Le métier de la critique: Grazia Deledda, l’autodidatta di Nuoro che si ostinò nello studio quando era precluso alle donne
Non fu certo facile l’affermazione di Grazia Deledda come scrittrice.

È noto che fu un’autodidatta, e questo può stupire solo chi non conosce la condizione femminile del tempo. Il padre, Giovanni Antonio, per il quale lei aveva un forte trasporto, non era solo laureato in giurisprudenza (fu anche sindaco di Nuoro), un imprenditore e un possidente, ma anche un appassionato di poesia e poeta in dialetto sardo. Aveva certo i mezzi per consentire alla figlioletta un regolare corso di studi, ma pagò anche lui un iniquo tributo alle usanze del tempo, che non consentivano alle donne un’istruzione oltre quella primaria, e Grazia studiò solo fino alla quarta elementare.
Poiché era ansiosa di proseguire gli studi, suo padre le fece impartire lezioni private da Pietro Ganga, un professore di lettere poliglotta, dal quale lei apprese anche il francese – non molti sanno che qualche anno prima di morire tradusse l’Eugénie Grandet di Balzac. Nell’ambiente chiuso e arretrato di Nuoro la sua precoce attività letteraria, sostenuta da uno scrittore di Sassari, Enrico Costa, che per primo comprese il suo talento, veniva vista con una disapprovazione più o meno manifesta. La ragazza non era affatto disposta a trascorrere la vita nella città natale, dove l’unica prospettiva era un matrimonio dedito al marito e all’educazione dei figli.
L’apprezzamento dei suoi primi romanzi da parte di alcuni importanti letterati l’aveva persuasa delle sue risorse artistiche, ma solo il trasferimento nel continente avrebbe potuto concederle la libertà necessaria alla creazione e il suo riconoscimento sociale. Anche la realizzazione di questo progetto, però, sarebbe stata impensabile senza un matrimonio. Grazia aveva avuto una storia d’amore epistolare con uno scrittore calabrese, Giovanni De Nava, che apprezzava molto il suo talento, ma essa era naufragata a causa di un lungo silenzio dell’uomo.
Gli anni passavano rapidi e lei, prossima ai trenta, un’età in cui le sue coetanee avevano già figli grandicelli, sembrava ormai destinata a un malinconico zitellaggio. Il caso, però, le fu favorevole: a Cagliari, dove si era trasferita, conobbe Palmiro Madesani, un funzionario, originario del mantovano, del ministero delle Finanze, e lo sposò a Nuoro meno di tre mesi dopo. Quando si furono trasferiti a Roma, suo marito compì una scelta coraggiosa: si dimise dal sicuro posto di dirigente statale e s’improvvisò agente letterario della moglie.

Nel 1903 la pubblicazione di Elias Portolu consacrò la Deledda a scrittrice di valore e fama nazionale. Il primo ventennio romano del nuovo secolo generò le sue opere più riuscite – Cenere, da cui fu tratto l’unico film interpretato da Eleonora Duse, L’edera, il notissimo Canne al vento, Marianna Sirca, L’incendio nell’oliveto –, culminando in quello che è il suo romanzo più perfetto, La madre.
La Deledda, che al marito diede due figli, non mondanizzò mai la sua vita, e continuò a pubblicare con una scadenza quasi annuale le sue opere, assecondando la sua vena narrativa con un probo impegno artigianale. Mentre le arrideva un successo che ignorava autori più grandi di lei, a tributarle il dovuto riconoscimento furono più gli scrittori, primi fra tutti Verga e Capuana, che non i critici: il dittatore letterario del tempo, Croce, lamentava l’assenza nella sua opera del romanzo che s’imponesse con l’autorevolezza del capolavoro.
I critici hanno sempre faticato a incasellare la scrittrice sarda in uno dei movimenti letterari di fine Ottocento e del primo Novecento, e pour cause, perché la sua arte non si lascia vincolare da alcuna categoria. Questo però non consente di sminuirla, come pure è avvenuto. Talvolta un giudizio errato si rivela perfino comico: Renato Serra la considerava mediocre come un altro “mediocre”, Luigi Pirandello.
Quest’ultimo fu sempre avverso alla Deledda, perché da buon siciliano condivideva la mentalità dei nuoresi sulla donna che si dedicava alla creazione letteraria. Giocò in lui, però, non meno importante, anche un’invidia di carattere professionale per un successo che non si decideva a premiarlo in uguale misura, e quella lo indusse a compiere un gesto che rappresenta una macchia sull’uomo e sullo scrittore.
Pirandello pubblicò, infatti, nel 1911 Suo marito, un mediocre romanzo ispirato velenosamente alla coppia Madesani-Deledda, o meglio Deledda-Madesani, così riconoscibile che l’editore Treves aveva rifiutato di pubblicarlo. Fidatevi dell’arte, ma non fidatevi degli artisti…
Era la prima volta che l’isola appartata di Sardegna veniva rappresentata nella narrativa, ma i suoi abitanti non erano fieri di questa donna, che nella lingua del continente, faticosamente conquistata, ordiva le sue storie di amori proibiti, di sorte avversa, di sofferenza e di espiazione. Non potevano provare nemmeno simpatia per una sarda che raccontava una terra primitiva e quasi selvaggia, che non riconoscevano. Neanche la classe intellettuale dei suoi concittadini comprese che quella non era la Sardegna postunitaria, ma un’isola che esisteva solo nella fantasia di Grazia Deledda, una terra rupestre abbagliata dalla luce atemporale del mito.

Ma la scrittrice forse non si accorgeva di queste incomprensioni, e comunque non se ne preoccupava. Nell’intimità quasi claustrale della sua casa produceva imperterrita le sue storie, senza essere mai tentata, diversamente da Sibilla Aleramo, di qualche anno più giovane, da problematiche di carattere femminista, alle quali pure la sua esperienza di vita avrebbe potuto sollecitarla.
La sua operosità, che ottenne il riconoscimento del Nobel, di cui lei, l’autodidatta di Nuoro, è rimasta l’unica donna italiana vincitrice, era sorda ai rivolgimenti della storia: la crisi del regime liberale, la prima grande guerra, l’avvento di un regime dittatoriale.
Continuava a raccontare la Sardegna, quella sua Sardegna, con una vista acuta: quando indulse a narrazioni di carattere psicologico o le trasferì nel continente, la riuscita fu molto meno persuasiva.
La Sardegna era l’origine e l’orizzonte della sua ispirazione.
Written by Antonio Benedetti
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