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“Viaggio al Congo” di André Gide: quale demone spinge in Africa?

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“All’inizio, quando ho accettato la missione che mi era stata affidata, non sapevo bene in che cosa sarei stato coinvolto, quale avrebbe potuto essere il mio ruolo, e come sarei potuto essere utile. Adesso lo so, e comincio a credere di non essere venuto invano.”

Viaggio al Congo di André Gide
Viaggio al Congo di André Gide

È il 29 ottobre del 1925, André Gide si è imbarcato per l’Africa pochi mesi prima, esattamente il 19 luglio. Pochi giorni dopo, il 21 luglio, al suo terzo giorno di traversata inizia a scrivere un diario, un reportage di viaggio del suo “Viaggio al Congo“, nel quale oltre ad annotazioni di carattere antropologico e sociologico inserisce particolari paesaggistici, di fauna e di flora nonché le sue più intime impressioni e domande sullo scopo del suo viaggio e sulla necessità dell’uomo di compiere il bene.

Ha cinquantasei anni, non proprio un giovincello con la smania di avventura, eppure in qualità di personaggio ufficiale incaricato di missione da parte del governo francese decide di mettersi in viaggio per onorare una promessa fatta a se stesso dopo aver letto, venticinque anni prima, “Cuore di tenebra” di Joseph Conrad.

Il tragitto che Gide decide di tracciare non è quello tipico dell’europeo, o meglio del francese di buona famiglia che si reca nell’Africa nera, ma bensì è più simile ad un incontro con il territorio e con le popolazioni locali al fine di partecipare – dimentico del proprio Io – di quell’immutabile e larvale continente.

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Meno il bianco è intelligente, più il nero gli sembra sciocco.”

Durante i mesi osserva puntualmente le differenze che incontra nei villaggi non solo per la diversa “architettura” delle capanne ma anche per l’accoglienza che riceve dagli abitanti. Arriva a “sconfessare” svariate opinioni che aveva potuto sentire in Francia da parte di coloro che rientravano dalle colonie.

“Continuo a credere, e ne sono sempre più convinto, che la maggior parte dei difetti che si sentono continuamente rimproverare ai domestici indigeni deriva soprattutto dal modo in cui li si tratta, e in cui gli si parla. Non possiamo che compiacerci dei nostri – ai quali ci siamo sempre rivolti con delicatezza, ai quali confidiamo tutto, davanti ai quali lasciamo in giro tutto e che, finora, si sono comportati con un’onestà perfetta. E dico di più: è davanti ai nostri portatori, davanti agli abitanti sconosciuti dei villaggi, che lasciamo a disposizione piccoli oggetti più allettanti per loro, e di cui sarebbe più difficile accertare il furto – cosa che mai avremmo fatto in Francia –, e finora non è sparito nulla. Tra noi e i nostri uomini ci sono una fiducia e una cordialità reciproche, e tutti, senz’alcuna eccezione, si sono finora mostrati così riguardosi verso di noi, quanto noi ostentiamo di esserlo nei loro confronti.”

Sono trascorsi circa cento anni da queste riflessioni ed il lettore odierno – il lettore accorto e non quello superficiale – potrà certamente constatare quanto l’essere umano non sia mutato nei millenni, certamente nel piano materiale ha modificato lo stile di vita ma subisce lo stesso stupore di Gide quando “accade” quella “magia” della cordialità e rispetto reciproco malgrado le differenze economiche e culturali.

“Quale demone mi ha spinto in Africa? Insomma, che cosa cercavo in questo paese? Ero tranquillo. Ora so; devo parlare. Ma come farsi ascoltare? Finora, ho sempre parlato senza alcuna preoccupazione di essere inteso; ho sempre scritto per quelli di domani, con il solo desiderio di durare. Invidio quei giornalisti la cui voce si fa sentire immediatamente, a costo di spegnersi subito dopo. Forse finora mi sono aggirato tra falsi teli?”

Sono queste le domande che porteranno Gide, a fine ottobre, a trascrivere le accuse di Samba N’Goto, un abitante di Boda, riguardanti un fatto atroce accaduto pochi giorni prima. Dodici uomini di diversi villaggi furono incatenati ed uccisi, le donne furono massacrate con un machete e cinque bambini chiusi in una capanna e bruciati vivi. Questo perché non eseguirono l’ordine di trasferire i loro insediamenti sulla strada di Carnot.

André Gide in Africa - Photo by Pangea.News
André Gide in Africa – Photo by Pangea.News

Gide decise di non lasciar correre, ed oltre alla trascrizione nel suo diario scrisse una lettera al governatore per denunciare la strage. La mutazione stava avendo luogo, lo scrittore francese aveva deciso di scendere in campo per contrastare e condannare fermamente gli episodi di violenza e di supponenza da parte dei suoi connazionali.

Un’altra questione di estrema importanza sottolineata spesso è la necessità del facchinaggio, Gide durante tutto il suo lungo e difficile viaggio cercò di limitare il trasporto in tipoye preferendo camminare a piedi, non solo per la scomodità del mezzo di trasporto ma anche per il pensiero di grave peso che poteva arrecare ai portatori. Nell’appendice del capitolo 3 del libro si trova un interessante rapporto del 1902 sul regime obbligatorio di facchinaggio.

“Da oltre un anno la situazione diventa di giorno in giorno più difficile. I Mandja, sfiniti, non ne possono più e non ne vogliono sapere. Preferiscono tutto, adesso, anche la morte, piuttosto che il facchinaggio… Da oltre un anno è cominciata la dispersione delle tribù. I villaggi si sfaldano, le famiglie si disgregano, ognuno abbandona la sua tribù, il suo villaggio, la sua famiglia e le sue piantagioni, va a vivere nella savana come un animale braccato, per sfuggire al reclutatore. Niente più coltivazioni, quindi niente più viveri… Ne deriva la carestia e, in questi ultimi mesi, i Mandja sono morti a centinaia di fame e miseria… Anche noi ne subiamo le conseguenze; Fort-Crampel è più che mai in pericolo di restare senza provviste. […] I reclutatori, per trovare dei portatori, devono impegnarsi in una vera e propria caccia all’uomo, tra i villaggi abbandonati e le piantagioni desolate. Non passa mese in cui delle guardie regionali e perfino ausiliari locali, Mandja alle nostre dipendenze e inviati al reclutamento nel loro stesso territorio, non vengano attaccati, feriti, spesso ucci e mangiati. […] Dolcezza e incoraggiamenti, minacce, violenze, repressioni, regalie, salari, tutto è inutile, oggi, davanti al panico terribile di questa razza Mandja, soltanto qualche anno, qualche mese fa, ricca, popolosa, e raggruppata in immensi villaggi.”

William Butler Yeats, Marc Allégret, André Gide - Photo by Lady Ottoline Morrell
William Butler Yeats, Marc Allégret, André Gide – Photo by Lady Ottoline Morrell

Oltre alle impressioni di viaggio, André Gide annotta le sue frequenti letture (e riletture) ed i libri che ha portato con sé nonché delle riflessioni e comparazioni di opere come per “Ifigenia” di Jean Racine:

“Terminata la lettura di Ifigenia, l’ho ricominciata. Oggi la finisco, e vorrei riprenderla ancora una volta, trascinato da un crescente stupore. Oggi mi sembra che questa pièce sia perfetta quanto le altre, in nulla inferiore alle sue sorelle; ma probabilmente tra tutte è quella più difficile da rappresentare con successo. Nessun ruolo può essere lasciato nell’ombra, nessuno tollera di essere sacrificato. Si potrebbe perfino dire che non esiste un protagonista, e che di volta in volta è Ifigenia, Agamennone, Clitemnestra, Achille o Erifile il ruolo che dovrebbe meglio risaltare nell’interpretazione.”

 

Written by Alessia Mocci

 

Bibliografia

André Gide, Viaggio al Congo, Marsilio, 2022

 

Info

Wikipedia Mandja

 

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2 pensieri su ““Viaggio al Congo” di André Gide: quale demone spinge in Africa?

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