“Le spiagge che cambiano gli uomini” di Alberto Bagnulo: l’anima è a volte bifronte
Uno sciamano cerca d’immergersi nell’anima altrui e di riportare a galla, di fatto estraendolo, il Male che patisce l’uomo che è in cura con lui. Tale è il compito dello scrittore, che tenta di curare quella parte ancor sconosciuta di se stesso, che è altro da sé, ma con sé. La sorte poi provvederà a fornire a questa figura terapeutica le tecniche adatte a ridurre il male, dopo che lo stesso è stato interiorizzato e prima che esso conduca alla morte dei due soggetti in causa: personaggio/autore (ammalato/terapeuta).

Nel caso della scrittura la faccenda si complica quando interviene il tertium non datum, che qui è invece auspicabile, che diventa un quartum, un quintum, all’infinito: ogni lettore che s’immerge nella storia, o accede al sentiero, borgesianamente, aggiungendo sé all’Altro che è stato riprodotto e re-inventato in un testo. Tutto è finzione e nulla lo è.
“Spesso il male di vivere ho incontrato”, cantava melanconicamente Montale, tanto per menzionare un autore scelto non a caso. Tutto è caso, e nulla lo è.
Il romanzo di Alberto Bagnulo è costruito su quegli algoritmi che sono le citazioni, che cadono in genere nei discorsi diretti che occorrono nei dialoghi fra i personaggi.
Il preferito? Questo è… ovvio, direbbe Totò: “Il mio Baudelaire…”, che diceva “‘Chi non beve vino’ (aggiungo io: assieme alle ostriche) ‘ha qualcosa da nascondere.’” – lui, Vanni Cannas, il protagonista, beve solo birra sarda ghiacciata. Quindi?
Quindi non bisogna mai ordinare del pesce e acqua minerale, come ha fatto invece qualcuno.
A volte sono i logaritmi sono di tipo antico: “Frustra fit per plura quod potest fieri per pauciora”, ogni volta opportunamente tradotti. Lo stesso occorre per le locuzioni volanti in sardo, del resto abbastanza comprensibili per la loro origine più latina che fenicia.
Giunto a Livorno, per imbarcarsi verso la Sardegna, Vanni Cannas compie una violenza gratuita nei confronti di una ventenne, che “poteva anche essere una prostituta della zona del porto, ma poco importava” allo stupratore, la cui “mano destra, ricoperta da un guanto, premeva sulla bocca della ragazza, che dopo pochi secondi svenne a peso morto tra le sue braccia.” L’infame, penetrandola da dietro, “le eiaculò dentro copiosamente”.
Un’analoga atrocità capita a un’altra donna, passeggera come il suo boia. Sia lei che il suo accompagnatore sono ammazzati da Vanni, con atteggiamenti che sconfinano nell’indifferenza.
Si ignorano i motivi dei due efferati delitti, il primo dei quali è mostruoso, poiché, dopo circa un minuto di penetrazione, l’impietoso assassino “venne copiosamente senza un gemito, mentre con entrambe le mani ricoperte dai guanti la strangolava.”
Prima di uscire, egli saluta il cadavere di lei, dicendole: “Do svidanija”.
Alla fine di ogni capitolo, è inserita una poesia di Vanni Cannas; dopo l’abominio, la laude è dedicata alla madre.
Il criminale, dotato di una doppia natura, possiede alcune abitudini, alcune delle quali accettabili: per esempio affibbia soprannomi ai colleghi, che sottolineano per lo più una caratteristica negativa o ridicola.
Il suo humour è paradossale o si presta a giochi parole: “… i dottori portano i guanti per non lasciare impronte!”, oppure: “Mi sono laureato d’inverno, con 110 e loden!”, che diventa il suo soprannome d’ora in poi. Infine il quasi orrido: “Vasectomia significa non dover mai dire mi dispiace…” – detto a chi non si preoccupa delle infezioni, ma di rimanere incinta (Vanni ha “fatto la vasectomia”).
Egli si definisce “diversamente vegetariano”, quando ordina “un po’ di spaghetti alla carbonara e dell’arrosto di maiale con l’immancabile purè degli ospedali”.
Egli è un medico che lavora all’ospedale, che è acutissimo nelle sue diagnosi, in cui inserisce talvolta citazioni letterarie: “Più o meno il cinque percento, ma, come Conan Doyle faceva dire a Sherlock Holmes: ‘Eliminato l’impossibile, quello che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità’.” – alla fine la previsione si rivelerà azzeccata.
Alla fine del settimo capitolo, è inserito un haiku (in realtà con più sillabe e numero di versi di quelli classici nipponici), che è un subliminale riferimento a Jack Kerouac, autore altrove, nel romanzo, citato.
L’autore, ex primario di un ospedale della provincia reggiana, permette al suo eroe di abbondare nella fraseologia medica: “un valore di D-dimero decisamente elevato” e “un’importante attivazione emocoagulativa nel paziente”, oppure: “il successivo mixtest confermò tale ipotesi, con la presenza dell’inibitore antiattore VIII della coagulazione ad alto titolo. A quel punto, l’ammirazione nei confronti di Vanni da parte delle infermiere di turno quella notte, era alle stelle.”
Al suo confronto, gli altri medici, eccetto il primario, si rivelano sbadati, incoscienti e pressappochisti: in una parola, menefreghisti.
Vanni, col suo cipiglio, incute rispetto e fa quasi paura, per cui anche per il recensore-reagente vale il consiglio di non litigarci: “Vanni tirò dentro lo studio il dottor Orrù e, dopo averlo immobilizzato al muro semplicemente stringendolo con una mano al collo, gli disse con voce calma e profonda come gli Inferi: «Senti, infinita testa di cazzo e figlio di puttana, se da qui in avanti…»”, e continua la minaccia che culmina con una promessa di omicidio in caso di ulteriori fastidi psicologici.
Estrapolo la chiusa della poesia che fa da coda al capitolo ottavo: “Sì la vita è una gita/ una gita complicata.”
L’esistenza del protagonista fu problematica fin dall’infanzia, a causa di una madre assente, e di una sua destinazione in tenera età in un collegio in quel di Bologna, lui che era sardo del sud, di Calasetta, per essere precisi.
“Sei un’enciclopedia, Vanni.” gli dice Barbara, la quale si rivelerà la più amata fra le sue amanti, quando lui le comunica all’istante l’etimologia del nome della birra sua non solo preferita: la bevanda sine qua non si apprezza la vita.
Tra l’altro il marito cornuto della tipa è un dirigente della società che ha inglobato nel 1986 la sottomarca, già sarda, ora di fatto olandese, come la Fiat.
Da annotare: Vanni tende all’ejaculatio precox, riuscendo a risolvere in parte tale inconveniente con l’assunzione di un antidepressivo.
Personaggio in fondo crepuscolare e pessimista: “Vanni, alla fine, ordinò un caffè lungo e amaro come la vita…”
Ecco un dialogo tra l’imprevista, fortemente voluta e improvvisata amata e l’ambiguo essere:
“Ti amo, Vanni. Dimmi che quando mi lascerai resteremo almeno buoni amici…”
“Ora so che ti amo anch’io, ma sono tra quelli che pensano che tra un uomo e una donna possa esserci solo ostilità o passione e amore, tutto tranne l’amicizia.”
Con Lei Vanni riuscirà a durare qualche minuto in più.
“… ho finalmente capito che se amo veramente una donna, voglio possederla senza più staccarmene, ed è per questo che non ho fretta di venire…”
“Questo è il più bel complimento che ho ricevuto nella mia vita.”
Mai conosciuto una donna dalla vulva più elastica.
Barbara, a cui Vanni, a seguito di un episodio in cui hanno entrambi rischiato la pelle, ha dovuto rivelare la sua doppia professione (spia-killer e medico-internista), gli pone una domanda inquietante: “Come riesci a fare il giustiziere e allo stesso tempo il medico, a curare e salvare le persone?”
Lui, per nulla inquieto, le risponde prontamente: “Non è difficile per me, Barbara. Un lavoro mi permette di decidere chi non merita di esistere, l’altro, invece, chi lo merita. Si chiude il cerchio.”
Non è proprio così, Vanni, gli direi io: per il primo devi attendere ordini precisi e inderogabili dall’alto, la fantomatica associazione segreta, fatta eccezione per saltuarie tue iniziative personali.
Per il secondo dipende maggiormente dal caso e dalla tua abilità di diagnosta: due destini diversamente stringenti.
Vanni oltre che rivelare un’ottima capacità di analisi interpretativa, esibisce anche una sorprendente umanità nei riguardi dei pazienti, che talvolta quasi lo adorano.
Il racconto snocciola uno dopo l’altro un’innumerevole serie di casi in cui Vanni s’imbatte, senza soluzione di continuità, nel corso del suo turno notturno.
Il linguaggio, a volte sboccato, dà l’idea di come sono le cose, come quando l’autista di un’ambulanza dice che la sua vettura “è come il buco del culo, si apre e si chiude, emette suoni e, in ogni momenti, rischi di fare un frontale con uno stronzo…”
Il malessere di cui soffre Vanni si acuisce dopo che Barbara ha scoperto la doppia, rischiosa e a volte efferata vita di Vanni.
Lui le spiega che tutto è relativo: “E tu, in quale mondo pensi di vivere? In uno migliore del mio? Sei immersa, senza nemmeno rendertene conto, in un mare di corrosiva corruzione, dentro un sistema di….” e continua con la sua filippica.
Egli riesce a far convivere la sua missione salvifica di medico con quella di possibile assassino. Ha ucciso più di una e meno di dieci persone. E ammazzerebbe senza dubbio per lei.
Significativa è la poesia che chiude il capitolo undicesimo. Estrapolo alcuni fra i più chiari versi, quelli che meglio racchiudono quel che si ignora e che è celato:
“Io non so perché venni al mondo/ né come né cosa sia il mondo/ né cosa io stesso sia.” – che è l’inizio del carme.
“Io non vedo altro che infinità/ che mi assorbono come un atomo.” – che è la sua rassegnata chiusa.
L’atomo soggiace alle stesse interazioni che condizionano l’infinito, di cui è parte, forse un mero frattale, forse qualcosa di leggermente diverso.
L’arcano che si sa di non sapere è al di là nei due sensi, nell’assurdamente distante e qui, nell’esageratamente prossimo, due condizioni estreme che ostacolano ogni visione, senza però negarla.
“Vanni sapeva bene come non fosse contemplata la possibilità di contraddire un ordine.” – regola sine qua non si vivrebbe più: perché si diventerebbe l’errore di sistema, la cellula maligna da stroncare.
La sua auto è “grigio-ghiaccio”: Vanni corrisponde alla mia immaginazione dell’ossimoro ghiaccio bollente.
È ricco di umanità, emotivo, controllato, cinico.
Barbara è scherzosa, emotiva, fredda, coraggiosa.
A entrambi piace mangiare, bere bene e fare all’amore. Secondo me anche all’autore.
Ora i due colombi sono in missione speciale in Norvegia e lui non può ordinare la sua amata birra sarda, ma gli capita di pensare “che le parole di Barbara fossero tutt’altro che sincere.”
Anche lei ogni tanto riceve telefonate, che non sono della mamma. Anche lei ha una doppia vita, che non può rivelare a Vanni.
Da un punto di vista erotico, il rapporto fra i due va benissimo, tanto che lui non soffre più di eiaculazione precoce, nemmeno ritardata, “bensì completamente bloccata”.
Al che lei si dà da fare amorevolmente (e manualmente) per farlo finalmente venire.
Una delle vittime predestinate dall’organizzazione da cui dipende Vanni, è ammalato di AIDS. Vanni, anziché ucciderlo con le sue mani, da medico coscienzioso qual è, gli diagnostica una morte fastidiosa e imminente, e gli ordina tranquillamente d’impiccarsi, che poi avrebbe controllato entro un’ora l’avvenuta posologia, che occorrerà effettivamente nei tempi previsti.
“‘Tu sei o’ dottore…’ mormorò Ciro, prima di congedarsi. ‘Bravo, hai indovinato. Fai allora come ti ha detto il dottore…’ Ciro Riccio seguì il consiglio del medico.”
Vanni spiega alla sua Barbara, “… ho trascorso i primi vent’anni della vita a cercare disperatamente la normalità e un equilibrio, prima di capire che dovevo accettare il fatto di non essere normale né, tantomeno, equilibrato. Solo questo mi ha permesso di poter finalmente trovare quel minimo di pace interiore che mi facesse tollerare un giorno in più della mia esistenza, senza affannarmi nell’inventare continuamente un qualcosa per cui valesse la pena e la ragione di vivere…”
Un caso da letteratura medica dalle implicazioni notevoli.
A chi gli ricorda che il suo mestiere di medico “sottopone a frequenti elaborazioni di lutti”, egli risponde: “Lo so, professore, ma per la morte di qualcuno riesco a farmene una ragione, per quella di altri non è così…” – un diversamente assassino diversamente compassionevole.
Il suo ammalato più caro, Alissiu, gli augura: “Deu t’èschia a ghia!” e lui, “uscendo dalla stanza, pensò che se Dio esisteva, avrebbe dovuto guidare Alissiu nell’Alto dei Cieli e non lui in quest’infernale vita terrena, dove a guidarlo non poteva essere che l’irrazionalità del sentimento e dell’istinto, contemporaneamente, però, alla razionalità del suo maledetto intelletto.” – e, in ambedue le funzioni cerebrali, egli rappresentava un’imbarazzante eccellenza.
Le braccia di Vanni sono colme di tatuaggi, anche perché per la filosofia Maori “l’uomo che non è tatuato, non può essere visto dagli dei”.
Il braccio destro presenta simboli di razionalità (“L’ancora e il timone”), poi, più su un “lupo ringhiante”, infine “un geco, che rappresentava la sua capacità di adattamento”; a sinistra spicca un “faro con la barca a vela nel mare blu sottostante, la spiaggia caraibica con il tuffo dei delfini, la balena, lo squalo maori e il ritratto del capo indiano dal viso fiero.”
Barbara e Vanni pensano di amarsi. Lei “con lui avrebbe voluto vivere ciò che il destino le aveva rubato, la giovinezza e, assieme a essa, la libertà e la leggerezza che le appartengono.”
Condizioni che non abbondavano nemmeno nell’esistenza di Vanni.
Vanni ha da poco scoperto che sua madre non era scappata con un altro uomo, ma era stata atrocemente uccisa dopo aver subito una violenza sessuale.
La nuova consapevolezza pare indirizzarlo ora verso arcane vie esistenziali.

Dopo un occasionale incontro erotico con una barista, un incolpevole (ai propri occhi) Vanni pensa che “un’altra faccia del cubo si era materialmente ricomposta e riequilibrata; ora, anche per lui, le donne potevano essere serenamente amate, fisicamente e non, ma mai odiate e punite.”
Vanni rimane oppresso da un bisogno cogente e frequente di fare sesso. Si dà una spiegazione: “… doveva essere semplicemente un altro mezzo per scaricare la continua tensione generata dal non comprendere il senso dell’esistenza…”: insēro ergo sum!
“La mattina della domenica, Vanni si svegliò solo. Barbara era già uscita. Pensò che anche quella settimana stava finendo e ciò lo consolò alquanto.” – come se attendesse la fine di un periodo di reclusione limitato nel tempo.
Grazie a un amico della Polizia scopre, grazie all’esame del DNA, chi è l’assassino della madre.
Per un caso che capita frequentemente nei romanzi, si tratta dello stesso individuo ricercato dalla sua organizzazione segreta: “… quella era la prova dell’esistenza di un burattinaio, il quale, da qualche parte dell’universo, giocava ai pedoni sulla scacchiera della tua vita.” – qualcosa di simile a un karma a cui nulla sfugge.
Questo dovrebbe preoccupare Vanni, che invece non mostra alcun rimorso per i delitti e le violenze commesse.
La stessa sera però, dopo il solito lauto pasto, preceduto da “uno strepitoso antipasto misto di carpaccio di pesce”, Vanni sorbisce l’ennesimo “caffè lungo e amaro come la vita.”
Dopo aver atteso “pazientemente l’ora del tramonto” di “martedì 14 agosto”. Vanni compie il solito delitto mirato: “… strappò la sottoveste di Polina e la violentò stringendole il collo con una mano, fino a che lei non esalò il suo ultimo respiro.”
Polina era la segretaria/amante/tuttofare dell’assassino di sua madre, colpevole di… che cosa?
Di essere convivente e “polo affettivo” del nemico da uccidere.
Subito dopo, Vanni torna in reparto per il turno notturno, in cui il medico violentatore e criminale esercita le sue funzioni con rara competenza e dedizione.
Vanni parla chiaro con Barbara: “Ho ucciso e uccido, ed è quello che farò anche questa volta, ma non da agente segreto. Lo farò come Vanni Cannas, non so se mi capisci…”
Alla successiva obiezione di lei, sa meglio spiegarsi: “Barbara, io sono soltanto una scorciatoia meno sofferta verso l’ineluttabile.” Segue una lunga tiritera sulla vita e sulla sua irrimediabile fine, “… e a quell’attimo tu giungerai dopo esserti creato tutti i giorno un obiettivo, importante o del cazzo che sia, per andare avanti, per arrivare a fine giornata e ricominciare con qualcosa nella testa il giorno dopo.”
Un’esistenza densa di scopi orientativi, senza di cui essa rimarrebbe priva di senso.
Obiezione di lei: “… secondo me la morte degli altri ci rende solo più consapevoli del nulla che ci attende. È ingiusta ed è ingiusto rincorrerla.”
Risposta inappellabile di Vanni: mentre la morte degli altri è una “illusione masturbatoria”, e “solo la propria può rendere giustizia al tremendo impatto che ha sulla singola vita di ognuno di noi. In questo senso, la morte è giusta…”
Qui l’autore preferisce non ricordare, o non rammenta per distrazione, la chiusa di una celebre lirica di Ungaretti: “la morte si sconta vivendo”.
L’ultimo omicidio, ritenuto dannoso per l’operazione prevista dall’organizzazione a cui appartengono sia Vanni che, celatamente, Barbara, costringe Vanni a un esilio a tempo determinato in Portogallo, dove, tra l’altro, è costretto a sorbirsi birre diverse da quella che predilige e dove incontra per caso la bellissima Madalena che non prima di essersi concessa, ma dopo un po’, gli rivela di essere una spia facente parte della sua medesima organizzazione, motivo per cui l’ha dovuto tenere d’occhio.
Per farsi perdonare, lei si concede una seconda volta, dopo la prima che era parsa casuale, subendo anche una sodomizzazione, tanto che alla fine gli dice: “Wow, Vanni, eu echo que te paguei o suficiente!”, al che lui ammette di essere fisicamente soddisfatto.
Quell’atto desueto fu svolto a suo tempo anche nei confronti di Barbara, la quale si era limitata a dirgli: “Sai, sei il primo anche in questo, mi hai sverginato la seconda via e mi è piaciuto…”
Anche in quell’altra occasione lei fu prodiga di complimenti: “Sai, è la prima volta che ho un orgasmo vaginale, non è normale.”
La coppia Vanni-Barbara, rispetto a quella Vanni-Madalena ha un vantaggio incolmabile: il frigo della prima, anzi, la sua casa “è stracolma di” quella birra sarda che Vanni tanto ama, purché gelata.
In Portogallo purtroppo, sia con Madalena che con la birra, si deve adattare: merito del geco?
Vanni viene richiamato in patria, dove decide di procedere alla messa in stato di accusa dell’assassino della mamma, nonché nemico pubblico da neutralizzare.
Dopo di cui si eclissa, a tempo indeterminato (ma prima o poi tornerà) in un Altrove qualsiasi, e poteva andargli peggio: “Vanni Cannas si nutriva della linfa vitale della Val Gardena e anche di crafuncins e gröstl.”
Nel frattempo, vari arresti e omicidi erano occorsi ma erano in quell’altro luogo, a cui non stava al momento pensando granché.
Ma, prima o poi… tornerà… a combattere le sue infernali battaglie, in corsia e all’esterno, temo.
Il romanzo si chiude coi pensieri che vengono in mente a questo uccisore/benefattore in vacanza, mentre rimira il volo maestoso di un’aquila, e sono i versi immortali con cui l’amato Baudelaire rappresentava il suo sé, al contempo goffo umano e fulgido poeta, l’albatro, che vola dentro ognuno di noi, senza che molti ne siano consapevoli.
Quali sono le spiagge che cambiano gli uomini? Se esistono sono sicuramente quelle sarde. Quel che conta è essere predisposti al nuoto come dimostra d’esserlo Vanni.
Definizione finale della persona Vanni Cannas: non ne ho.
A volte mi ricorda certi personaggi che, pur oppressi da un male oscuro, s’illudono di possedere certezze, salvo, prima o poi, ricredersi. È una Bestia, né simpatica né antipatica, ma soprattutto non empatica, che tanto soffre e ancor di più fa soffrire, senza quasi soluzione di continuità. Che prima o poi verrà abbattuta.
Ignoro però se l’autore, così onnicomprensivo a descrivere l’anima gemente di Vanni Cannas, abbia in previsione eventuali deroghe della pena, che gli consentirà di narrare altre allucinate storie.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Alberto Bagnulo, Le spiagge che cambiano gli uomini, Bookabook, 2021