobar amò tessere gli elogi. Egli alludeva a pestilenze microbiche, batteriche e virali. Dopo di cui narri con passione delle pestilenziali azioni commesse da quel dux conducted da chissà chi, tanto che scrivi: “Sono consapevole che tutti noi custodiamo un predatore alla Bush nella nostra psiche.” – che rifocilliamo giornalmente.
“Quando la frammentazione avviene, ti sgretoli e ti senti come se fossi stata cacciata dal paradiso.” – essendo priva del permesso di soggiorno.
“L’imperativo Coyolxauhqui è un incessante processo in cui si fa e si disfa. non c’è mai alcuna risoluzione, solo il processo di guarigione.” – condizione apparente, meglio della morte però.
“Ciascuna di noi può fare la differenza.” – perciò leggo e scrivo di tutto.
“Impoterate, saremo spinte a organizzarci, a ottenere giustizia e a cominciare a guarire il mondo.” – nella nota si legittima questo neologismo: “empowered” nel testo originale. Preferirei potenziate, ma quel che conta è esprimersi e comprendersi. Mé e dègh e te t’intènd, diceva mamma quando errava la lezione di un termine.
“I nostri gesti hanno ripercussione su ogni persona e sul pianeta. Siamo responsabili di tutte le guerre…” – si è correlati col Tutto, anche con la schifezza. Si profila ora all’orizzonte il Capitolo secondo, che presto si rivela per quello che è: molto difficile da digerire; inoltre scatena il Popper diffidente che cova nei miei orifizi. Fin da ragazzetto io mi sono sentito un poeta e non posso evitare di apprezzare il titolo: Voli dell’immaginazione. Il sottotitolo è un gran bell’augurio: Rileggere/riscrivere la realtà. Ancor più bello era il titolo del primo: Cerchiamo di essere il balsamo della ferita: meglio di così si… vive!
“Subito un’immagine mi si fa incontro: es el árbol de Tamanzuchan…” – che altro non è che l’albero che “è il nesso tra i mondi. proprio come l’abero cosmico connette il mondo disotto, di mezzo e disopra, io connetterò le parti di qeusto saggio…” – il riunire i pezzi vaganti in questo cosmo è il sogno di ogni poeta, la cui pancia è l’epa del suo sé, sì, ma anche quella degli altri in quanto sua (personal and universal belly, mia espressione). Pare una contraddizione e lo è.
Lessi la settimana scorsa Le rose di Orwell di Rebecca Solnit, in cui l’autrice parla di una “foresta di 10 acri di pioppi tremuli dello Utah in cui circa quattromila alberi hanno in comune un unico apparato radicale…” – e questo è anche la scrittura, un catòmes tót, un ritroviamoci tutti, dove nel punto più alto ci metterei Borges, no, aspetta, Omero, no, Dante, no, se vuoi, metto te, il cui nome è un augurio imperituro: Gloria, tanto un punto vale l’altro, e il cosmo è bello perché è tondo.
Quell’albero, dici, “è tripartito” – essendovi un sotto, la radice in cui la natura sa custodire ogni cosa; un luogo di mezzo, il fusto, dove siamo alloggiato noi esseri; poi “il mondo di sopra, al di là del cielo”, fatto dei rami, che custodiscono le “energie incorporee”: “degli spiriti che sono dei e dee, degli spiriti dei morti che hanno oltrepassato la terra dei morti.” – e qui sorge la prima questione: ammesso che ci siano, e non sia una cosmic ball, perché una divinità deve necessariamente possedere un sesso? A che gli serve, non certo per riprodursi.
Nella mitologia appare chiaro (e qui cito Woody Allen) che gli dei comandano, mentre le dee decidono. Eppure lo sdoppiarsi dei sessi avvenne una manciata di milioni di anni fa: l’ameba si sdoppiava per i… fatti suoi. Chi disse (se lo disse): Fiat Lux non aveva bisogno di un organo genitale per creare il mondo, ma di un soffio vitale, ma questo solo dopo aver creato quel brodo cosmico. Il sesso, gliel’hanno attaccato degli umani maschi. Non si può obiettare che a ogni dio (non forse al duplice Dioniso) è spettato, nella nostra immaginazione, un sesso. Poi ci fu un tale che disse (nella mia fantasia): date al Sesso quel che è del Sesso, e a Dio quel che è di Dio. E a Cadelbosco quel che è di Cadelbosco, che dista cinque chilometri da Sesso (bukowskiana frazione di Rèș). E a 16 c’è un provvidenziale Bagno. En passant: una volta erano dette casêdi (anche: maronêdi), ora sono definite antifrasi. Sic transit gloria verbi! Invece, per fighêdi s’intendono le magie che su-scitano ammirazione.
Continuo nel riporto: “Questi tre mondi interconnessi, sovrapposti, sono lo stesso luogo.” – con lo stesso centro attrattivo? Sono concentrici oppure coincidono?
“Le sciamane viaggiano nelle tre dimensioni del cosmo per conoscere l’universo oltre la terra, esplorare universi paralleli e ricevere l’ispirazione divina.” – e tutto ciò è tanto bello quanto in-falsificabile.
Il mondo è una vipera, che tu chiami víbora, ma è la stessa cosa, cambia solo il codice fiscale.
“Il tempo collassa. Il mio corpo cambia marcia. Mi cuerpo diventa parte di, si fonde con, ‘scompare’ in ciò che mi circonda.” Quando “la mia lingua diventa la sua lingua” io, con lei/lui, osservo il mondo, lo assaggio, lo sputo (sono anche queste mie allegorie, me le hai fatte sorgere tu, però: quindi sono anche tue), e mai conobbi filosofo migliore della gallina che, mentre passeggio su via Adua, intravedo in quel casermone che pare, ma non è, del tutto abbandonato, dove una volta viveva Emilio, che ora dimora nella villetta che sta dietro. La pennutella rovista il terreno e si mette nel becco tante cose, alcune le ingoia, altre le rigetta, al di qua del bene e del male, sennò morirebbe di fame.
Tutto questo accade in “… uno spazio che al contempo esiste e non esiste…” – e dopo aver letto Ragione, verità e storia di Putnam, qualche dubbio su dove e come esisto ce l’ho, anche per via di quelle particelle virtuali che pare non ce l’abbiano fatta a esistere (o non hanno voluto?), grazie a cui le reali brillano per la loro frenetica presenza, anziché per la loro mistica assenza.
Nello spazio di mezzo del nepantla “avvengono trasformazioni o rinascite spirituali durante gli stati di coscienza visionari”, in una delle “stanze del sé” (“parole di santa Teresa d’Avila”). Il sé, concetto cosmico, fa parte di un Sé, di cui è una frammentaria e insostituibile (per un tempo limitato) porzione.
“La guarigione avviene nella disintegrazione, nella demolizione dell’ego quale unica autorità del sé” – come nelle isole ecologiche, dove tutti quei sé sono ammucchiati, che poi diventeranno, si spera, una nuova merce frammentata, dopo la necessaria Ri-Unificazione.
“Le curanderes” che tu citi da noi si chiamano medgòuni, medicone, e se vuoi saperne qualcosa e se puoi, rivolgiti pure ad Antonella Bartolucci, antropologa che vive dalle mie parti.
“Per ‘vedere’ è necessario ‘fermare il mondo’…” – che è tratta dall’espressione: Fermate il mondo, voglio scendere!
La sciamana “è una ‘viandante tra i mondi’, che entra intenzionalmente in dimensioni che altre persone incontrano solo nei sogni e nei miti…” – e a noi tocca scivolarci dentro, tentando poi, goffamente, di uscirne vivi. Possiamo però “sognare”, continuando, come fai tu, dopo il risveglio, a dipanare le storie, con tutti quei personaggi, sogni, eventualità.
“… espandere la percezione” e “raggiungere la coscienza” – era il motto di Allen Ginsberg, che incitava ad allargare l’area della coscienza, utilizzando però additivi chimici pericolosi, ricordi?
“L’artista si serve dell’immaginazione per imporre ordine al caos…” – per ri-creare un Kosmos, una nuova ragione, dove potremo esistere dopo che è cessata l’eco dell’ultima battaglia, persa o vinta che sia stata. L’arte è l’espressione che diventa comunicazione: “l’esperienza umana viene mitologizzata e collettivamente compresa.” – non sempre però. Sto sempre pensando all’orrido capolavoro del Divino Marchese, per fortuna incompiuto.
“La visione dominante del mondo occidentale afferma che una realtà ‘oggettiva’ esiste indipendentemente dal soggetto che conosce.” – e poi venne quel Bohr che osò affermare che la particella esiste in quanto tale solo nell’atto della sua attestazione. Rileggo il Capitolo XIV di Quantum di Manhit Kumar: secondo Bohr, “un atto di misurazione causa una perturbazione fisica”, e, poche pagine più in là, leggo ancora: “finché non viene compiuta una misurazione, né l’elettrone A né l’elettrone B hanno uno spin preesistente in nessuna direzione”. Non girano? Girano senza esistere? Cosa significa esistere? Me lo dici, ora che tutto sai, mestiza?
Il Capitolo terzo è Arte nella frontiera. Come le altre volte, data la densità e l’intensità della tua scrittura, mi chiedo se saprò rendere il senso di tutto quello che stai esprimendo. La risposta è: No, ma anche: faro quel che potrò.
“La negatión sistemática de la cultura mexicana-chicana en los Estados Unidos impede su desarollo, haciéndolo este un acto de colonización…” – una volta si diceva yankee go home, ma ora quegli sduchê, quegli incivili pensano di essere a casa loro dappertutto, anche da noi.
“L’essenza della colonizzazione: saccheggia una cultura, poi rigurgitane la versione bianca sulle persone ‘native’” – non è una novità. E chi è senza faccette nere getti il primo fez!
Mi dai una bella notizia: di aztechi “in Messico ne sopravvivono ancora diecimila…” – una delle tante verità sepolte dal conformismo dei coloni. Ho sempre sentito il fascino di quella civiltà e di quel migliaio e più di parole con la sillaba tla, come in Atlantide. Una volta inviai una missiva a Thor Heyerdahl, che fu così gentile da rispondermi, dicendo che anche lui ne era tanto attratto.
“Il museo, se è audace e si espone al rischio, può essere una sorta di ‘terra di confine’ dove le culture coesistono in uno stesso luogo…” – il luogo sacro alle Muse!
“Mi disintegro in centinaia di pezzi, centinaia di consapevolezze separate…” – che io chiamo horcrux, essendo un fan di Harry Potter: tante anime distinte ma convergenti fra loro.
Parli ora dell’“artista chicana tejana Santa Barraza…” – di certo sai che Texas deriva da techas o taychas o taysha, parole che tutte significano: alleati, e che il motto di quello stato è friendship. Ho visto su zio/a Google le opere di quella Santa donna e sono davvero splendide. Se un giorno la incontro le regalo Fantastiche creature della Pianura padana e dei dintorni di Luciano Pantaleoni, con le splendide immagini dipinte dal compianto di Giulio Taparelli. Anche noi emiliani non scherziamo in fatto di mostri primevi.
“Sebbene noi Chicane siamo consapevoli di non essere ‘indie’ e di non vivere in una cultura nativo-americana, e sebbene le nostre radici siano indigene, spesso ci appropriamo indebitamente e siamo colluse con le forme di apporpriazione indebita degli angli.” – ammiro la tua onestà e, credimi, essa basta per assolvere tal eventuali peccati. Io sono di etnia arșâna, figlio di arșâni, ma la mia lingua madre è quella dei colonizzatori italiani e mi sento a volte di usurpare tanto inclito e volgare (da vulgus) passato.
“Le metafore sono dèi. Stando alla psicologia archetipica, abbiamo interiorizzato le divinità, le forze della natura e gli animali antichi che le nostre antenate e i nostri antenati consideravano dèi.” – meta/phero è oltre tra/sferico.
“Il nepantla è la soglia della trasformazione. L’arte e la frontera s’intersecano in uno spazio liminale dove le persone di confine, soprattutto gli e le artiste, vivono in uno stato di nepantla.”: sospesi tra due limiti, in ponte, ad Amalfi, in spicaiòun, a Rèș. Per Nietzsche la vita è un ponte fra due nulla, lo stesso vale per quella che è ricreata in ogni attimo della sua esistenza nell’umano esistere.
“Il nepantla è il luogo dove siamo al contempo slegate (separate) e legate (connesse) a ciascuna delle nostre svariate culture.” – c’è chi lo è in modo alternato e chi applica il multitasking. E a questo strambo individuo spesso si chiede: Ehi, sei connesso? Sì, anche.
“Per noi mestizas che viviamo nelle terre di confine sentirci disorientate nello spazio è il ‘normale’ modo di essere.” – mi associo. E mi vorrei fare adottare da ogni altra razza plurima.
“Nel mestizaje sanguiniamo, nel mestizaje mangiamo e sudiamo e piangiamo.” – e tutto il resto, direbbe Totò, esibendo un ombrello… è ovvio. Al che mi viene da dire che non vorrei più essere mestizo, perché già lo sono. Il tuo, e il mio, “singolo marcatore identitario” è todos, tót, omnes, tous, alle. Alleluia!
Il Capitolo quarto ha per titolo: Geografie del sé: Reimmaginare l’identità.
“L’identità è relazionale…” – tutto il mondo, e il cosmo, allargando il concetto, è entangled.
“L’importante è negoziare alleanze tra forze confliggenti dell’io…” – purché non vi sia un allargato noi che si contrappone a un analogo loro. In ogni guerra si stringono patti, non per fini costruttivi, ma al fine di distruggere l’armata altrui. Mi chiedo se il tuo sogno di giungere a una vera unificazione sarà mai realizzato. Ti chiedi: “Come possiamo trasformare questo scambio di energie dall’aggressione a qualcos’altro?” E aggiungi le immagini-remolinos (vortici): “Come le onde dell’acqua colpita da un sasso, il conflitto si propaga da intimo a personale, extrapersonale, ambientale e cosmico.”
Ti ringrazio ora del verso di Leonard Cohen: “C’è una crepa, una crepa in tutto/ È così che entra la luce.” E ognuno ha le crepe che chissà quanto si merita: “Lamentare le tue ferite e le tue perdite fa parte dell’elaborazione dei cambiamenti.”
Una constatazione dolorosa: “Nel lavoro oscuro il problema è parte della cura – non guarisci la ferita; è la ferita a guarire te.” – seguendo la traiettoria: “ammettere la herida”, “devi ‘voler’ guarire”, “poi devi cadere a precipizio in quella ferita”, “prestare ascolto a ciò che il corpo sente”, “essere il suo smembramento e la sua digregazione” – e questo è il solito gioco einteniano: E = mc2. Tutto, scorrendo, si trasforma, in quanto panta rei.
Anche il Capitolo quinto, uno dei più importanti per me, e uno di quelli che meno commenterò, in quanto basta leggerlo e viverlo con te: Mettere insieme Coyolxauhqui’: quel (benefico?) conflitto interno che ti porta a tirar fuori, analizzare, stravolgere, patire, liberare, evacuare, partorire te. Per un mio amico che non ha granché il dono del Coyolxauhqui’, cioè, non è che non ce l’abbia ma non riesce (ancora) ad avvertirlo, scrivere è come fare una doccia, non ne hai voglia, ma senti di puzzare un po’, e allora ti alzi, rassegnato, e lasci scorrere l’acqua, dopo esserti debitamente svestito dei tuoi panni abituali, vai sotto e subito rabbrividisci, se è più fredda di quel che pensavi, oppure ti scosti, se è bollente, manovrando a quel punto la manopola per adeguare la temperatura alle tue cogenti esigenze, e poi fai, anzi emetti un aaaaahhhhh, che bello! Per me scrivere è tirare fuori della masa, che per te è l’impasto che cova all’interno, che è dentro a tutti, anche a me, facendola ri-nascere, a volte poveretta è solo settimina e non nasce del tutto a posto; pensa al mio cognato preferito, l’unico affine in verità. Andrea è nato seiino, e poi, per quasi un anno, è rimasto in clinica, e poi è andato a casa e poi l’ha nutrito la mamma, ma per farlo doveva indossare un camicione bianco, come quello delle infermiere, sennò mica si fidava, zio Andy. In arșân la mâsa è la massa di qualsiasi cosa ma per il contadino è il letamaio duro ma recente. La trusêra è il terricciato composto di concime, lasciato a padîr, a maturare, a un centinaio di metri da casa, per almeno quattro o cinque mesi, poi va bene per arricchire il terreno, e questo per me è lo scrivere, estrarre la caca, come la chiami tu, io ci metto una c in più, e lasciarla stare lì per un po’, e poi rileggerla, come fai tu, anche se io non conto mai le riletture, come fai tu. E se non esce nu strunzo, può nascere un bimbo, ogni tanto capita, e allora non bisogna scordare la lezione che ci impartì (a me e a mia moglie) la professoressa Angelina, quando vide il mio primogenito: da nu poco ‘e schifezza nasce a criatura! Et sic transit gloria podicis!
“Quando cozzi contro un blocco o vieni morsa dal virus della scrittura…” – virus da vis, dalla violenza della scrittura. – “ricorda di lasciare che ti fluisca dal corpo come l’acqua da uno sfiatatoio.” Chi scrive è violentato/a da chissà quale dáimon e a volte ingravidato/a, per poi partorire nu bellu zurieddu (da ζῷον, zôn, bebe hermoso, beautiful child, beau bébé, wunderschönes Schätzchen… che piange come un folle, chissà perché, in tutte le lingue, c’al sîga in tót al léngui!
“Quasi fosse un dente dolorante, succhi il problema di come poter incarnare la storia.” – e il Verbo prima o poi si fa incarnare, ma ce ne vuole! Lu sacciu! L ē propia acsé!
“Il tuo obiettivo è erigere un’ossatura temporanea. non miri a una struttura di idee logica e lineare ma, piuttosto, a un corpo archiettonico che lo sostenga e permetta l’acesso alle sue interiora.” – perché sei un architetto/a, ma c’è anche il geometra, che dice che se li infila nella manicuzza gli architetti, e l’ingegnere, che non lascia nulla al caso, l’unico che può attestare giuridicamente la solidità dell’edificio. Ognuno, scrivendo, ci mette quel che è e quel che ha, specie il primo dei due. E ti lamenti (e io ti capisco!): “Poi devi riprogettarla. Gemi – questo incessante processo di distruzione-ricostruzione è estenuante.” – e quando sei praticamente più di là che di qua, mi vien da dire: Esci!, vai! Conquista il mondo e non rompere più i cabasisi!
“Dopo un lungo travaglio non hai nulla in mano. Nel non averlo scritto all’altezza delle tue aspettative senti di aver tradito il testo. Una profonda despressione ti affossa.” – Ma sa i ò scrét?! But what did i wrote! Che diablos escribí? Sii però tranquilla: cosa fatta capo ha!
“Scrivere mette sempre in discussione la tua autostima: sei una codarda perché non ti sei avventurata abbastanza in te stessa…” – c’era ancora molta strada da fare, in effetti, ma è sempre là, il Cammino degli Dei, e prima o poi da quella sublime altezza ammirerai la Costiera Paradisiaca!
“Ogni volta che leggi una delle tue pubblicazioni pensi che necessitino di altre revisioni.” – l’alternativa è non leggerla più, lasciandola com’è ai tuoi posteriori, dietro al tuo deretano.
“Come la vita di una persona, tutta l’arte è un’opera in divenire.” – capitò al Cristo Pantocratore di Monreale, anche a quello della Capella palatina e, si dice, a quello di Cefalù.
È stato uno dei capitoli più densi che abbia mai letto in vita mia, per cui tutti i miei commenti andrebbero setacciati e gettati nel rósch, in ‘na monnezza, per lasciare il posto alla tua voce, così ricca di milagritos.
Ultima sofferenza, nel senso del schwarzeneggeriano no pain no gain: Capitolo sesto – Ora facci mutare… conocimiento… lavoro interiore, atti pubblici…
“Ciò che segue è il tuo tentativo di restituire alla natura, a los espiritus e alle altre persone un dono srappato agli eventi della tua vita, un ponte che sia una casa per l’io.” – la nostra vita è sempre quel ponte fra due ripe, dove fummo e saremo noi, insieme agli altri (passati e futuri). Nonché da soli. “Pezzi di te muoio e rinascono a ogni tappa”: E = mc2.
Le tue radici “ti trascinano verso la tribù” – cioè verso “un’identità assimilata, omogeneizzata, slavata di bianco”. E qui c’è il rischio di un errore, un errare, forse anche uno sbaglio, un lasciarsi abbagliare: non tutto quel che è candido, è sporco: nulla lo è. Perec, Baudelaire, Rimbaud, per citare tre galli, erano bianchi e cedroni. Chiesero un giorno al mio Carmelo Bene se lui odiasse i negri, e quello rispose: Io odio l’uomo!, intendendo: lo odio perché ogni sera io m’immolo sul palcoscenico per onorare lui. Per l’uomo di genio, che fa solo quel che può, a prescindere dal colore, esiste l’essenza, e l’unico colore che si cerca non è quello dei nonni, ma quello che non è ancora stato concepito.
“Ciascuna ti esorta a voltare le spalle alle altre interpretazioni, alle altre tribù.” – capita anche alle peggiori, nonché alle migliori famiglie.
“… il neplanta è lo spazio della trasformazione”: E = mc2.
“Quando corteggi el oscuro, scavandoci dentrol prima o poi ne paghi le conseguenze”: E = mc2.
“La depressione è utile – indica che hai bisogno di trasformare la tua vita”: E = mc2.
“Abbandonare il corpo consolida la dicotomia mente/corpo, materia/spirito”: E = mc2.
“Una volta esplosa la bomba, non puoi tornare indietro, se non lentissimamente”: m = E/c2.
“… sonoz todos un paiz” – todos agitatos in un cosmos popolatos di cosmitos, ognuno a rincorrere il suo milagrosito.
“… è nel cuore dell’incendio che si trova la sua soluzione…” – peccato che non ci sia un vero e proprio cuore eppure qualcosa sta effettivamente pulsando.
“… las meras meras…” – e se me ne trasmigrassi lontano e per sempre senza scoprire cosa s’intenda per tale espressione? Delle meras neras?
Ti dai del tu, per forza, dopo tanti anni che ti conosci: “Per te scrivere è un viaggio archetipico di ritorno a casa, all’io, un proceso de crear puentes (ponti) per la prossima fase, il prossimo luogo, la prossima cultura, la prossima realtà.” – che intanto ha già traslocato chissà dove.
Domani cercherò un altro tuo libro, che da anni giace inerte e metizo su quella candida bancarella!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Gloria E. Anzaldúa, Luce nell’oscurità, Meltemi, 2022