“Tex – L’uomo senza passato” testi di Claudio Nizzi, disegni di Claudio Villa: recuperare la propria memoria
Leggendo un migliaio e più di avventure texiane, ho acquisito un’ovvietà: ci sono i buoni e i cattivi, o presunti tali, ma non un noi che si deve necessariamente contrapporre agli altri.
Tex, come dice un poeta, “ognuno sta solo sul cuor della terra”, ma anche, come canta un suo collega, è “ognuno a rincorrere i suoi guai”. Noi a volte siamo delle brave persone, a volte degli infami.
E questo vale a prescindere, come diceva Totò, dalle proprie origini, ma non dal comportamento personale. Ognuno dà quel che ha ma, ricordando la lezione di Fromm, soprattutto quel che è: un onest’uomo o un vile miserabile.
Mi accingo a leggere questo Albo gigante (Tex – L’uomo senza passato con testi di Claudio Nizzi, disegni di Claudio Villa), cartonato e a colori, poco dopo aver iniziato la lettura di Luce nell’oscurità di Gloria Evangelina Anzaldúa, che si definiva “scrittrice/artista, intellettuale, studiosa, insegnante, donna, Chicana, femminista, lesbica, proletaria”, una vera e propria mestiza, meticcia. Insieme a lei, ma forse è meglio dire: in presenza di lei, sto leggendo quest’avventura.
Una cosa in Tex mi lascia perplesso. A volte, assieme ai suoi pard, dà il suo contributo a distruggere gran parte del mobilio di un saloon, e poi tira fuori delle verdi banconote, dicendo: “Bastano cento dollari per rifondervi i danni?” – e pensare che quella turpe banconota una volta valeva seicentoventi lire e ora ha superato il valore dell’euro!
Con ulteriori due o tre pezzi da cento dollari, poi Tex non manca mai di offrire da bere a tutti. Alla fine, al barman non resta che ammettere che non si può lamentare di come si sia evoluta la serata. Un insegnamento importante che ho ricevuto dal mio personal ranger è che un uomo non va giudicato per il colore della sua pelle, né dalla sua provenienza geografica, ma dagli atti che va compiendo in vita.
Tiger Jack viene catturato dai cattivi, nonché torturato con del ferro rovente. Mentre un ferro arroventato, manovrato dal Meticcio, il cui nome è Joe Logan, “torna a mordergli la carne, il viso di Tiger Jack si trasforma in una maschera di dolore, ma non un lamento gli sfugge dalle labbra.”
Il mestizo lo chiama “dannata scimmia rossa”. Tiger, per non essere da meno, gli augura un “Va’ all’inferno, cane mestizo!” – quando ce vo’ ce vo’!
Il navajo manifesta il suo dolore stringendo i denti, torcendo il viso, ma la sua bocca non emette un suono. Sono usanze tipiche dell’uomo ardito che, non essendo io tale, non riesco a interiorizzare. Quando sbatto con un piede contro l’attaccapanni di ferro posto nell’angolo di questa mia stanza, non manco mai di strillare un acutissimo Ahia! Porca…!
Non voglio fare da spoiler, per cui lascio questo compito a Graziano Frediani, che cura la presentazione: “… stavolta, Kit si trova a vivere una toccante love story, lei si chiama Fiore di Luna ed è la figlia del sachem degli Utes, Naso Piatto…”.
Nessuno ignora che, illo tempore, un giovane Tex, legato al palo, stava per essere trafitto (in pieno petto) da un guerriero navajo, allorché Lilyth, la bella figlia del sachem Freccia Rossa, a mo’ di Pocahontas, intervenne in suo favore, gridando a tutta la tribù che era sua intenzione sposare quel prigioniero, salvandogli in tal modo la vita. Che lei la perderà, qualche anno dopo, ad opera di una coppia di vili speculatori) che, con delle pezze infette, provocano nel villaggio navajo un’epidemia di vaiolo. L’implacabile ranger ne il Il giuramento di Tex, sulla tomba della consorte, le promette solennemente di vendicare la sua morte, dicendo “… dietro di me lascerò tracce bagnate di lacrime e di sangue!” E questo accadrà regolarmente in uno degli albi successivi: La paga di Giuda. Albi letti svariate decine di anni fa, eppure mi pare che tutto sia successo ieri…
Oggi la parte di protagonista spetta al figlio di tanto padre che, colpito da una fucilata, precipita nel fiume, tra lo sgomento di tutti, soprattutto del padre, che pur rimane ferito.
Tex rimane però fiducioso ed esclama: “Il cuore mi dice che Kit non è morto.”
Alle pagine 108/109, per non smentirsi, il nostro eroe va sulla tomba della moglie e le garantisce che non lascerà nulla di intentato pur di ritrovare Kit, tuonando, come solo un dio sa fare, che pur essendo il colpevole, un vile di nome Simon Gentry, “un lurido verme schifoso”, riuscito finora a scappare, “giuro sulla tua tomba che non ci sarà angolo della terra né dell’inferno in cui possa nascondersi per sfuggire alla mia vendetta!” – e qui il grassetto è d’obbligo.
Kit ha perso la memoria, ma è ancora tra noi, per la precisione si trova in una specie di grotta, dov’è accudito da Fiore di Luna, la verginea figlia di Naso Piatto, sachem degli Utes, che lo sta curando con amore. Di lei mi sono un po’ infatuato mirando la poetica immagine nella vignetta finale di pagina 113. Fiore a un tratto gli chiede: “Ricordi almeno chi sei?” Risposta: “No…”.
La squaw gli dice ancora: “Sei un viso pallido, anche se il colore della tua pelle è simile al nostro… L’ho capito da come sei vestito.” – da che mondo è mondo, è l’abito che ha sempre fatto l’uomo bianco.
Kit è figlio di un’indiana e di un cowboy di etnia anglosassone, ed è più scuro rispetto al padre, ma un po’ meno della madre.
Non capisco perché, a pagina 79, egli usa questa brutta espressione (così sovente negli Albi di Tex): “… quei maledetti bastardi!” – quando anche il suo pedigree non è dei più candidi. Il termine deriva dal germanico bast (mulo) e hart (natura): un equino ibrido.
Fiore gli dice che la sua “gente è stata spesso combattuta dalla vostra” ma, nonostante tali diverse costellazioni familiari, i due ragazzi si baciano a pagina 130. Evviva l’amore! Per quanto pochi sono sentimenti che più di esso rischiano di recare lutti agli Achei, nonché agli Utes!
La ragazza lo teneva nascosto perché “non volevo che ti trattassero come un nemico.” Kit non ricorda nulla e dice: “Per quel che ricordo, potrei essere davvero un indiano…”. Potrebbe essere chiunque, ma il fatto al momento non muta la sua situazione. Nemmeno per la ragazza la cosa fa una gran differenza e perciò gli dice, semplicemente: “… io desidero che tu resti!” – a prescindere da quale tribù tu appartenga.
Diceva Agatha Christie che l’uomo è lo stesso dappertutto, e se si comporta male c’è sempre una ragione: per soldi, per vendetta o per passione amorosa. A volte ciò accade anche quando si smania per la gloria, quando a spronarci è il desiderio di potere agire sugli altri, dopo averne ammazzati un bel po’. La Storia questo ci insegna.
Presso gli utes c’è un giovane facinoroso di nome Falco Nero che smania all’idea “di impugnare le armi contro i bianchi” e che, volendo sposare la figlia del sachem, notandone il comportamento, se la prende con Kit, chiamandolo, genericamente, “straniero”.
Falco Nero uccide Naso Piatto, dando poi la colpa ad “Aquila della notte”, che era giunto nei pressi del villaggio, ponendo ai suoi simili la domanda capestro: “Come potete credere nell’amicizia di un uomo dalla pelle bianca?!”.
L‘ultimo degli Utes, quello che conta di meno, è l’aspirante guerriero Piccolo Coyote (che non è un nomen omen!), dal viso tanto ingenuo che viene voglia di abbracciarlo, il quale, di nascosto, ha assistito all’omicidio del sachem e che ora sta comunicando la notizia a Luna.
Mentre i due giovani stanno per raggiungere Kit (il cui nome ute è “Tonkawa, che significa ‘Portato dal fiume’…” – quasi come Mosè!), Falco Nero neutralizza Piccolo Coyote, sparandogli alle spalle, senza però ucciderlo, e cattura Fiore.
Dopo alcune drammatiche vicende, Kit, che è ancora un uomo senza passato, aggredisce il padre, non riconoscendolo per via dell’amnesia. Nello scontro batte di nuovo la capa, grazie al cui fatto riacquista la memoria, per cui si giunge all’agnizione finale: “Sei tu, pà…?” e subito dopo: “… ho un tremendo male alla testa…”.
La storia finisce in modo tragico: Simon Gentry sta per sparare a Kit, quando la piccola, innocente Fiore di Luna gli fa scudo col suo corpo e… A giochi fatti, c’è poco da dire se non che il destino è ogni volta spietato.
Dice Volpe grigia che il suo cuore “è molto triste per il sangue che è stato versato”, ma che si rende conto che Aquila della Notte è “rimasto vittima di un grande inganno”.
“… finita la cerimonia, tutti se ne vanno”, o meglio stanno accingendosi a partire, seguendo le tracce del proprio destino. Tutti, “… tranne Kit…”. Il suo cuore starà ancora, per un po’, insieme a quello della sua Luna.
Mai come ora, ha riacquistato la nozione del suo passato, rassomigliando sempre di più al padre. Nessuna vendetta può però promettere: i colpevoli sono già stati azzerati dal Fato. D’ora in poi Kit non sarà più un ragazzo, ma un uomo col suo passato.
Tex dice al nuovo sachem degli Utes, riferendosi al figlio: “… sarò eternamente debitore alla tua gente per averlo accolto e curato”.
In tutta la storia, anche se non può non aver sofferto tantissimo per la morte del suo sachem e di Luna, l’unico ad averci guadagnato qualcosa è il buon Piccolo Coyote, a cui Kit non ha mancato di dire: “Volevi diventare un valoroso guerriero, ricordi?… beh, parola mia, lo sei diventato!”
Non tutto il male viene per nuocere, che è un detto che mi ha sempre angustiato. I quattro pard, sconsolati, ora se ne tornano al villaggio navajo. La Patria resta sempre un luogo mistico, che non va mai scordato. L’infame Storia ha un gran brutto vizio: allorché si ripete, sembra che sogghigni alle spalle di noi poveri umani. Chissà se tu, mestiza, concordi?
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Claudio Nizzi, Claudio Villa, Tex – L’uomo senza passato, Sergio Bonelli Editore, ottobre 2022