“Dylan Dog Color Fest: Utopia modulare” sceneggiatura di Dario Sicchio e disegni di Giorgio Pontrelli: il cervello si pone quesiti insolubili
Tex… e cosa c’entra, hic et nunc, Tex? Lui poco, le sue storie sì, cominciando da un punto iniziale per giungere a quello finale, dopo aver esercitato il loro potere gravitazionale intorno ai vari personaggi: ranger, indiani, meticci, comancheros, buoni, cattivi e così così. Nulla sfugge a tale interazione universale.
Dylan, nelle sue avventure esistenziali, insegue il Khaos e la sorella di questi, Entropia, i quali dimorano in stanze adiacenti del medesimo hotel cosmico. Da quest’ultima egli finisce sempre per salvarsi, sia pure provvisoriamente, dopo essere precipitato in mille e un baratro, continuamente sfuggito a dispersioni apparentemente illimitate ed evaso da assordanti prigionie psicologiche.
Sorte peggiore capita a taluni dei personaggi, ma non a tutti. Non a Groucho, per esempio, la cui ironia, che soltanto lui e io capiamo, nonché chiunque legga il fumetto, lo salva dall’orrido destino, offrendogli sempre un appiglio da cui scivolare, sparandone una più demenziale dell’altra, all’ultima pagina, battendo talvolta la testa, sia pure in modo non grave.
Non ricordo alcun episodio della serie di Dylan, in cui qualcosa non abbia sbattuto malamente contro qualcos’altro, creando dal nulla, all’improvviso, un nuovo e irrisolvibile enigma.
Ieri sono stato (quarta volta in un anno) in un iper-centro cosmico in cui è esposto in vendita tutto quel che è inerente l’abitare umano, biscotti compresi. Abitare è quel che si ha, da habere, e che muta soltanto quando si deteriora (per il solito, maledetto e mostruoso secondo principio della termodinamica), per essere riciclato in recipienti modulari, e che, si spera, tornerà fra noi a tempo debito. Anche chi è facoltoso mantiene per tutta la vita questo debito da pagare: il tempo.
Habere aut esse? Habere vel esse? No: habere atque esse.
Ogni volta ho l’impressione che gli addetti mi stessero ad aspettare e che, fingendo noncuranza, vigilino sul mio comportamento. I libri esposti, per evitare i miei taccheggi, sono in svedese. Da qualche tempo sono scomparse le matitine, di cui ero un discreto consumatore.
Torniamo al nostro eroe, che è appena emerso da una pensosa, angelica e lugubre notte.
Chi trova un amico, nonché un buon datore di lavoro (che magari non ti dà un soldo, ma tu sei già pago a stargli vicino) trova un inclito bijou. Questo è il motivo per cui Groucho, mentre gli sta preparando la colazione, dice a Dylan: “Buongiorno tesoro… dormito bene?”: quest’amena coppia dura da 36 anni e 2 mesi, bisticciando tutti i giorni e amandosi come il secondo giorno. Del primo non hanno più memoria, forse non c’erano, oppure dormivano, sognando d’incontrarsi.
Arduo è immaginare due umani più diversi, anche se sono certo che se li vedesse un marsupiale li giudicherebbe abbastanza simili. Anche due opossum ci paiono gemelli eterozigoti, a confrontarli, invece ognuno di loro ha il suo personal DNA.
Ho appena conclusa la lettura di Luce nell’oscurità di Gloria Evangelina Anzaldúa, valente scrittrice, donna, queer, meticcia etc, che sempre si gloriò di ogni sua diversità. Fu una persona come tutte le altre, più geniale della media però, non troppo diversa da Dylan e Groucho. Quand’era tra noi, ora non so, s’è un po’ persa di vista dopo che ha attraversato quel tunnel, propugnava di difendere la singolarità in nome dell’universalità.
Facile, no? Per me no, ma mi sto attrezzando a capire. Ecco perché non ho avuto difficoltà a interiorizzare (nei miei limiti umani) il senso del presente albo.
A pagina 8 Dylan si trova davanti a una specie di tempio della spesa umana: Ydeak. Confrontando le immagini di pagina 8-9 con quelle di pagina 66-67 mi rendo conto che disegnare e scrivere Dylan Dog non può che sgomentare l’autore. Più il disegnatore che lo sceneggiatore, più quest’ultimo che il soggettista. Un conto è ideare una catastrofe, un altro è renderla visibile. Chissà se è davvero così, non lo sanno nemmeno loro, mi sa.
Pagina 16 contiene 6 riquadri con 6 immagini identiche di Dylan, la sesta è coperta dalla mano che sta finendo di disegnare la quinta. Cambia il contenuto della nuvoletta che riporta le sue frasi sconnesse e smozzicate. La sesta tace senza però acconsentire.
Nella vignetta doppia di pagina 19 Dylan dice: “È facile se è Ideak!”, null’altro che uno slogan, senza senso, tra l’altro. Un nulla assordante!
È dopo che si sa se è stato facile, mai prima. Talvolta si dice: mi sembrava fosse una cosa facile, invece… Oppure: pareva una situazione così difficile, ma poi…
Gli slogan sono delle preci che occorre pronunciare ad alta voce, col viso che mira verso l’alto, perché si possa confidare in Lui, chiunque Egli sia, come in quella palestra della caserma dei Lancieri di Firenze, in cui lessi il cartello: Essere forti bisogna (inventato da un siculo?).
A pagina 34 è Groucho a sparare uno slogan zeppo di nullità: “Se non è green non è Ideak!”
Ora si affaccia, birbone, “… il serpente bianco che tutto divora!” – e questo moncone di vignetta mi fa pensare a un ofide norreno e chiaro che scorsi in un cestone di quell’iper-centro, che non divorava nulla, essendo di peluche, quanto lungo non lo so perché. Lui e i suoi consanguinei erano avvolti l’uno all’altro e in vendita a prezzi modici.
Diceva la madre a Gloria Evangelina di non andare in acqua, “perché un serpente ti striscerà nella vagina e ti metterà incinta!” A poco a poco Gloria Evangelina si affezionò a quel serpente birichino, che nella sua fantasia diventò “come un rettile attorcigliato dalla testa di donna e come un corpo di donna dalla testa di cavallo”. Creature davvero fantastiche!
Lo strisciante ha sempre dato da pensare a noi scimmie evolute: non è bello, ma qualcosa in lui ci affascina, ci ipnotizza, angustiandoci con la sua magica malia. Temendolo, non cessiamo mai di fissarlo, restandone affascinati. Krishnamurti diceva che la realtà doveva essere affrontata senza pregiudizi, come si fa con un cobra, con un bastone nella mano. Facile a dirsi…
Il serpente (a pagina 48) sta divorando il mondo. È soltanto un’illusione, perché anche lui ne fa parte e nulla può divorare se stesso. Stiamo perciò tranquilli! Beh! Proviamoci almeno…
Ognuno di noi è una mina vagante, che si differenzia a ogni attimo da tutti, anche da sé.
A pagina 49 Dylan si trova a letto con Mina, la sua amante, a cui chiede: “… chi sei? Come sei entrata a casa mia?” – non l’aveva riconosciuta (neanche il lettore).
Il Khaos è il non-luogo non-tempo dove ogni cosa precipita, finendo per assimilarsi all’interno di una singolarità, un black hole. Dice un quasi zombie (quasi, sennò non avrebbe voglia di chiacchierare): “Un buco… c’è un buco… in tutte le cose c’è un buco…” – da dove permane un briciolo di speranza di evadere: “un buco per scappare!”, come accade alla celebre radiazione di Hawking.
Alcuni cosmologhi (Stephen Hawking stesso, Lee Smolin e parecchi altri) hanno fatto un sogno: ogni buco nero che si rispetti prima o poi ne genererà uno bianco, da dove tutto quel che è non più dissimile, uscendo, tornerà a differenziarsi altrove.
Hugh Everett III creò la teoria religiosa, non falsificabile, dei multi mondi: in uno si dice cosmologi, in un altro cosmologhi, in un altro ancora non si dice quasi nulla. Ma questa è un’altra non-storia: Dylan ne ha collezionate parecchie, di non-storie.
A pagina, 81: l’ofide dice la sua (sempre quella): “Sono Yormungandr! il serpente che tutto divora!” – È la singolarità che tutto ingoia, anche la luce? Chi vivrà, sommerso dal buio, non vedrà!
Dylan incontra il suo antagonista, John Gust. il quale ha un sogno: costruire “un’utopia modulare, ordinata, dove tutti possono avere un nuovo inizio secondo i loro bisogni.”
Unico problema: funziona solo trasformando tutti i diversi in un solo uguale: dei clienti-zombie.
Contro l’essere più facoltoso della terra la può spuntare solo il più potente del cosmo intero, che vince solo grazie alla passione, che in sanscrito si dice kam’a, da cui derivano tante belle paroline, fra cui amore, amicizia, Kāma Sūtra, il che non è che un interesse che si sente per l’altro e che te lo fa apparire simile, pur non essendo a te uguale: ugualmente, appassionatamente diverso.
Cos’è la poesia, la letteratura, la filosofia, la religione, la politica, cos’è un giornalino a fumetti, se non “… la solita pubblicità”?
Che nulla è mai davvero grave, se rimane singolarizzata la tua singolarità, nonché l’altrui: ognuno in fondo perso dentro i fatti suoi! Voglio una vita spericolata… la voglio piena di guai…
Ciò che si può, si deve salvare è quel che è eterogeneamente omogeneo? O è tutta una fiction?
In Ragione, verità e storia, Hilary Putnam poneva la questione (poi ripresa nella serie di Matrix): “siamo certi di esistere e di non essere dei cervelli che pulsano in una vasca?”
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Dylan Dog Color Fest: Utopia modulare – soggetto di Roberto Recchioni e Dario Sicchio, Sceneggiatura di Dario Sicchio, disegni di Giorgio Pontrelli, colori di Sergio Algozzino, copertina di Paolo Bacilieri, Sergio Bonelli Editore, novembre 2022