“La Turba dei filosofi” di Arisleo: la dottrina alchemica greca giunta attraverso la cultura araba
“Lasciate perdere quell’infinità di nomi oscuri, la natura è una sola acqua. Se qualcuno sbaglia va in rovina e perde la vita.” – Aflonto il filosofo nel XXXVI discorso
“Turba philosophorum” (“La Turba dei filosofi”) è un’opera che costituisce il riassunto dell’iter di arrivo della dottrina alchemica greca attraverso la cultura araba. L’autore è sconosciuto e l’attribuzione ad Arisleo Archelao[1] è leggendaria anche se egli stesso si dichiara autore e discendente di Pitagora in una epistola che ha premesso ai detti dei filosofi; alcuni studiosi moderni dopo studi sui termini e nomi propri ritengono che Arisleo non potesse essere greco ma arabo oppure ebreo.
“Arisleo, generato da Pitagora, discepolo dei discepoli di Hermete, triplice per autorità, insegnando dal fondamento della Dottrina, augura salute e misericordia a tutte le future generazioni.”
Edizioni Mediterranee ha pubblicato “La Turba dei filosofi” nel 1997 ed il libro è tutt’ora reperibile, l’edizione presenta l’introduzione, la traduzione ed il commento di Paolo Lucarelli. Il libro è, dunque, suddiviso in quattro parti: introduzione, la Turba vera e propria, il “Discorso di un anonimo sulla Turba” ed il commento del curatore.
Paolo Lucarelli nell’introduzione traccia una interessante storia della tradizione alchemica e percorre i fatti conosciuti della Turba, testo giunto a noi dalla Spagna tramite una traduzione dall’arabo al latino per opera di un traduttore ebreo. La Spagna del XII secolo è stata un ponte tra la cultura araba e quella latina, si era soliti tradurre qualsiasi testo, dall’algebra alla negromanzia.
“Nessuno può avere successo senza un animo ben disposto e un’applicazione continua all’Opera, perciò vi si dedichi solo chi di buon grado è pronto alla pazienza, mentre chi desidera apprendere molto in fretta, non legga i nostri libri, perché senza averli approfonditi più di una volta, ne trarrebbe gran danno. Perciò il Maestro dice: «Chi curva il dorso leggendo i nostri libri, e si dedica a essi senza vani pensieri, e prega Dio, regnerà per sempre nel regno sino alla morte».” – Bacsen nel XXXIX discorso
Non è stata rinvenuta una copia della turba in arabo ma si ha una data: il 900 d.C., questo perché l’alchimista arabo Ibn Umail cita alcuni brani presenti nella Turba e si deduce, quindi, che sia precedente al 900 d.C.
La versione latina compare nel XII secolo, o meglio possiamo datarla in questo modo perché il teologo e filosofo Alano di Lilla la cita così come poi farà il vescovo di ordine domenicano Alberto Magno.
Si vagheggia un nome, Uthmân ibn Suwaid, un alchimista della città di Akhmim conosciuta nel mondo greco con il nome di Chemmi e Panopoli, situata ad oriente del Nilo e dedicata al dio Min ed alla dea Tait. Il religioso e teologo scozzese John Hunt nel suo “An Essay on Phanteism” (Saggio sul Panteismo) dichiara apertamente che, durante il IX secolo, Suwaid scrisse l’opera della Turba che comprendeva una serie di incontri tra filosofi, quattro conferenze pitagoriche e con lo stesso Empedocle sotto il nominativo di Pandolfo.
“La Turba: Se tu potessi dare un esempio, sarebbe più chiaro per quelli che non capiscono.
[Pandolfo] Risponde: Lo farò. L’esempio è l’uovo nel quale sono congiunte quattro cose. Il guscio, che appare, è la terra, e l’albume è l’acqua. Al guscio però è unito un sottilissimo involucro che separa la terra dall’acqua, che è aria che divide la terra dall’acqua. Il rosso dell’uovo, poi, è il fuoco. L’involucro che contiene il rosso è aria che separa l’acqua dal fuoco, ed entrambe sono un’unica e medesima cosa. […]” – IV discorso
Si conoscono due varianti della Turba, una latina ed una gallica; è probabile che la variante gallica sia di derivazione diretta da quella latina perché circa il 50% del testo non è altro che traduzione o parafrasi libera.
“Sappiate che gli invidiosi hanno descritto in molti modi numerose acque, brodi, corpi, pietre e metalli, per ingannare tutti voi che cercate la scienza. Perciò lasciate stare queste cose, e l’oro e le monete. Intendete le monete e l’oro come nostro rame e il rame come nerezza. Molti chiamano nerezza piombo e stagno. Sappiate che se non reggere la natura della verità, e non adattate bene le sue complessioni e composizioni, i consanguinei ai consanguinei, il primo al primo, non operate secondo conformità e non otterrete nulla. […] Dunque cercate nei libri per conoscere la natura della verità, cosa la fa putrefare, cosa la rinnova, di che sapore sia, quali cose abbia naturalmente prossime, in qual modo si amino vicendevolmente, in qual modo dopo l’amore a esse venga inimicizia e corruzione, in qual odo quelle nature si abbraccino vicendevolmente e si armonizzino, sino a diventare similmente sottili nel fuoco. […]” – Parmenide nell’XI discorso
Tra i filosofi greci presenti, gli studiosi nel corso di secoli hanno dedotto che Iximidrus sia Anassimandro, Exumdro sia Anassimene, Pandolfo sia Empedocle, Arisleo sia il leggendario Archelao, Luca sia Leucippo, Locustor sia Ecfanto ed Eximene sia Senofane. Sono presenti con i nomi intatti Anassagora, Parmenide, Democrito, Socrate e Pitagora. Tra gli arabi, Bonellus è Apollonio di Tiana, Mosé è Abū Mūsā Jābir ibn Ḥayyān, Bacsen è Paxamos, Bolus è Paolo di Egina. Altri nomi non sono riconoscibili come Acsubofen e Morfolco.
“[…] Quando i Filosofi hanno visto che quello che non fuggiva era diventato fuggente con i fuggenti, si sono rivolti a un corpo simile ai non fuggenti, ve li hanno introdotti, cosicché non hanno più potuto fuggire. […] Infatti lo spirito fugge in tutti i modi dai corpi, ma i fuggenti sono contenuti dagli incorporei. Gli incorporei dunque fuggono i corpi, ma quelli che non fuggono sono migliori e più preziosi. […] Sappiate che una natura supera una natura, una natura gode di una natura, una natura contiene una natura.” – Platone nel XXXXV discorso
Written by Alessia Mocci
Note
[1] Nel V secolo a.C. visse un filosofo greco di nome Archelao, allievo di Anassagora; citato da Diogene Laerzio, Simplicio, Plutarco ed Ippolito. Sostenne la non presenza in natura dei concetti di giusto e dannoso che catalogò come il prodotto di una convenzione prettamente umana.
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