“Sopravvissuta a un gulag cinese” di Gulbahar Haitiwaji: la storia vera dei tre anni di prigionia di una donna di etnia uigura

Può una donna, mamma, ingegnera, moglie, nipote, figlia, sorella, una donna insomma, piena di voglia di libertà e di vita, forte di tutti i suoi ruoli e della sua autorevolezza di donna, essere rinchiusa, vilipesa, insultata, seviziata psicologicamente fino a calpestarne l’ultimo anelito di umanità?

Sopravvissuta a un gulag cinese di Gulbahar Haitiwaji
Sopravvissuta a un gulag cinese di Gulbahar Haitiwaji

No, non dovrebbe. Non vogliamo vivere in un mondo dove succede questo.

E invece Gulbahar Haitiwaji ha subito tutto ciò lungo tre anni di prigionia in un gulag cinese. Lo ha vissuto, visto, sofferto e trapassato. E ce lo racconta in un libro terribilmente vero, orribilmente autentico. Infilata lì con dolore, dentro le pagine, troviamo intatta la sua discesa nell’inferno dei nuovi “campi di concentramento cinesi”.

Ma dove, mi chiedo. Ma quando? Forse nel medioevo? Ma è solo un libro, e magari è romanzato? No, accipicchia, è tutto vero ed è successo ora, nella Cina moderna di oggi, e sta succedendo ancora.

Il libro, dal titolo Sopravvissuta a un gulag cinese, già pubblicato in dodici paesi, è uscito da poco in Italia per la Add editore. È una storia che fa scalpore, che mandi giù di colpo come un caffè bollente che ti ustiona, che senti bruciare nella gola, scendere nell’esofago e giù fino alla pancia, quando sembra che l’hai assorbito e invece ti stanno scendendo le lacrime. Ecco, è un libro che ti frusta l’anima.

Gulbahar Haitiwaji è una donna ormai matura, ingegnera in carriera, di etnia uigura, nata nella provincia autonoma del Xinjiang, nel nord-ovest della Cina. In pratica una zona montuosa e desertica, ma strategica perché fondamentale nella famosa “Via della seta”, indispensabile per gli scambi commerciali. Così il regime dittatoriale cinese da anni ha messo le mani su quel territorio e intrapreso una feroce persecuzione verso questo popolo che non avrebbe nessun spirito di ribellione, ma semplicemente il desiderio di praticare liberamente il proprio credo religioso.

Questa repressione, subdola e strisciante, ma feroce, si è talmente implementata nelle città di questa regione da renderla forse la più controllata e spiata al mondo. Con una rete infinita di telecamere e un agente, per niente segreto, in ogni condominio, con il potere di far arrestare anche chi semplicemente riceve un ospite a casa senza prima il permesso, o almeno l’avviso preventivo.

Si vive nel sospetto, si racconta nel Sopravvissuta a un gulag cinese, nessuno si fida di nessuno. E gli uiguri sono incessantemente boicottati, se va bene. Non riescono a trovare alloggio, vengono esclusi dalle assunzioni, e se lavorano sono discriminati. O peggio ancora vengono arrestati con accuse inesistenti e, nel silenzio più totale, fatti sparire nelle case di rieducazione, in realtà terribili prigioni, o processati sommariamente e a volte condannati a morte; nessuno sa come e nessuno sa dove.

È una vergogna per l’umanità intera, che solo da poco si sta scoprendo, grazie anche a questo libro. È una sciagura immane, se la stessa ONU parla dell’azione di detenzione di massa più devastante dai tempi di Mao. È un’onta per ogni donna e ogni uomo libero: si parla di un vero e proprio genocidio ai danni di, probabilmente, un milione di persone.

Una cifra enorme, ma le cifre non colpiscono la sensibilità, non restituiscono il dolore, la pena, l’angoscia, la mortificazione di vivere di ognuno di loro. Perché quello che veramente fa male sono le storie di queste donne e di questi uomini condannati ingiustamente, deportati, svuotati e scarnificati nell’anima fino a non avere più vita. È scritto lì, con solerti riferimenti a documenti internazionali reali.

Rozenn Morgat - Photo by Emmanuelle Marchadour
Rozenn Morgat – Photo by Emmanuelle Marchadour

Gulbahar Haitiwaji e Rozenn Morgat, la giornalista francese che ne ha raccolto la testimonianza, ce lo raccontano in prima persona. Nei capitoli seguiamo con raccapriccio la vita durissima della nostra ingegnera, per quasi tre anni tra prigioni e case di rieducazione. Seguiamo, col ritmo serrato del diario, le lunghissime giornate consumate ad essere seviziata nello spirito. Delle infinite ore a sentirsi urlare nelle orecchie insulti e accuse infondate, e a dover marciare e gridare gli slogan del regime fino allo svenimento.

La storia, vera pagina su pagina, ci racconta di Gulbahar che emigra in Francia con la sua famiglia nel 2006, per sottrarsi al clima persecutorio dello Xinjiang. Ma che nel 2016, con un imbroglio, viene richiamata in Cina. Una volta lì le sequestrano il passaporto, e in breve l’arrestano e deportano in vari gulag cinesi con l’accusa, falsa e artefatta, di essere una terrorista. Subisce anche un processo farsa di soli nove minuti, con la condanna a sei anni di rieducazione. Ma la rieducazione è peggio della prigione: una tortura ossessiva. Uno scardinare idee e personalità in modo seriale, fino a farle ammettere e confessare qualunque cosa assurda, purché finisca il massacro.

Annullata completamente, ma con la lucidità di capire che questo terribile carico emotivo sarà poi durissimo da esprimere. Soffrire così tanto da sapere già che non lo potrà neppure raccontare, neanche a se stessa.

Mentre poi, nel 2019, quando tutto sarà finito grazie alla forsennata battaglia del marito e della figlia con il ministero degli esteri francese, dovrà soccombere al bisogno di esorcizzare il suo lungo incubo, riportandolo al mondo intero.

Una scelta molto coraggiosa, perché il suo Sopravvissuta a un gulag cinese la potrebbe esporre a gravi ritorsioni verso i suoi cari rimasti in Cina, o attentati alla sua persona e alla sua famiglia. Anche in Francia dove tutt’ora risiede.

Le sue cicatrici profonde sono anche in questa paura, oltre al resto.

A noi resta lo sbigottimento, affogato dentro un bellissimo libro, raccontato con morbida ma spietata sincerità. La protagonista, senza più nessuna reticenza, scarica ai nostri piedi una sassaiola emotiva tale che anche leggendo si ha difficoltà a sopportarla.

Il racconto esce allo scoperto, narra, soffre, vola, spera e soprattutto si dispera. E noi lì, dentro la sua infernale solitudine, che spesso la trascina al punto di non ritorno. A un punto in cui non ce la fa più, e vorrebbe dire basta. Basta e non importa nient’altro, solo finirla con undici ore al giorno di torture, in prigioni senza sole, con solo i neon, senza servizi igienici e acqua, dove tutto è studiato per demolire ogni possibile resistenza.

Il lettore rimane sbigottito a pensare che lui sarebbe crollato già al capitolo nove.

E invece andiamo avanti nella lettura, andiamo avanti che fa male, e forse non passa. Mentre lei, Gulbahar, si ribella gridando le menzogne volute dal regime e resistendo alle idee e alle lacrime; che neppure quelle sono permesse.

E noi stiamo lì a veder portata via, scippata via, calpestata, la sua dignità. A veder annientata la sua più profonda intimità con la vita, nei continui interrogatori della polizia. Stiamo lì a vederla cedere piano piano, sapendo che comunque non crollerà. Perché lei è una donna monumento: una delle pochissime destinate a diventare una sopravvissuta.

Gulbahar Haitiwaji - Photo by JÉRÔME BONNET (Nouvel Obs)
Gulbahar Haitiwaji – Photo by JÉRÔME BONNET (Nouvel Obs)

E poi ancora più in basso, fino a renderla talmente stremata da anelare l’eutanasia, piuttosto che l’incessante lavaggio del cervello. Forse morire è meno peggio che sopravvivere a se stessa, con la coercizione di dover rinnegare la sua stessa famiglia, i suoi ideali e la sua coscienza.

Sono delitti contro l’umanità. Sono delitti contro una donna, e se anche una sola donna oggi può essere condannata a subire tutto questo, è una parte di ognuno di noi che muore. Che ci viene strappata via insieme alla pelle.

Amputazione di dignità di una donna. Vuol dire amputazione delle possibilità di salvezza per tutti. Perché non possiamo salvarci se in qualche angolo di mondo c’è una donna che subisce tutto questo, in un silenzio davvero assordante.

 

Written by Pier Bruno Cosso

 

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