“Il cappello scemo” di Haim Baharier: arca in antico ebraico è tevà, parola
Non porto mai il cappello e l’ultima volta che ho dovuto farlo fu a Sabbioneta (MN), perché era la conditio sine qua non era possibile accedere alla sinagoga, per cui, obtorto collo, mi dovetti inkippahre, e il motivo per cui lo evito è che da giovane mi celava la fluente chioma e ora l’autorevole calvizie.

Nonostante questo, comincio ad amare questo libretto proprio perché non lo comprendo pienamente. Del resto, io sono un tipo del tutto incapace di redigere recensioni, e spero che il mondo distratto non se ne sia ancora accorto. Io reagisco, più che altro.
È inaudito quanto mi sta accadendo: sto interagendo psicologicamente a ogni pagina di un libro, eppure non sono capace di vergare una parola in itinere, come mi capita solitamente.
Un primo lampo squarcia l’aere a pagina 61 e seguenti (capitolo La bocca della terra): “Vagavo a piedi dentro a un’azienda labirintica, alla ricerca dell’ufficio di Direzione dove mi stavano aspettando.” Già questo m’inquieta. Nel cosmo vi sono due enti spesso pressoché antagonisti, io e l’ambiente a me esterno, specie nel momento in cui m’affanno senza eccessiva speranza a rintracciare il domicilio dove potrò finalmente prender fiato, la terra donata direbbe l’autore.
“… cominciai a camminare per un lungo corridoio, finché una freccia per l’indicazione dell’ufficio mi rimandò a ritroso sui miei passi. Sgambettai fino a che un altro cartello non mi rispedì a sua volta indietro.” E ci si chiede in questi casi quando giungerà il momento in cui si potrà sorridere di queste amene goffaggini.
“L’incredulità maggiore fu nel constatare come la mia mente fosse rimasta intangibile alla soluzione più ovvia, ovvero che l’ufficio che cercavo era proprio lì, davanti all’ascensore dal quale ero partito.” Inutile dire che in quel momento stavo insieme a Haim Baharier (poco appresso a lui) e che mi dissi che forse, sì, forse ce l’avrei fatta in qualche modo a buttar giù due parole. Ero con un amico. È stata la solita e bastarda passione, kam’a, a presentarmelo.
Dice Haim: “Recentemente mi hanno invitato ad aprire un simposio di caratura internazionale.”
E hanno deciso di affiancargli qualcuno in tale impresa. “Degli interpellati nessuno accetta. Non ho capito se a essere scomodo sia io o l’argomento.”
Ecco che un noto psichiatra, abituato a ben peggio, accetta l’invito. Ora, si chiedono gli organizzatori, come si potrà “giustificare la vostra compresenza sul palco?”, come se alla gente non interessasse altro.
“Occorre escogitare una prolusione, che non suoni come un ripiego, a lui e al pubblico.” L’idea di Haim potrà servirmi a rinforzare i miei enzimi reagenti: “Perché, ribatto io, non partire proprio da questo imbarazzo? Confessare pubblicamente il timore che tutto sembri – o forse lo è davvero – un ripiego?” Grazie, Haim Baharier, avessi saputo tutto questo forse non avrei accettato di ricevere il tuo libro, ma ora che sono in ballo e che l’ho quasi divorato, è per me importare riportare a galla le presenti righe.
Si comincia, ragionevolmente, col primo capitolo: I cinque verbi, le cinque coppe.
Vehotséti: vi farò uscire;
Vehitzàlti: vi soccorrerò;
Vegaàlti: vi riscatterò;
Velakàhti: vi prenderò [come popolo].
Ne manca uno, ma non è un problema. È come andare a Palermo in Piazza Quattro canti, dopo aver avuto l’informazione riservata che essi sono cinque, ma poi ne vedi solo quattro. Se giri casualmente gli occhi, magari nel sorbire un caffè, o sorseggiando una granita, ecco che salta fuori l’escluso, non so perché mi è venuto in mente di chiamarlo così: il bar Quinto canto indica che, adiacente al tuo tavolino, c’è quel che cerchi.
“Il quinto verbo a cui papà si appellava è Vehevéti, vi condurrò” – determinerò il vostro percorso.
“… un verbo di scorta, come un maglione chiuso nel portabagagli dell’auto di chi pensa ci sia sempre il sole” – o un verbo che si dà per scontato?
“Anokhì, il nome della Trascendenza assume nel far uscire dall’Egitto, contiene Anàkh, il filo a piombo.” Si esce dritti, in senso verticale: “esco davvero se mi elevo”. Assomiglia al cambio di livello dell’elettrone che, salendo, consuma un gettone, pardon, un fotone; e che lo riacquista quando ridiscende. Quando? È consentito farlo?
La mamma di Haim fa la torta senza matzà, perché “non deve mescolarsi ad acqua, inumidirsi”. E se la metti in bocca: sì, s’inumidisce, ma “fuori deve essere così, ciò che succede dentro è un altro discorso.”

Mosè chiese al faraone di mandare via il popolo ebraico: “… manda via! Separa!”
“Vi soccorrerò”: “L’etimo tz(e)l di Vehitzàlti”, ha “tzàde, la lettera albero” che “rimanda al processo cognitivo.” Una lettera “che sfonda in alto, sancisce il superamento…”, ed è come chi “scruta il nuovo sporgendosi dal finestrino”, senza correre però rischia di scivolare.
“Vegaàlti” si basa su “gaal, salvare”: mi verrebbe da dire, ma è una battuta, vi riporterò a galla, “vi riscatterò”.
“Velakàhti”, dalla “radice verbale lkh nel suo senso biblico” che significa “acquisire una reciprocità”: uno scambio di impegni.
“Prendete a fondervi, a esaltarvi rimpallando doveri e meriti, e il patto non ci sarà. Il Dio di rettitudine esige dal suo popolo la solidarietà interna, non il magma della confusione. Pluralità e univocità al tempo stesso.” – un dio che pretende coesione dal suo popolo eletto.
“Vehevéti”: “e vi porterò verso”.
La terra.
“… nel desiderarla si era sionisti, irrimediabilmente erranti se non la si voleva.”
Mi sento un misto di entrambe le condizioni: giudico le nazioni un’aberrazione creatrice d’ingiustizia, e mi sento italiano, fiero di avere Leonardo e Dante come compaesani.
“… da sempre, la terra è la terra donata. Donata ai nostri avi e quindi a noi.” – sento che il vero pronome è l’entità, credo omogenea, di quel noi.
“… Massoròt: tradizioni di lettura e di scrittura del testo biblico che funzionano da orientamento.”
Due pensieri apparentemente divergenti: Massoròt come “recinto di protezione della Torà”, oppure come “il divieto di avere divieti.”, il possibile è sempre sancito, ed è anche “accoglimento della pluralità” – la differenza di potenziale crea la dinamicità del cosmo.
“Il verme detto Shamìr”: “Dieci cose furono create alla vigilia del Sabato, tra giorno e notte”, fra cui il suddetto verme. Ma anche la scrittura e lo scritto. Due enti diversi? Vedremo.
“… davar significa cosa ma anche parola”, parole-cose, non un mero parlare, ma degli oggetti che parlano.
“Shamir viene da shamòr, custodire.” Secondo la tradizione quel verme apparve e disparve una sola volta. Salomone doveva edificare “il Santuario di Gerusalemme gli fu proibito usare il ferro”. Shamir “venne deposto sulle linee designate sulle pietre e strisciandovi, debordando ma tenendo la direzione indicata, le scisse in blocchi.”
Un mito di ardua comprensione, se non si accetta l’idea che “la materia, consenziente, accetta che sia la parola a plasmare.” – la parola cosa, per la precisione.
“Sembrerebbe che la parola per creare debba comunque cimentarsi con la materia. Come sia possibile lo suggerisce un altro dei dieci oggetti: la scrittura. Non lo scritto. La parola diventa scritto, muta in oggetto: per farlo occorre un’azione, la scrittura. Scritto e scrittura non occupano ciascuno i lati opposti della medaglia, sfumano invece l’uno nell’altra.” Resto perplesso.
“La Torà preesiste alla Creazione. Potrebbe sembrarci soltanto ‘scritto’. Senza provenienza perché insondabile all’umano l’andare all’indietro.”
Siamo “prigionieri nella nostra cronologia, non capiamo che la provenienza della Torà, al sua scrittura, va cercata in avanti.”
Tempo, a quel che pare, è una parola che nel Pentateuco brilla per la sua assenza. A pagina 89 leggo: “Credo che tutta la tradizione ebraica si fondi sul principio dell’assenza: il Creatore brilla per la sua assenza. Vi sono in ogni caso sostituti e noi abbiamo a che fare con loro.”
Altra immagine che mi turba: le tavole sacre, girandole in tutti i sensi, rimangono comprensibili. Come se a contare fosse l’energia di queste parole-cose, non il loro senso letterale.
“… luchòt, plurale di lùach” e “l’etimo di lùach è lach, umido, l’umidità che caratterizza la terra fertile. Simbolicamente, le Dieci Parole dovrebbero nutrirsi del nostro humus, la nostra immaginazione, la nostra creatività e la nostra creazionalità per Imitatio Dei.”
Qualcosa ho colto, ma c’è ancora molto da vangare, zappare, estirpare erbacce, innaffiare, e poi zappare ancora, estirpare le erbacce nuove, tutti i giorni innaffiare, aspettare un po’, e ogni tanto raccogliere, ma poi zappare ancora e sempre chinarsi a togliere la gramigna.
“La bocca dell’asina è uno strappo violento e imprevedibile: della natura, della logica, dell’evoluzione.” – che pochi sanno comprendere e perfino udirne il suono.
“… viene a dirti di un angelo invisibile che forse c’è stato, di un’etica che accompagna sempre il tuo viaggio e che non vedi. Quando te me accorgi, e questa etica la assumi, il cambiamento appare come una lacerazione improvvisa.”
Ho notato che l’autore, per far capire qualche concetto più ostico del solito, ama riportare un aneddoto della sua vita che suggerisce l’idea. Tanto che mi va da annoverare questo scritto non tra i saggi, ma tra le scritture esistenziali. Io non sono da meno.
Ero a Tcrapani (il tc da quelle parti è d’obbligo) e il mio amico Tonino si era accorto che qualcosa non andava e che stava mettendo a rischio una sua iniziativa, e recitò, come si fa con un Mantra: ci dissi u sceccu o mulu: semu nati pi dari u…
Destino infame, o Fato? Pare che il primo lasci una (minima) chance al libero arbitrio. Il secondo s’impone in toto anche agli Dei.
Mia madre parlava sempre con rispetto dell’asino presente nella masseria di famiglia, ma anche con una certa acredine: quando decideva di non volersi muovere, i suoi virtuosi fratelli gli accendevano del fuoco sotto la pancia. Non subito e senza entusiasmo, quel maledetto ciuco decideva di spostarsi, salvo poi rifermarsi poco dopo. La sua era una strana consapevolezza fatta sia di diritti che di doveri.
“La bocca di ognuno di noi non sa parlare con una pietra anche se è il minimo che dovrebbe saper fare. Parlare prima con le pietre e poi con gli esseri umani. La nostra bocca diventa la bocca della pietra per verificarsi. Se la bocca della pietra si apre, significa che sono stato capace di suscitarla.” Si fa fatica sia a capire che a non capire. Quando non c’è nessuno che mi guarda, io parlo con le cose. Anche se finora non mi hanno risposto, io continuo a domandare.
“Dopo il diluvio, ad accoglierlo a cavallo delle acque in ritiro, prosegue l’arcobaleno. Un’altra delle dieci parole-cose.” – che doveva fare quell’esausto Noè, se non festeggiare con un bicchierotto di vino?
Interessante, anzi, inquietante che arca in ebraico è tevà, parola.
“Iridescente, ecco proporsi lo spettro dei colori, di tutte le possibilità offerte all’uomo. Non c’è predestinazione.” Mi ricorda un aspetto della meccanica quantistica. Una volta emessa, la particella va a finire dove le pare, con una gamma di possibilità ben maggiore di una regina degli scacchi. L’equazione umana può intuire dove, più o meno, salvo imprevisti, andrà a sbattere. Ma solo lei (o qualcosa dentro e/o fuori di lei) lo sa con certezza ed esattezza. Einstein diceva che Dio non giocava a dadi col cosmo. Bohr gli replicava che nessuno poteva conoscere le Sue intenzioni. Bell corresse entrambi: Dio gioca a dadi col cosmo, però bara. S’intende qui il dio dei fisici, non so cosa ne possa pensare Io sono Colui che sono.
Acceso e spento. Onda e particella. Gravitazione e fuga superluminale. Energia e massa. Duplicità. Di questa duplicità pare che il mondo non possa fare a meno. È un continuo avvicinarsi, sfuggirsi, cercarsi, allontanarsi.
“… mormoro due verità: ‘Che bello! L’arcobaleno! Ci siamo salvati!’. E al tempo stesso: ‘Che brutto e che triste necessità dover essere salvati…’”
Quando nacqui dovevo morire sia io che mia mamma. Quasi in coma, un medico diceva che ormai per quella poveretta non c’era nulla da fare. E lei si disse: meno male! Poi spuntai fuori io… e lei si dovette adeguare alla nuova realtà.
Tu parli spesso di un brutto incidente che ha un po’ rovinato la tua schiena, recandoti ogni tanto dei dolori lancinanti. A sette anni stavo andando a catechismo. Di fronte alla chiesa, sulle strisce pedonali, fui investito da un’auto. Grazie al mio angelo custode e a un colpo di reni, me la cavai con l’omero sinistro rotto e la nuca bucata. Diversamente, non sarei ora qui a scriverti, ma Colà. E poteva andarmi peggio.
“Soltanto ritornando alla consapevolezza acquisita lì, sulle acque, puoi ritrovare il discernimento; la tavolozza dei colori dell’iride non è né buona né cattiva: sta a te scegliere cosa dipingere.” Il nero e il bianco sono la parte fondante di ogni tinta possibile. Se non ci fosse il buio non capiremmo la luminosità.
“Il sèder” è il convivio, dove si posa il sedere (mi viene da celiare, anche qui tentando d’emulare il tuo stile).

“In ebraico la parola taam, ‘gusto’, significa anche ‘causa’. In fondo, è la causa a dare gusto a ciò che si sta analizzando, gli dà un significato. Interrogarsi sull’inizio è la verifica della libertà…”, che, per citare Gaber, non è stare sopra un albero, non è il volo di un moscone, non è uno spazio libero, libertà è partecipazione. Cercare di capire cosa abbia a che fare quel che è esterno a te con quel che ti è interno è cercare di capire se quelle due condizioni non siano che illusioni, sogni…
“In ebraico man effettivamente vuol dire: ‘Che cos’è?’”
Non credo ci sia domanda più energetica. Una risposta creerebbe una massa di particelle che costerebbe mantenere e che ha il solo pregio di svanire al più presto, liberando una nuova energia. Cos’è la manna? È quel che Colui che sono ci dona per permetterci di chiederci sempre Cos’è la manna? “Il Talmud mi offre un indizio, quasi elementare: la manna è in rapporto stretto con lo Shabbàt. Se non è Shabbàt c’è la manna, se è Shabbàt non c’è la manna.”
Ieri sera ho finito di divorare il libro e stamattina mi sono svegliato pieno di energia. Sono al mio undicimillesimo carattere e quasi non ce la faccio più. Mi devo alzare, mangiare un pomo e bere acqua dalla roccia, ehm, dalla boccia di vetro.
“Possiedo un’altra informazione: di Shabbàt non c’è la manna in assoluto, perché il venerdì piove doppia razione.” – pare quasi un sussidio governativo osteggiato dalla destra. La manna s’imputridiva a rimanere lì, ma se ne poteva mangiare doppia razione prima del mattino successivo (è solo una mia ipotesi).
“Elo(h)im benedisse il settimo giorno, e lo santificò.” – gli augurò il bene e poi lo rese immortale?
“Durante i sei giorni questo mondo era, filosoficamente e scientificamente parlando, indeterminato.” Parrebbe, ma lo dice solo la scienza umana, che ancora lo sia. Un ebreo tedesco di nome Albert disse che era definibile solo in un senso relativo, un punto di vista. L’unica certezza assoluta era l’insuperabilità della velocità della Luce nel vuoto. Poi un fisico – sempre tedesco, ma non ebreo, di nome Werner Karl – disse che tutto è fondato su un principio d’indeterminazione. Anche la luce? Non esiste un vuoto assoluto, perciò…
“La battaglia era tra Lui e l’indeterminazione: alla fine sembrerebbe che ce l’abbia fatta.” Quindi non era un forse un abitante delle stelle precipitato per caso da queste bande, come qualcuno assicura.
Se si è “paracadutati nella giungla senza preavviso: ne sei in balìa, libero mai. Se tu invece hai la possibilità di conoscere princìpi, puoi esercitare la tua libertà, che è anche quella di andare contro questi princìpi, magari cozzandovi senza nemmeno capire.” – a volte ho la sensazione che siano i princìpi a conoscere noi e non viceversa.
Per quell’ebreo geniale Dio era un immenso principio (di natura matematica). Di più non sapeva.
“È successo che al termine dei sei giorni Elo(h)im si è ritirato nel suo Shabbàt.”
Haim, tu suggerisci di “accettare questa semplicità, costringerci a scendere nel comprensibile più comprensibile. È la lente attraverso la quale possiamo capire qualcosa: sappiamo che esiste una complessità immensa” che ci fa strabuzzare gli occhi, per cui due modesti occhiali da sole non sarebbero di troppo.
“Colui che sono ha scelto per primo e non credo che abbia preferito faticare più del necessario, così abituato alla quiete eterna che l’avrebbe aspettato, fedele e pia, il settimo giorno.”
Per l’ottavo, poi, se ne riparlerà quando ce ne sarà bisogno. Ma quando le tre grandi religioni si metteranno d’accordo su quale sia quest’ottavo giorno sarà una grande festa per l’uomo.
“… l’adesione ai principi che in ebraico si chiama hattèva, la natura” è quel che ci serve per cercare di mettere in ordine, pur senza capire esattamente quali siano, i princìpi del cosmo.
Hattèva “ha stranamente la stessa ghematria, lo stesso valore numerico, del nome Elo(h)im. È come se al termine del sesto giorno Elo(h)im indietreggiasse e affidasse il mondo a hattèva, alla natura.”
Una curiosità ce l’ho: un Dio che fa un passo indietro, in un cosmo in cui non esiste un avanti e indietro, un sopra e un sotto, significa che è svanito nel Nulla? O che si è trasformato? Propendo per la prima ipotesi, ma giuro sul Suo Nome che non lo so.
“E lui ha fatto sì che si potesse ritirare e che questo ritiro fosse una benedizione, non una maledizione.” La sua benedizione è forse un suo estremo dono di Sé?
“Attraverso la complessità e la possibilità di relazionarsi con questa complessità. Non è ‘dove sei?’ ma ‘meno male che non ci sei!’”: l’essere umano può dirlo grazie a Lui.
Dopo Gaber tocca a Ramazzotti, che però volutamente traviso: Grazie di non esistere, quindi posso ri-crearti in ogni attimo della mia esistenza!
Dio “santificò questa Sua opera”, aggiungendovi sempre una nuova pennellata, lasciando agli allievi di bottega quest’arduo compito. Traduco molto avventurosamente il concetto che ho colto in queste tue pagine.
“La manna è tutto quello di cui l’essere umano si ciba.” – l’energia vitale che mantiene in vita, e “cadeva davanti alla tenda del giusto, un poco più lontano dalla tenda del meno giusto.” – sempre sia lodata la relatività. Forse il giusto aveva meno possibilità di sopravvivere, però poteva anche, come si dice a Reggio, scantêres, uscire dall’incanto del male, e sopravvivere più a lungo.
“È consolante che nella Bibbia si parli anche di un ottavo giorno. Una sorta di aldilà della manna.” Il mondo cambia se stesso, dopo essersi combattuto da solo, si riformatta e ripropone una nuova inizializzazione, una resurrezione, un eterno ritorno dall’Uno all’Uno.
“L’ottavo giorno è quello che in ebraico Aharìt haYamin”, che significa: “il dopo i giorni” cioè “esattamente il contrario della fine dei tempi”
A gh ē piò tèimp che véta!, più tempo che vita.
E se il tempo non esistesse? Forse questo è il suggerimento che riceviamo da Colui che sono. “Dopo la storia dei giorni inizia un’altra storia.” – a cui noi partecipiamo se non tramite la raccolta indifferenziata delle nostre particelle e molecole. La Morte mi pare questo. Un’equa ri-distribuzione di risorse.
“Esiste invece un momento dell’alimentazione: accludere dentro di noi, per elaborarlo, ciò che abbiamo seminato e che comunque il nostro ambiente offre. Mi sembra fondamentale imparare che esiste un’enorme differenza tra l’avere e il possedere.” Il possedere per sempre è uno scherzo che ci raccontiamo per non sentirci morire. È solo una mezza freddura, o poco più. La novella La roba di Verga è esemplare. Mazzarò c’est moi!

I demoni: “Con loro mi sono sempre chiesto se il problema fosse non farli entrare nel nostro mondo oppure, dal momento che forse lo hanno sempre abitato, di non farli uscire.”
Il virus, questo virulento e fatidico amico, la cui vis tanti lutti addusse agli achei… Sento che non sarà mai possibile eliminarli, semmai ridurne gli effetti. Ti dirò però che un mondo senza virus m’inquieterebbe.
Conviene leggere Il vangelo secondo Gesù Cristo di Saramago, semplice scrittura umana, ma assai simbolica perché il demonio non è forse così brutto come si presenta. O forse lo è, ma può servire: a Reggio si dice che a n gh è trést cavàgn che an vîn bò na volta l’ân: non c’è così triste cavagno (cesta di vimini) che non venga buono una volta all’anno (durante la vendemmia), e tutto svolge una sua funzione, quanto meno perché anch’esso si depositerà nella memoria.
“Per la tradizione di Israèl, la perversione è la società senza amore, la parola senza oggetto”, tipica “di un popolo senza terra”.
Che si chiama “Baal Peòr, il luogo dell’idolo e degli orfani” senza il Padre e la Madre, Dio e la Natura? Che non significa che siano spariti, ma che manca il collegamento, l’attrazione e la repulsione. La gravitazione diminuisce con la distanza, ma non è scritto da nessuna parte che si annulli. L’attrazione totale conduce al buco nero, ma Hawking ha dimostrato matematicamente, nel chiuso della sua stanzetta di studioso, che alcune radiazioni sfuggono continuamente dalla singolarità. Nulla può essere mai del tutto orfano di nessuno, questo è una mia fede residuale.
A me gli ebrei fanno veramente ridere: è quasi impensabile l’idea di eguagliare il genio comico di Groucho Marx e di Woody Allen.
Ogni tanto passo accanto a un mobiletto dello studio, dove tra le opere spicca, per voluminosità, La guida ai perplessi di Maimonide. Lei sa che prima o poi la leggerò e, mentre passo, mi pare che ammicchi e che mi sussurri: Allora? Ho sempre provato simpatia per questo pensatore ebreo che, a Fès, Marocco, riuscì a passare per un lungo periodo per islamico, finché non fu alla fine scoperto. Lo stimo per questo, perché avrei fatto lo stesso.
Padre Bergamaschi, il mio personal theologian, diceva che si poteva mangiar di tutto e vestirsi ognuno come gli pareva: l’importante era rispettarsi l’un l’altro. L’autorità religiosa lo estromise dall’omelia pubblica per lunghi anni, a cui fu riammesso qualche tempo prima di morire.
Tra i film di Woody uno dei miei preferiti è Zelig, un camaleontico genio in grado di trasformarsi in chiunque: è negro coi negri, obeso con gli obesi e riesce ad addirittura, d’emblée, a diventare rabbino, barba e tutto il resto. È una vera lezione di equilibrio mentale ed etico non tanto fingere di essere, ma calarsi nel personaggio e sentirsi amalfitano ad Amalfi (dove si dice che cà nisciunu è fess), cilentano nel Cilento (dove i ritti antichi nu fallisciunu mai, perché detti comprovati da sempre), reggiano a Reggio Emilia (dove piânšer fa trî e réder fa trî, per cui, tutto sommato, è meglio ridere). Ed ebreo quando leggo un tuo libro, Haim Baharier, per cui tento di recitare quest’intrigante parte, a cui mi sto affezionando, al fine di capire.
Rileggo varie volte quello che hai scritto: “L’israelita, tra i divieti dello Shabbàt, annovera l’ingiunzione di non scavare buche. Quindi non può seppellire, come mai? La risposta dei saggi è apparentemente semplice: perché scavando, giocoforza, si costruisce un monte di terra. E di Shabbàt non si può costruire.” Ecco perché Woody ha chiesto di farsi seppellire nei pressi di una farmacia, aperta anche nel weekend!
La sfida è un capitolo così ostico che non vedo l’ora di ammettere di non riuscire a produrre alcun commento. Per fortuna che è l’ultimo.
Sono reduce ora da un pranzo salvifico, a cui mi ero condotto a fatica, trascinandomi stancamente per le vie di Reggio, zona Santa Croce, per fortuna. Un primo di fusilli con olive, capperi e tonno; due cipollotti di Tropea grossi come il pugno di un babbuino; lambrusco a fiumi; due o tre etti di un rubizzo e acquoso melone rosso, poi ancora caffè e limoncello. E ora sono in piena forma!
Qualcuno ti chiede se puoi ipotizzare il sesto verbo.
Dopo svariati mesi glielo doni: È “parlare, … quando tu dai voce a Israèl, rischi di perdere i valori del silenzio, i valori di Rebecca.”, la madre di Giacobbe che “decide di non parlare.” Il suo “è il silenzio d’amore, e lui rischia, con la sua voce grossa, di soffocare le virtù dell’identità.”
Isacco, quasi cieco, riconosce la voce di Giacobbe ma crede che le sue mani, che lo stanno curando da tempo, siano quelle di Esaù. Devo dirti che quando penso a Isacco è sempre quel fantolino destinato all’olocausto. Immaginarlo vecchiereddo e patuto mi reca una fitta al cuore. Anche per lui vale il detto pixuntiano ca vicchiaia cavuze russe, le calze rosse, poiché riserva tante disgrazie.
Il parlare è un azzardo, perché si parla con l’Altro, con chi può essere il tuo antagonista. È sempre una relazione intima, dalle conseguenze imprevedibili.
E devi pure scegliere quel che viene dopo il decimo oggetto.
“L’undicesimo tra i dieci”: “è il kova tembel, ‘il cappello scemo’.”
Il mondo va sempre peggio, nessuno lo usa quasi più, nemmeno colà. Io sto cominciando a rivalutarlo.
Ti racconto una parabola, pardon, un aneddoto. Mio zio Mario era nato per fare il contadino. Fin da ragazzo, era il più bravo di tutti a potare, seminare, piantare, raccogliere, anche perché aveva più energia di chiunque e, soprattutto, più olio di gomito. Se ne fregava dell’etichetta cittadina: per lui la campagna era tutto. Ricevuto un giorno un cappello nuovo in regalo, se lo calcò immediatamente in testa e corse a faticare nei campi, sotto il sole cocente. A sera tardò un po’, come sempre, rispetto agli altri, e quando si ritirò dovette subire i rimbrotti da parte della mamma, non per essersi fatto aspettare, che era la norma, ma perché aveva bucato il copricapo. Se la cavò con una battuta delle sue, detta col viso serio: mentre l’era drê a lavurêr, a i ò fatt na ridûda e s’è ròtt!, mentre svolgeva le sue mansioni di agricoltore, s’era messo a ridere e il cappello s’era lesionato. Fu perdonato, l’importante era, per la comunità familiare, che continuasse a lavorare come sempre. E che avesse parlato, detto la sua, e soprattutto che non avesse risposto male.
Non sono riuscito a commentare nulla dell’ultimo capitolo, L’ultimo dei giusti, per cui mi vedo ridotto a chiedere aiuto al prossimo lettore. Però ora ci provo.
“La lettera”: mi ha colpito il fatto che un bottone non è un bottone ma “è una bocca che ingoia quattro uomini.” Anche una cerniera non è una cerniera, ma una ghigliottina in cui può rimanere impigliato un oggetto sacro, che non rientra nemmeno tra le prime diecimila parole-oggetti, ma ti assicuro che serve giornalmente.
“Intorno alla buca”: quando e “se moriremo qualcuno darà senso alla nostra morte e se invece non moriremo saremo noi a dare il senso agli altri.” – chi è morto giace e chi vive ne scriverà o ne parlerà, magari su facebook.
La storia della “brigata nera” è impressionante. Solo un accenno: “Fu un lungo cammino nelle interiorità della terra. Attraverso una galleria che nessuno aveva scavato.” Il protagonista è dunque questo nessuno. “Non rividero più l’Europa…” L’odissea, ma è forse meglio parlare di esodo, di questi fuggiaschi meriterebbe un film di tre ore o un romanzo di 837 pagine. Sospendo quindi il racconto.
“La lezione”: non so perché ora parli di me: “la scala per emergere dalla buca aveva infiniti pioli”.

Noi Pioli veniamo dalla Garfagnana, terra ricchi di boschi, specialmente di castagni. Il castagno, questo conosciuto, offre innanzi tutto cibo gratis a suini e a umani. E la sua scura legna scalda, serve a costruire scale, travi, pali, assi e assicelle, mobili, porte e imposte. Il suo era un legno che non subiva putrefazione, solido e puro, incorruttibile. Il succo ricavato dal legno, disinfettante, serviva poi per conciare le pelli degli animali cacciati. La bara era di castagno e accoglieva uomini e donne, ospitandoli nell’ultimo viaggio. Questo mi racconta la scrittrice Normanna Albertini nel suo romanzo storico Come spicchio di melagrana. Ovvio che anche noi Pioli siamo rigorosamente fatti di legno di castagno.
“Il popolo di Israele è un popolo che prospera quando si trae da sé. Soccombe quando è accompagnato prima, deportato poi.”
Dove attecchisce muore, e poi rimarrà nei secoli.
Il paese originario dei Pioli è, volendo essere precisi, Castelnuovo di Garfagnana. La provincia con più Pioli è Reggio Emilia, soprattutto Cavriago, l’unica città italica che ha un busto di Lenin in piazza, che anni fa qualche buontempone fece piangere sangue, come era capitata in quei giorni anche alla Madonna di Tarquinia. La nazione con più Pioli è l’Argentina, seguita a ruota dall’Uruguay. Questo significa che i Pioli sono un popolo errante, in cerca di doni. A disperderli non furono gli eserciti, ma il bisogno urgente di manna.
Io non penso di essere ebreo, ma da giovane mi chiamavano lo sparviero, per via del naso prominente e ficcante. Pare che sia stato un Pioli a ispirare Fedro per le fiabe che prevedevano un accipiter. Non dico altro.
Mia nonna, bellissima donna, non debole di naso, si chiamava Zuelli. Una volta lessi che poteva essere un cognome ebreo. Nonna paterna, purtroppo, ma fedele (spero).
Questo libro mi ha ancor più convinto che una gran parte dell’intelligenza umana abbia un’origine mediorientale. Sarebbe interessante studiarla con profondo rispetto, senza mai dimenticare la muta lezione di Rachele.
Borges disse che la memoria è fatta di oblio. La parola è d’oro, perché è composta da una serie discontinua di silenzi. E ora taccio, ma non sarà per sempre.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Haim Baharier, Il cappello scemo, Garzanti, 2021
2 pensieri su ““Il cappello scemo” di Haim Baharier: arca in antico ebraico è tevà, parola”