La casa dei Tarocchi #12: Appeso in attesa di cosa?
Scrive Giordano Berti nella prefazione a “Vit(amor)te” che senza dubbio “nelle arti tutto si rinnova sistematicamente a partire da ciò che preesiste: nella musica, nella danza, nelle arti visive, nella letteratura. Tra gli esempi più mirabili di questo continuo rinnovarsi, il Gioco dei Tarocchi è assolutamente emblematico”, e rimescolando le carte comprendiamo il Gioco della Vita.

Da dove arrivano i 22 passaggi di questa danza immaginale?
“Volendo datare un oggetto in una forma ben definita” scrive ancora Berti “si può dire con assoluta certezza che i Tarocchi nacquero nell’Italia del Nord nei primi decenni del Quattrocento. Erano un raffinato gioco di Corte, perché quelle immagini evocavano pensieri lontani dalla gente del popolo. Ben presto divennero un gioco d’azzardo e tuttavia i giuristi lo definivano in modo ambiguo dato che nel gioco dei Tarocchi si può vincere anche con pessime carte… come in guerra”.
L’Appeso. Appeso in attesa di cosa?
“Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie” nella poesia di Ungaretti imparata a memoria da tutti gli scolari.
Si sta come panni ad asciugare, coi sentimenti al vento, sbattuti nel vuoto come le lenzuola sulle quali gli amanti han goduto i corpi, là dove Eros incontra e abbandona e ancora ritrova la sua Psiche nell’eterno ritmo della vita e della morte. Ed è lo stesso memento del pianto, quel telo degli umori erotici, è il medesimo sudario tombale, la sindone dell’amore.
Si sta sospesi in loop, come una navicella che si inceppi nel viaggio temporale e non riesca a tenere accese le luci della coscienza e si faccia prendere dalla nostalgia – il Pothos del Puer di James Hillman – per ciò che non è più. La macchina del tempo non può andare né indietro né avanti ed è fissata come una farfalla con lo spillo nel momento hic et nunc. La Mindfulness ci invita a sostare consapevolmente nel ‘qui e ora’. Per farlo bene e per farlo dinamicamente, per stare appesi pienamente occorre però comprendere la dinamica della presenza: se ci manca la terra sotto i piedi, se si è bloccati nell’adesso in assenza di sé, non si è al centro. Piuttosto, non si è. Non si va proprio da nessuna parte, in attesa di vivere perdendo l’esistenza.
Per stare appesi, la regola è imparare a essere la propria casa.
Si sta appesi come scimmie ai rami degli alberi, indolenti nella calma selvaggia e assolata di una foresta verdeggiante, senza attese.
Si sta come pipistrelli, chirotteri neri che a testa in giù riposano il giorno in attesa della notte e non gli gira mica tutto, e non gli va il sangue agli occhi come a noi, da bambini, quando dalla rete di corda al parco giochi ci si lasciava andare con le braccia tese verso il suolo, le ginocchia salde e i piedi avvinghiati al ferro della struttura, beati del mondo visto al contrario. In attesa della sete, della fame e del sonno, in attesa della voce delle madri.
Resta appeso per sempre l’impiccato in pubblica piazza, il criminale salito al patibolo di fronte alla folla incalzante – “A morte! A morte!” – quando il boia solerte gli toglie lo sgabello di colpo e lui cade giù, e si dimena con il membro eretto per reazione incontrollata, con gli occhi fuori dalle orbite nello stupore assoluto. In attesa del Paradiso o dell’Inferno. Amen.

Appeso è senza dubbio l’abile trapezista, nell’equilibrismo aereo dell’equilibrista che ha fiducia nel vuoto. Si sta come Philippe Petit, mimo e giocoliere, che il 7 agosto del 1974 attraversò a passi misurati e precisi lo spazio tra i grattacieli del World Trade Center, ed è appeso ancora oggi in quel là-e-allora perenne, immortalato nelle fotografie in bianco e nero decenni prima che una mano invisibile girasse la carta numero sedici – Maison Dieu! – e facesse precipitare al suolo non il funambolo ma le Torri Gemelle. Ground Zero. Si ricomincia dal Matto.
Appeso è Pinocchio sull’albero grande, nella notte di stelle oscillante, deluso, frignante, tradito perché un po’ se lo è meritato. Nell’attesa di trasformarsi in un bambino vero, il burattino sta, con ancora tanta strada da fare e patimenti da patire, e riflessioni da riflettere.
Sospeso è Odino sull’albero santo, sacrificato; si dona alla prossima carta senza paura. Si offre al vuoto d’attesa, un piede legato a Yggdrasil. Appeso è Giuda, legato alla sua colpa con trenta denari di sangue, ed è anche il Cristo appeso al legno in tutti noi cristi, perché ognuno ha la sua croce da portare e un cambiamento da scegliere. Si va al Sé grazie all’abbandono dell’Io: è il momento giusto per appendere noi stessi al Pathos. Forza e coraggio.
Appeso è il feto nel ventre della gestante, legato nove mesi al legame di cordone e una vita nel ruolo di figlio o di figlia, nutrito agli albori dal caso o dal desiderio di senso, neo-nato.
Gli appesi sono tanti, milioni di milioni, come le stelle, e sono ancora tutti appesi lì nella dodicesima carta tra la Forza e la rinuncia al nome: restano, in attesa di cosa.
Quelli che sono stati appesi
Il tempo dell’Appeso sembra prolungarsi all’infinito. L’anno 2020 è stato l’anno in pendenza. Appesi tutti, bambini e insegnanti, impegnati davanti allo schermo. C’era un tempo in cui DAD voleva dire solo ‘papà’ in inglese – così ha scritto qualcuno su Twitter – mentre ormai la questione ci riporta alla bidimensionalità della presenza online, un esserci ‘a distanza’ che abbiamo sperimentato soprattutto grazie alla pandemia, sospesi lì in massa senza sapere quando sarebbe finita, vicini ma lontani nel motto “andrà tutto bene”, (forse) perché si possa poi dopo abbracciarci meglio: il penzolare dalla fune non è mai stato più collettivo di così, negli ultimi decenni.
Appesi siamo stati a migliaia, attaccati ai numeri del contagio, ai morti, alla mancanza d’aria, alle notizie del telegiornale; pendenti dalle labbra dei virologi-star protagonisti sulla scena.
Sappiamo che gli Arcani Maggiori sono mediatori della psiche collettiva, sono spunti vitali giunti a noi dalle corti del Rinascimento, immagini archetipiche che ancora oggi hanno storie da raccontare.
Nel mazzo dei Tarocchi c’è un protagonista perfetto per narrare la sospensione, il simbolo che tiro in ballo oggi nella mia Casa dei Tarocchi per offrirvi una pennellata arcana.
L’Appeso (carta numero XII) porta in dono elementi psichici che possono aiutarci a dotare di senso della misura i fatti del nostro quotidiano.
Trionfi, Lame, Tarocchi, Arcani: questi sono i nomi delle fiabe che attraversano i secoli sopra ventidue cartoncini colorati, dei miti che si lasciano cogliere da scrittori e artisti. E allora, per noi, l’equilibrista che se ne sta (s)comodo nella sua parentesi tonda abita la stanza di una nuova possibile, auspicabile consapevolezza.

L’iconografia dell’Appeso ci indica lo status di sosta e al contempo il coraggio di mutare la prospettiva. Come sarà il mondo, visto al contrario? Ribaltare le abitudini è un tormento che si può rivelare occasione, perché fare i conti con i limiti diventa opportunità di conoscenza: guardiamo a testa in giù quel che non avevamo visto prima, da dritti. Che cosa ha da dirci il funambolo, impiccato nell’impiccio del sovvertire le consuetudini? Ascoltiamolo.
La carta dell’Appeso sta bene nel ‘qui e ora’, perché il suo messaggio è chiaro: possiamo imparare il paradosso, scoprirci comodi nella posizione insolita dell’attesa. Ogni feto si sviluppa e cresce dentro lo spazio potenziale, è un dialogo che nasce nell’area di transizione tra me e te, un fiore che va spuntando nella stagione giusta, sarà il bambino vero che si scopre alla fine della storia o l’assassino che si svela dopo la suspense. Sarà il termine che, si sa, è sempre nuovo inizio di qualcosa.
Se può essere d’aiuto, l’Appeso non ci pensa due volte a insegnarci l’arte della sospensione.
Nella mia silloge poetica illustrata, l’Appeso è donna. Signorina capace di mantenere l’equilibrio tra gli astri, in mano ha l’uovo da covare come una Papessa, cosciente del tempo e dello spazio, medita sul ciclo del Mondo.
Written by Valeria Bianchi Mian
Bibliografia
Alejandro Jodorowsky, La via dei Tarocchi
James Hillman, Saggi sul Puer
Claudio Widmann, Gli arcani della vita
Info
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