Meditazioni Metafisiche #37: le miko giapponesi e la celebrazione del divino
Calcidio nel suo Commentario al Timeo di Platone (CLXXVI) scriveva: “Innanzitutto tutto ciò che esiste e il mondo intero è tenuto insieme e retto principalmente proprio dal sommo Dio, che è bene sommo al di là di ogni essenza e di ogni natura, migliore di qualsiasi rappresentazione e conoscenza, al quale tutte le cose aspirano, mentre esso è completamente perfetto e non necessita di alcuna unione”.

Il sacro è unico, ma ha svariate manifestazioni. È un po’ il discorso dell’induismo, che non è praticamente un politeismo: le varie divinità sono diversi aspetti di una unità divina, chiamata Brahman. Secondo le filosofie iniziatiche, ci sono anche aspetti inferiori, come gli angeli, e poi i ginn (geni, folletti), l’uomo, gli animali, le piante, la materia apparentemente inanimata. Ma ogni cosa sarebbe da ricondurre, nella essenza, a un’unica sostanza che di sé permea ogni cosa. Ogni creatura e ogni cosa avrebbe quindi una propria vita: è il discorso dell’ilozoismo di Talete e se vogliamo anche dell’Anima Mundi di cui parlava Platone nel Timeo.
Le varie tradizioni religiose e iniziatiche contemplano spesso il mondo, la natura e anche il sacro mediante due categorie contrapposte: Yin e Yang, Femminile e Maschile, Male e Bene, Sbagliato e Giusto, Demoni e Angeli, Freddo e Caldo, Shakti e Shiva.
Il sacro ha sia aspetti positivi (fascinosum) sia aspetti negativi (tremendum). Nelle varie tradizioni religiose un dio o una dea possono manifestare entrambi gli aspetti. La dea indiana Kali esprime il sacro terribile, mentre la sua forma Shakti esprime quello più benevolo. Il dio indiano Rudra è sia benevolo (shiva) sia terribile (ghora). D’altra parte un unico Dio può fare sia favori sia stragi, come il Dio dell’Antico testamento, che premiava la fedeltà di Israele liberandolo dalla schiavitù d’Egitto ma puniva l’infedeltà con il terribile esilio babilonese. Nell’antichità gli dei e le dee richiedevano spesso sacrifici umani, in Danimarca nel IV secolo a. C. abbiamo la mummia dell’uomo di Tollund, ancora ben conservato, il quale fu sacrificato a qualche dio. È stato il cristianesimo a far mutare questa terribile pratica diffusissima nel mondo greco-romano, ma anche in quello celtico, nel quale la festa che oggi ha dato origine al giorno di Halloween era dedicata anche ai sacrifici umani. In India ancora oggi entro le sette del tantrismo si eseguono sacrifici umani alle divinità.
Nell’antichità l’atto sessuale tra uomo e donna sarebbe l’espressione del congiungimento dei due poli opposti del Divino, quindi un atto fortemente sacrale, mediante il quale l’adepto sarebbe stato in grado di ricongiungersi con il Dio unico. Nel mondo cristiano siamo abituati a che le figure del sacro siano uomini, e così avviene anche presso gli ebrei o i musulmani: i sacerdoti cattolici sono uomini, i rabbini (interpreti della Legge) sono uomini, gli imam (che guidano la preghiera del venerdì) sono uomini. Ma nel passato anche le donne rivestivano una funzione sacerdotale pari, se non superiore, a quella degli uomini. Come un oggetto (il totem) può essere manifestazione del divino, così ogni uomo e ogni donna possono essere prescelti per candidarsi al ruolo di mediatore tra il divino e gli uomini non iniziati.
Nell’antica Grecia la Pizia sentiva la voce di Apollo che emergeva da un pozzo di un santuario di Delfi: allora lei, in vece del dio, pronunciava oracoli per il bene della comunità. Si trattava di una figura che univa sacerdozio e mantica. Ciò che lei pronunciava era trasposto in metrica da un altro operatore rituale: di norma esametri, ma anche il metro elegiaco e i trimetri. Invece la Sibilla era posseduta dal dio, il quale parlava da essa. “Sibilla” è la “donna saggia” dal greco sophos, eolico suphos, in latino arcaico sibus. Vi erano diverse sibille, per Varrone se ne possono distinguere dieci.
Qualcosa di analogo avveniva anche con le miko giapponesi, entro lo shintoismo, la religione autoctona dei giapponesi. Ai primordi esse erano figure sacrali femminili che stabilivano contatti con le divinità e vaticinavano a loro nome.

Le miko vengono indicate spesso con il termine “sciamano”, strettamente legato all’area siberiana e che giunge in Europa nel 17esimo secolo quando diversi esploratori soprattutto tedeschi e olandesi inviati dallo zar a vedere che cosa accade nel territorio, descrivono i rituali di questi sciamani che aiutano a guarire le persone. Da questo momento della storia inizia una fase di appropriazione del termine, diventando così un’etichetta. Durante il periodo dell’Illuminismo gli sciamani sono visti come impostori che si approfittano della gente credulona. Nel periodo del romanticismo invece, dove si costruisce un immaginario collettivo dell’”Oriente” (Orientalismo), il termine lo si ricollega al sanscrito (India) per indicare i monaci. Studi più recenti riveleranno che si tratta in realtà di una costruzione del periodo, frutto del fascino per “l’Oriente”. La fine del 19esimo secolo e l’inizio del 20esimo secolo segna il periodo dell’antropologia. Gli antropologi con il termine “sciamano” indicano tutti quegli operatori rituali che fanno cose simili agli “sciamani” dell’area siberiana. Nel periodo degli anni ‘60, uno studioso delle religioni, Mircea Eliade, scrive il libro “Lo sciamanesimo e le tecniche dell’estasi”, nel quale raccoglie resoconti di sciamani da tutto il mondo. Il vero sciamano è quella figura che utilizza la propria estasi: momento in cui l’anima si stacca dal corpo. Nel caso della miko in Giappone, lei accoglie lo spirito nel suo corpo quindi non è corretto parlare di sciamano. Gli sciamani esistevano certamente come figure nel Giappone antico ma con l’arrivo del Buddhismo avviene un cambiamento e si parla quindi di “quasi-sciamani”.
Il ruolo delle miko prima del 1868 non è chiaro in quanto non vi sono resoconti scritti su di loro. Però per quanto riguarda la pratica giapponese si può dire che sia stata generata tra l’incontro di due correnti:
- Area Siberia-Cina. La visione dei mondi è verticale e lo sciamano può viaggiare salendo in essi. Secondo questa visione, i mondi sono uniti da alcuni pilastri, e nel contesto giapponese non solo dalle montagne.
- Area isole della Polinesia. Si parla di una cosmologia orizzontale. L’idea è che ci sia un altro mondo al di là dal mare, abitato dagli spiriti, i quali possono tornare dagli umani attraverso delle imbarcazioni. Questa seconda visione fa ancora parte di alcune espressioni religiose delle isole Ryukyuu.
Secondo ricostruzioni antropologiche recenti, le miko pare abbiano questa storia:
- Epoca arcaica: nella figura della regina Himiko (non si sa quanto storica sia). Le fonti storiche di quel periodo sono le cronache cinesi Wei Chih. La regina Himiko ha governato il regno Yamato e “incanta” il proprio regno con sortilegi. Inoltre, a palazzo vi erano solo donne e l’unico uomo era il fratello che fungeva da mediatore tra lei e il popolo. Le statuette haniwa ritrovate sembrerebbero rappresentare miko: hanno bracciali su polsi e caviglie e specchi legati in vita (simbolo e oggetto utilizzato per vedere un altro mondo e attrarre gli spiriti.) Si trattava quindi di una società matriarcale.
- Epoca Nara: ci sono dei racconti che parlano di donne che vengono possedute dagli spiriti. Lo si può trovare nel Kojiki. A seguito dell’introduzione del buddhismo la funzione delle miko è stata ridotta a seguito di regolamenti e codici.
- Epoca Heian: all’interno di fonti letterarie (Genji Monogatari) ritroviamo la presenza di queste donne. Il loro ruolo è ancora più ridimensionato, anche se a corte le miko sono considerate importanti e vengono consultate per controllare gli spiriti infelici e pericolosi (goryo). Spesso operano con gli yamabushi in riti chiamati Yorigito. La miko offre il proprio corpo per ospitare lo spirito mentre lo yamabushi invoca lo spirito. Esistevano pratiche ascetiche per poter comunicare con gli spiriti:
- sandachi: astensione da cereali, sale e cibi cotti
- mizugori: purificazione con l’acqua
- komori: reclusione nel buio di una grotta.
- Epoca Kamakura: le miko operano in un contesto popolare. “Aruki miko” erano miko itineranti. Le miko offrono i rituali lungo le vie di pellegrinaggio del paese.
- Periodo Meiji: il nuovo stato vuole presentarsi come moderno agli occhi di europei e americani e quindi con un editto nel 1873 vengono soppresse le pratiche e credenze considerate “superstizioni”. Solo dopo nel 1946, quando sarà assicurata la libertà religiosa le miko ritornano ad essere visibili. Con questa idea però nel periodo Meiji vengono create due categorie: quella della religione e delle superstizioni. Sono etichette forzate che mettono inevitabilmente la “religione” su un piano più alto.
Per riuscire a far crollare l’idea di marginalità delle miko, è necessario studiare storicamente il loro ruolo. Meeks ricorre alle fonti letterarie ed artistiche e conferma che tra il settimo ed ottavo secolo le miko effettivamente perdono il proprio potere, poiché si cerca di limitare le pratiche poco controllabili dal centro. Meeks porta all’attenzione tre codici:
- 645, Riforma Taika: tenta di bandire le pratiche che mettono in contatto con gli spiriti dei defunti tra le persone comuni;
- 718, Codici Yoro: vi è un articolo che proibisce alle miko di utilizzare le pratiche di incantamento nei confronti della gente comune ma possono rimanere attive all’interno dei santuari ufficiali;
- 927, Engishiki: per aumentare il controllo sulla sfera di contatto con gli “spiriti” vengono limitate ancora di più. tutte le pratiche che avevano a che fare con i goryo devono avvenire all’interno dei santuari, anche se vengono relegate a servizi minori.
Ci sono diversi dati che ci consentono di vedere come per tutto il periodo pre-moderno le miko abbiano trovato dei modi per svolgere le loro funzioni. Gli aristocratici e i monaci buddhisti ricorrono ai loro servizi: fanno parte di una comunità religiosa. Le miko quindi effettuano la danza “kamura”, che consiste nella possessione del corpo da parte di uno spirito.
Vi sono vari resoconti sulle varie tecniche e rituali che queste miko offrivano:
- takusen (kamigakari) oracoli di buddha kami e bodhisattva attraverso la possessione;
- kuchiyose, rituale di contatto con gli spiriti dei defunti;
- kito, rituali di purificazione per eliminare gli spiriti malvagi;
- uranai, divinazioni;
- imayo, canzoni popolari;
- guarigioni fisiche e veniva richiesta la loro presenza durante i parti.

Le miko itineranti non sono affiliate a templi e santuari ma in realtà con i fondi che raccolgono finanziano i templi e santuari. In molti testi viene detto che le miko praticavano la prostituzione, ma in realtà parrebbe che non sia così: sembra una narrazione che non trova un riscontro.
C’erano molti punti di contatto tra miko e buddhismo. I servizi sono richiesti all’interno di alcune cerimonie buddhiste e le miko e i monaci partecipano agli stessi rituali. Ricorrono alle miko per la guarigione. Più avanti si predilige la figura del medico, ma rimane l’associazione delle miko con alcuni momenti particolari come quello del parto. La miko non era esattamente marginale ma faceva parte di una rete sociale e religiosa e ci sono stati cambiamenti della sua figura e di quello che gli era permesso fare, ma il fatto che sia sopravvissuta ci indica che è una figura ricercata dalla popolazione.
Simili alle miko giapponesi erano le wu della Cina antica, che possedute dagli spiriti (shen) profetizzavano e guarivano. Nell’antica religione cinese il sacro aveva due aspetti fondamentali: ling, te. Il ling significa il potere magico e tale significherà sempre, invece la parola te indica la magia ma in seguito aprirà il significato alla sfera etica. Il te era poi l’attributo del Tao, che all’inizio era visto come un dio personale. Nella Cina antica il potere sociale era matriarcale, quindi le funzioni sacerdotali erano essenzialmente in mano alle donne. La wu e il dio stavano in contatto erotico, come accade anche nella cultura siberiana.
Però in seguito la società cinese divenne patriarcale e il potere della donna finì con l’essere ridimensionato, ma non del tutto. Nella cultura cinese, infatti, la donna manifesta il suo sacro energetico (Yin) prevalentemente nella vita dei grandi palazzi.
Scrive Larre: “La grande sensibilità dei cinesi, malgrado le loro manifestazioni affettive siano soggette a severe restrizioni dovute a una disciplina sociale molto rigida, permette rapporti delicati, pieni di tatto e di fascino tra i due sessi. Ma la posizione delle donne nella vita cinese è ambigua e difficile da capire. Questo rapporto sottile di forza e di debolezza che in tutta la società umana si instaura in ogni istante tra l’uomo e la sua compagna appartiene alla vita privata. Invece nella vita pubblica la donna di una certa condizione sociale, soprattutto la sposa, è tenuta protetta all’interno della casa in mezzo alle sue domestiche. Per parlare con il linguaggio in uso nella maggior parte delle dinastie, vi è, nei recessi profondi dei palazzi e delle grandi case, un accumulo di Yin. La sposa è una donna virtuosa. Provvede alla discendenza […] la donna è sottomessa al marito e assume il suo rango. Con l’età diventa ereditiera. La morte dei genitori di suo marito cambia completamente il suo status reale all’interno della casa. Da lei tutto dipende. Può, a suo piacimento, vendicarsi delle umiliazioni e delle sevizie che ha subito senza poter protestare, esercitando il suo dispotismo sulle donne, parenti o domestiche, della generazione che viene dopo di lei”.
A parte queste donne importanti, di solito la condizione delle donne nella società cinese è caratterizzata dall’adagio “sancong side”, le Tre obbedienze e le Quattro virtù: obbedienza al padre, obbedienza al marito e, se diviene vedova, obbedienza al figlio maggiore; castità, modestia nelle parole, compostezza nei modi, ardore nel lavoro. Di solito la donna si sposa, se non è adatta al matrimonio viene indirizzata in qualche monastero. Oggi le donne godono di maggiore libertà rispetto al passato per via del pensiero confuciano. Per il confucianesimo le dottrine più importanti sono quella dell’amore (Ren), quella della norma celeste (Li) e quella della rettitudine morale (Yi). Prima di Confucio, il fondatore di questa filosofia cinese, l’amore e la rettitudine avevano ancora un carattere immanente, fu invece Confucio a dare loro un aspetto celeste unendoli al Li, quindi Ren e Yi diventano i doveri religiosi che l’uomo deve adempiere sulla terra per guadagnarsi i favori del Cielo. Dopo di esso Mencio sostiene che la natura umana è buona, shan, senza distinzione tra le persone, uomini o donne che siano. Per Mencio e Gaozi, xing non è altro che sheng: ciò che è innato, ciò che si riceve alla nascita. Ma per Gaozi è innato solo il corpo e gli istinti di base, invece per Mencio tutte le persone alla nascita hanno il sentimento di empatia che rende insopportabile (buren) lo spettacolo della sofferenza altrui. Mencio parla quindi nell’uomo di un senso morale istintivo.
Secoli addietro però la donna comune era completamente soggiogata all’uomo tanto che “sposa” era fou, che significa anche “sottomissione”. Fino a tutto l’Ottocento era in vigore la stretta fasciatura dei piedi della donna come simbolo di inferiorità. Per molto tempo la donna era impiegata all’interno (nei) e l’uomo all’esterno (wai). Il carattere cinese Yin (Femminile) allarga il campo semantico anche al clan, alla famiglia, alla generazione, tutte attività “interne”, invece il carattere Yang (Maschile) è formato da quello del Campo e da quello della Forza: lavorare il campo è una attività “esterna”. Ma nel Tao Te King 6 il fondatore del taoismo Lao Tseu scriveva che il principio da cui tutto origina è femminile, come una sorta di divinità femminile primordiale che gestisce le sorti del mondo.
Quasi tutte le religioni hanno anche divinità femminili. Secondo Bachofen, Gimbutas, Graves nei territori, prima della invasione indoeuropea con i valori patriarcali, vi era l’adorazione di una divinità femminile. Una etnia stanziata in Cina, i Mosuo, pratica ancora il matriarcato sacrale e sociale. Ma non sono i soli nel mondo.
Nelle culture del Mediterraneo una dea “dai molti nomi”, come la appellò Apuleio, era Iside, così nota in Egitto, ma conosciuta come Inanna presso i sumeri, Isthar presso i babilonesi, Astarte presso i cananei, Atena presso i greci, Minerva presso i romani. Secondo Jung, nel cristianesimo la figura di Maria rappresenta un riemergere dell’archetipo di questa dea pagana a livello collettivo.
Maria era una fanciulla ebrea che, messa incinta dallo Spirito santo, partorì verginalmente Gesù Cristo. Cristo, alla fine della vita terrena, risorse: vale a dire che la sua anima si unì al corpo risorto, quindi Cristo è attualmente vivo in anima e corpo. Secondo i teologi, la seconda persona risorta, cioè attualmente viva in anima e corpo, è la Vergine Maria. Tutti gli altri morti hanno il corpo in attesa di risurrezione (che per loro avverrà alla fine dei tempi, dopo il giudizio universale) e l’anima salva (in paradiso o nel purgatorio, ove c’è bisogno ancora di purificazione) oppure dannata (all’inferno). Con la risurrezione dei corpi i primi risorgeranno per la salvezza, i secondi per la dannazione, gioendo o soffrendo per l’eternità anche con il corpo e non solo con l’anima.
Secondo la teologia cattolica, la Grazia, cioè la comunicazione ai credenti della vita divina, si riversa sul mondo per via del sacrificio di Cristo, morto in croce, il quale è un’unica persona dalla natura umana e dalla natura divina: come uomo è Gesù di Nazaret, come Dio è la Seconda Persona della Trinità (il Verbo), assieme al Padre e allo Spirito Santo. Quindi il Cristo esprime il mistero del Verbo incarnato. Maria è Madre di Dio (Theotokos). Ragion per cui se è vero che Dio è l’autore della Grazia, Maria è la mediatrice attraverso la quale proviene al mondo la Grazia. I teologi la definiscono anche Onnipotente per volontà di Dio, in quanto Dio non le può negare nulla di ciò che essa chiede. I mariologi sostengono altresì che Maria sia necessaria alla economia della salvezza. Vale a dire che Dio, nella sua onnipotenza, ha comunque deciso che Maria, creatura meravigliosa per virtù, gli sia necessaria. Per questo la pietà popolare riconosce nel Rosario alla Santa Vergine una preghiera efficacissima per ottenere i favori del Cielo e la vittoria sui diavoli. Addirittura Padre Pio lo chiamava l’“Arma” per eccellenza nel combattimento spirituale che il credente deve fare, come vuole la spiritualità cristiana, contro la carne, il mondo e i diavoli.

Tutto ciò che si può dire di Maria, si può dire della Chiesa. Ci riferiamo alla Chiesa nella sua sostanza, cioè nella sua struttura fondamentale, mentre i peccati degli uomini di chiesa appartengono all’accidente. Maria è Madre di Cristo perché lo ha generato, lo ha educato e lo ha fatto sviluppare, così la Chiesa genera i credenti alla vita di Grazia, li educa al Mistero e li fa sviluppare fino alla perfezione comunicando la Grazia. Maria è tipo e figura della Chiesa: ciò che la Chiesa ha esperimentato nel tempo, Maria lo ha vissuto nella sua vita terrena. Maria è il compendio della fede di tutta la Chiesa. Cristo ha introdotto la nostra umanità al cospetto di Dio nel cuore stesso della Trinità, mentre Maria è la prima redenta e ha raggiunto la perfezione della vita cristiana, modello di ogni credente.
Come Maria è conosciutissima in tutto l’orbe cristiano, seppur in modi diversi, e anche il Corano dei musulmani la cita, così pure la dea egiziana Iside era una delle divinità tra le più conosciute nell’antichità. Il suo culto principale si svolgeva nell’isola di File, un’isola egiziana allora conosciutissima.
L’isola di File si trova all’estremità meridionale dell’Egitto dell’antichità (oggi l’Egitto ha una estensione più grande). L’isola di File era stata insediata dagli egiziani sin dal III millennio a. C. (cioè anteriormente alla I Dinastia). Si trova vicino la prima cateratta del Nilo, cioè una delle tante rapide di questo fiume, ragion per cui le imbarcazioni dovevano trasferire le merci su imbarcazioni più piccole oppure farle procedere via terra. Si trova nell’arcipelago di Assuan, sito molto conosciuto sin dall’Antico Regno ma soprattutto dal Medio Regno per le cave di granito, da cui si prelevava il minerale anche per fare le piramidi. Gli egiziani si erano sempre interrogati riguardo le grotte sotterranee che determinavano le cateratte. Ad un certo punto gli egiziani si erano convinti che questa grande prima cateratta fosse all’origine del Nilo stesso e anche delle sue piene. Nell’antichità la divinità ritenuta responsabile di questa piena che irrigava la valle del Nilo e la rendeva fertile, era Khnum, assieme a una famiglia divina che prevedeva anche Satet e Anuqet. Gli egiziani chiamavano questa zona della prima cateratta, che stava sotto l’egida e la protezione di Khnum, così: Qebehu, espresso dal geroglifico del vaso (che indica una pratica rituale per cui i vasi erano usati per versare le libagioni alle divinità), tre segni uguali che indicano molta acqua, due determinativi che indicano rispettivamente una montagna (allusione a questa zona come una area montagnosa, quindi rude e non civilizzata) e poi un segno che indica la avvenuta civilizzazione.
Il dio Khnum è il protagonista della Stele della Carestia (lapide di età tolemaica, ma la storia ivi raccontata risale al III millennio a. C.), nella quale si parla della importanza di avere una buona piena del Nilo, che i sacerdoti dovevano chiedere al dio Khnum mediante delle libagioni offerte in sacrificio. Quindi a segnalare il fatto che già dalle epoche più antiche si credeva che la piena del Nilo fosse la responsabile del benessere della regione.
A partire dall’epoca tarda queste caverne che danno origine alle cateratte sono interpretate non come la casa del dio Khnum, ma il luogo dove il dio Osiride si nasconde per potersi preparare per la grande piena annuale. Ora, nell’isola di File vi è un’area detta Porta di Adriano la quale era luogo di un rituale per la dea Iside, la sposa di Osiride, la divinità principale di quest’isola. La dea ogni dieci giorni partiva dall’isola di File e andava a trovare Osiride che stava nascosto in una grotta nel contesto della prima cateratta. A partire dall’epoca tarda Osiride diviene la personificazione del Nilo.
Allora, se prima la divinità principale della prima cateratta era il dio Khnum, adesso è Osiride. Osiride sposa Iside, combatte contro Set e viene ucciso. Ma Iside assieme al figlio Horus fa risorgere Osiride e poi sconfiggono Set. Nell’epoca tarda questo mito viene associato alla piena del Nilo: quando il Nilo fa la piena è la risurrezione del dio Osiride, che dà benessere e fertilità all’Egitto. Tutto il resto dell’anno Osiride è rifugiato in questa grotta della prima cateratta e Iside lo va a trovare ogni dieci giorni.
Questa famiglia divina è anche immagine della nuova famiglia regale: il vecchio re che muore è Osiride, poi sposa la regina (Iside), la quale mette al mondo la discendenza regale (Horus), mediante la quale il paese continua ad ottenere benessere. Iside è quindi sposa, madre e maga, perché con le sue arti magiche dà origine alla rinascita di Osiride.
Nello specifico l’isola di Bigga (vicina a quella di File, sempre nell’arcipelago di Assuan) era considerata il rifugio di Osiride. Qui si celebravano i rituali per Osiride. Era chiamata geograficamente Senemet, ma era chiamata sacralmente Iatuabet. I greci la chiamavano Abaton, etimologicamente il luogo dove è vietato entrare, in quanto dimora sacra di Osiride. Invece File è un’isola più piccola. Era chiamata Iu-rek, cioè “isola (iu) del tempo (rek)”. In greco dà l’esito: File.

L’isola di File viene conosciuta dagli egizi solo dalla XXX Dinastia. In epoca moderna le dighe costruite in Egitto dovevano far scomparire i monumenti dell’isola di File: a questo punto l’UNESCO negli anni Settanta del Novecento per salvare i monumenti dell’isola di File, li fa ricostruire su un isolotto vicino, con una ingentissima mobilitazione di fondi economici.
Questa stessa sorte ha subito anche il tempio di Iside. Il tempio di Iside (XXX Dinastia) che vediamo oggi nasconde sotto di sé i resti di una struttura più antica (XVI Dinastia). Questo è stato scoperto mediante lo smontaggio di questo tempio dall’isola di File al nuovo sito.
Ora, gli studi letterari, filologici, archeologici e iconografici portano a ritenere che la grande diffusione del culto di Iside e della sua famiglia (Osiride, Horus) nell’antichità, nel Mediterraneo antico e la loro rinomanza fino ad oggi derivino dall’isola di File.
Written by Marco Calzoli
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