“Il teatro illimitato – Progetti di cultura e salute mentale” a cura di Cinzia Migani e Maria Francesca Valli: alcune citazioni tratte dal libro
“Infinire: voce del verbo ‘non smettere mai gli orizzonti’. Impossibile? Sì, e lo si deve fare, l’impossibile. Nel processo delle cose, chi si costituisce parte civile? Esiste una parte incivile? Forse quella che non cambia i suoi mai. L’arte della malattia muta, ma non zittisce: scandisce. E come musica, a suon di corpi, spazia. (Chissà se si riesce a capire che fare il possibile non serve più) È follia? Sì, ma pura.” – Alessandro Bergonzoni

“Il teatro illimitato – Progetti di cultura e salute mentale” è stato pubblicato nel settembre 2012 dalla casa editrice mantovana Negretto Editore ed è stato curato da Cinzia Migani e Maria Francesca Valli con la collaborazione di Ivonne Donegani. La copertina è stata curata da Silvia Camporesi; all’interno del saggio sono presenti fotografie a colori di Alessandro Zanini, ed in bianco e nero di Massimiliano Gerbi.
La Prefazione “Scene da una istituzione: quattro atti su scienza, teatro ed inclusione” è stata curata da Angelo Fioriti, in apertura la riflessione già citata del comico ed attore teatrale Alessandro Bergonzoni, e l’Introduzione delle due curatrici. Consta di sette capitoli ognuno così denominati: “La vocazione al teatro della promozione di salute”, “Narrazioni dal progetto regionale Teatro e salute mentale”, “Il talento paziente ed il lavoro sull’attore”, “I nuovi luoghi del teatro”, “Fra le quinte ed il set il valore del processo”, “La valutazione di progetti tra arte e cambiamento”, “Indicazioni per costruire possibilità: dall’esperienza teatrale alla creazione di prassi”.
Sono svariati i collaboratori presenti nel volume che, con grande impegno, hanno fornito il loro contributo esperienziale per concretizzare la possibilità di volare alto, di uscire dai confini della sofferenza puntando sul talento che ognuno di noi possiede e con il quale è possibile riappropriarsi della salute mentale.
In ordine di apparizione, i relatori presenti nel saggio sono: Horacio Czertok, Filippo Renda, Francesca Cigala Fulgosi, Angela Tomelli, Massimo Marino, Nanni Garella, Rosa Ambrosino, Franco Giubilini, Paola Longhi, Rossella Cocconi, Roberto Bosio, Annalisa Vigherani, Andreina Garella, Lucia Vasini, Michele Zizzari, Sara Gorza, Rino Bertoni, Marco Martinelli, Ennio Sergio, Monica Franzoni, Matteo Davide Scorza, Maria Cristina Lasagni, Claudio Ravani, Lucio Pederzoli, Marino Pedroni, Augusta Nicoli, Francesco Romeo, Luigi Palestini.
Alcune citazioni tratte dal libro
“Nei vecchi ospedali psichiatrici spesso si trovavano dei piccoli teatri, utilizzati per spettacoli di intrattenimento, per feste e ricorrenze, talvolta per le attività interne di riabilitazione e socializzazione, quello che si chiamava il moral treatment. Quasi mai il pubblico esterno era ammesso e tutto si consumava nel piccolo mondo isolato dell’ospedale psichiatrico.” – Angelo Fioriti
“Trieste, 1976, il collettivo basagliano dà vita a Marco Cavallo, brillante operazione scenica, comunicativa e piéce teatrale straordinariamente moderna, tanto da essere ancora ritualmente ripetuta, anche se con smalto non sempre intatto. Vedo le immagini, le foto di quella processione guidata dal cavallo blu che attraversa i viali del S. Giovanni, che scende nella città, che irrompe nella normalità della città borghese e mitteleuropea, la surreale provocazione.” – Angelo Fioriti
“Ciò che il lettore troverà nel libro sono le narrazioni di persone che hanno superato le fatiche quotidiane, o hanno imparato a sopravvivervi, per costruire comunità di appartenenza solidali e che nel progetto hanno avuto la possibilità di incrociarsi. È una storia che permette, infine, di ripensare la gestione della quotidianità professionale e di riflettere sul ruolo dei servizi, ma anche di confondersi nella magia dei cambiamenti che è possibile attivare con l’arte e il teatro nelle persone che vivono condizioni di sofferenza psichica.” – Cinzia Migani e Maria Francesca Valli
“Il problema quando pensiamo al teatro è che utilizziamo immagini, linguaggio e strumenti vecchi per studiare e conoscere un fenomeno che ai nostri giorni si manifesta diversamente. Non siamo noi a decidere quale teatro è appropriato alla nostra epoca, è la nostra epoca a farlo: per essere in grado di diventarne interpreti dobbiamo adeguare i nostri strumenti e le nostre capacità di lettura e azione. I cambiamenti nella tecnologia della comunicazione hanno determinato quelli – laddove possibile – della funzione antropologico culturale del teatro.” – Horacio Czertok, Teatro Nucleo

“Solamente impegnando le esperienze, i vissuti e le particolari capacità dei pazienti potremo contribuire a riabilitare il teatro come linguaggio contemporaneo. Gli spettatori potranno ritrovare qualcosa di proprio anche loro grazie a noi, e potranno fare ciò perché in quest’ambito il teatro può vivere la vita speciale distillabile da questi vissuti, dalle intuizioni che nascono dalle loro visioni. Ognuno dei nostri pazienti, per le esperienze che ha dovuto attraversare, percepisce con organi propri ciò che viene dato per scontato.” – Horacio Czertok, Teatro Nucleo
“La composizione sociale delle persone sofferenti che gli operatori dei servizi territoriali hanno incontrato nel loro lavoro si è manifestata in modo diverso da quella delle persone recluse nei manicomi. Ai servizi si presentano infatti, insieme alle persone che prevedevano nel loro progetto di vita un destino lavorativo come operai, interrotto dalla sofferenza, anche persone con percorsi di vita differenti che aspirano ad un lavoro di tipo intellettuale.” – Filippo Renda
“Il medico, quando si pone di fronte ad un paziente, cioè ad una persona che soffre, cerca di interpretare attraverso segni e sintomi la sua malattia per poi trovare, là dove è possibile, le cause e i rimedi. Il terapeuta che si avvicina alla sofferenza psichica del suo paziente si pone, o si dovrebbe porre, in una relazione terapeutica che va ben oltre i principi della medicalizzazione e della dipendenza che lega colui che soffre a chi ha le capacità (ed il “potere”) di alleviargli le sofferenze.” – Ivonne Donegani, Francesca Cigala Fulgosi, Angela Tomelli
“Davanti all’abisso della malattia mentale, a quel vuoto, a quello scarto che ci terrorizza perché mette in dubbio la nostra stessa solidità, la parola terapia ha qualcosa di rassicurante. La possibilità di curare, di trasformare, di riportare a una “normalità”, di redimere in ultima analisi. Di evitare l’abisso. Per gli stessi motivi la parola arte impensierisce: l’arte appare come un lusso, un diversivo, un viaggio rischioso che può portare in ogni luogo o in nessun luogo. L’arte, in ambito psichiatrico, è pensabile innanzitutto come arte terapia.” – Massimo Marino
“La libertà è terapeutica. Questo c’era scritto sui muri dell’ex ospedale psichiatrico di Trieste. Io sono nata lì e la mia pratica teatrale è iniziata proprio dentro a quei luoghi dove follia e ragione si confondevano di continuo e la contaminazione tra i significati era evidente, dove anche comportamenti incerti e poco decifrabili erano fertile humus su cui si radicavano entusiasmo e creatività.” – Andreina Garella
“Foucault affermava che “relegando la follia nell’ordine della malattia, la psichiatria tutela i cosiddetti sani dalla loro paura della diversità” e io aggiungo dalla loro paura del “contagio”. Come mi è altrettanto chiaro che le condizioni mentali e la biochimica di un individuo dipendono parecchio dalle circostanze e dalle trasformazioni sociali. Il teatro rappresenta senza alcun dubbio uno degli strumenti più efficaci per ampliare, migliorare e approfondire le relazioni, sia tra le persone conosciute (quelle dell’ambito familiare, lavorativo o sociale) che tra quelle non ancora o poco conosciute.” – Michele Zizzari
“Fare teatro fuori dai luoghi di cura, stare nel territorio, usare gli spazi dedicati alla comunità permette di sentirsi più cittadini e meno utenti di un servizio di salute mentale e incentiva l’autonomia. Permette, inoltre, di “fare cultura”; di dare un messaggio anche alla collettività, di scardinare il processo che porta alla creazione e al mantenimento dello stigma riducendo il rischio di un effetto ghettizzante sulla persona. Si cerca di non ricreare la dinamica del piccolo manicomio, impermeabile a tutto ciò che gli è esterno. Si aprono perciò le porte del servizio e si esce fuori, creando nuovi spazi di socializzazione, incontro e sperimentazione di sé all’interno della società.” – Sara Gorza
“Se è vero che i nuclei psicotici sono frequenti in molti, e se possiamo serenamente ritenere che non è neppure necessario esserne consapevoli per avere una vita in un ragionevole equilibrio psichico, va da sé che tali nuclei saranno “percepiti” nell’incontro col malato di mente, vissuto come estraneo alla propria condizione esistenziale. L’incontro col malato fa affiorare quanto è bene che resti nascosto, fa risuonare nello spettatore la possibilità soggettiva della malattia.” – Marco Martinelli

“Gli infermieri manicomiali, che hanno vissuto la stessa chiusura degli internati, si mettono lentamente in discussione cercando modalità di relazione diverse, che meglio corrispondano agli obiettivi del cambiamento in corso. Tutto il sistema si modifica per cercare forme maggiormente adatte alla prospettiva che è stata aperta. Il setting segue queste nuove esigenze: le porte si aprono e vengono lasciate aperte, i tempi divengono più flessibili, compresi quelli per l’assunzione delle medicine.” – Cinzia Migani e Maria Francesca Valli
“In Ospedale Psichiatrico Giudiziario non finisci mai di stupirti. Quando ti sembra di avere acquisito strumenti sufficienti per operare al meglio, succede qualcosa che ti costringe a ripensare tutto, a rimetterti in gioco completamente e in modo diverso. Arriva una licenza o un provvedimento disciplinare, qualcuno va in crisi. Non c’è personale e chiudono il reparto, allora ti devi impegnare a trovare altre soluzioni e inventarti nuovi modi di relazionarti coi tuoi compagni di viaggio, rivedere gli obiettivi, provare percorsi impervi. Mai nulla è facile e scontato in quel posto.” – Monica Franzoni
“L’esperienza teatrale imolese è figlia di quella che ha dato vita al processo di superamento degli ospedali psichiatrici. L’eco di ciò che accadde è tutt’oggi viva e ne costituisce le salde fondamenta. Quella storia ci ha imposto la strada come spazio scenico all’interno del quale agire, spazio che, diversamente da quello dell’istituzione totale, porta in sé la dinamica del mutamento. Nei luoghi della città, negli spazi urbani, ciascuno di noi esercita la propria cittadinanza, si rende visibile agli altri e da questi viene riconosciuto. La strada, la piazza, le aule scolastiche, i parchi cittadini, il bar, gli autobus: in questi luoghi s’innesca quel processo di negoziazione proprio del “mercato delle relazioni” che apre la strada a possibili percorsi di inclusione sociale.” – Ennio Sergio
Le librerie, per eventuali richieste dei lettori, sono tenute a rivolgersi ai distributori regionali che sono indicati nel sito Negretto Editore.
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