“Le spose della Luna” di Emma Fenu: la Sardegna è madre, isola e donna

Sardegna, primi anni del ‘900. Paska Devaddis di Orgosolo viene ingiustamente accusata di omicidio e, per sfuggire alla giustizia degli uomini, fugge sui monti, dove morirà di tisi nel novembre 1914, dopo una latitanza di due anni, mentre il fidanzato è recluso nel carcere di Nuoro.

Le spose della Luna - Photo by Tiziana Topa
Le spose della Luna – Photo by Tiziana Topa

Questo rivolo che scorre parallelo al fiume della grande Storia diventa fonte di ispirazione per la scrittrice sarda Emma Fenu che in Le spose della luna (Officina Milena, 2020, pp. 134) trasfigura attraverso l’invenzione letteraria, sublimandola, la tormentata vicenda umana di Paska. Un romanzo storico breve ma intenso e potente, quello della Fenu, il quale si dipana dall’8 dicembre 1911 al 16 febbraio 1912.

Le famiglie di tzia Michela e Jolza sono divise da un antico e sanguinoso odio. Entrambe le donne sono madri di due figli: di Franzisca e Bustianu la prima, di Mallena e Bainzu la seconda. Quando quest’ultimo viene ucciso nel corso di una faida Jolza convince Mallena ad accusare Franzisca la quale si dà alla fuga sui monti come bandita; insieme al fidanzato Istevani ella vive in una grotta. Come se non bastasse Jolza, dedita alla magia nera, lancia un maleficio contro la giovane che si ammala di tisi e muore mentre è latitante. La salma viene ricondotta in paese perché abbia una degna sepoltura e non cada preda del disonore. Le arti magiche si ritorceranno contro Jolza mentre Mallena va incontro a un destino tanto desiderato quanto insperato.

In Le spose della luna ricorrono prepotenti e con un ritmo incalzante vocaboli, allusioni e metafore che attingono al campo semantico della maternità.

Madre è la Sardegna, isola e donna. Una madre dalla pelle di luna, dal respiro di bosco e dall’utero roccioso che accoglie i suoi figli fuggiaschi. Una madre selvaggia, fiera e indomita che partorisce una prole selvaggia, fiera e indomita. Una madre costretta ad assistere a una sanguinosa lotta fratricida tra la propria progenie divisa in fazioni.

Madri sono quelle donne come Michela e Jolza che trasmettono ai loro pargoli, insieme al latte, il senso di appartenenza a un clan, a una famiglia. In un tempo di cruente faide queste madri si trovano a cullare sul proprio grembo il figlio dalle carni straziate come fece la Madonna con il Cristo morto dal corpo oltraggiato.

Queste madri – esemplate sul modello della mater dolorosa gridano al Cielo il proprio dolore intonando un attitu che squassa la loro gola e il loro petto per espellere dal cuore trafitto la loro disperazione. Possiamo immaginarle, queste madri, scarmigliate, prostrate a terra e sporche del sangue del loro stesso figlio, piangere lacrime che bagnano la terra polverosa. E madre è anche la Morte, oltre la quale una rinascita attende la creatura umana. È questo, in un mondo ancestrale legato ad antichi rituali, il compito della accabadora, la donna che aiuta il moribondo a porre fine all’esistenza terrena e a nascere a una seconda vita, questa volta eterna. Lacerato l’imene della vergine Morte, essa rimane gravida e partorisce la propria prole in una dimensione insondabile e inconoscibile.

Anche la Morte è donna. Il romanzo di Emma Fenu è un inno alle donne. Donne forti come le rocce della Sardegna che le ha generate, donne cresciute anzitempo, dal volto rugoso come corteccia di quercia e dalle mani nodose. Custodi del focolare domestico, spesso vedove bianche di mariti fantasma e assenti perché dediti alla pastorizia o latitanti sulla montagna. È la donna, vera mater familias in una società matriarcale, il pilastro granitico della casa; ella è custode silenziosa dei segreti del vivere e del morire, del ciclo delle stagioni e dello scorrere dei giorni. È depositaria di saperi antichi, delle proprietà delle erbe e della potenza delle parole. È strega o santa, dedita alla magia nera o bianca, è la Parca che ha il potere di tessere o recidere il filo della vita. È una jana benevola o una Erinni furiosa.

Le donne sono le Vestali della memoria, della quale si nutre la Vendetta.

Alle donne spettava il telaio, agli uomini la voce; alle donne spettava la memoria, agli uomini l’azione.”

La Vendetta reclama Giustizia; si confida in quella divina, è vero, ma prima ancora in quella terrena. Ma la Giustizia degli uomini, si sa, è spesso iniqua e allora ogni offesa è lavata privatamente nel sangue. Così Bustianu e Bainzu cadono sotto i colpi della faida tra le loro famiglie, della disamistade, parola che evoca la voce spagnola amistad e che designa dunque l’inimicizia fra bande rivali. Inimicizia che non risparmia gli innocenti, come Franzisca, la cui unica colpa è quella di essere la figlia di tzia Michela, che a suo tempo fece innamorare Simone strappandolo a Jolza. Quest’ultima rivolge i suoi strali contro la fanciulla, bersaglio di una vendetta trasversale consumata nell’oscurità di un rituale magico.

Emma Fenu
Emma Fenu

Franzisca è l’agnello sacrificale che lava con il proprio sangue un’antica offesa. “Le colpe dei padri ricadono sui figli”, recita la Bibbia. Così la giovane è immolata sull’altare di un odio e di un risentimento che il tempo non ha sopito. Franzisca viene “processata” e condannata dal tribunale popolare non tanto perché accusata di aver ucciso quanto perché si è arrogata la prerogativa esclusivamente maschile di imbracciare le armi e consumare la vendetta.

La ragazza ha elaborato un’amara saggezza del vivere.

Chi nasce povero […] ha due sole alternative: essere pecora, ossia carne da macello e mammelle da spremere; oppure lupo, ossia predone di pascoli, con denti affilati per mordere e zampe veloci per fuggire.”

Impavida come bandita, Franzisca possiede una scorza resa dura dalle asperità di un’esistenza in fuga sui monti. Eppure dentro quella corazza coriacea batte un cuore di giovane donna che pulsa di Vita. Che grida Vita. Creatura dalla grazia ferina, Franzisca culla i sogni di una fanciulla in boccio; sogni d’amore, di una famiglia, di figli. Desidera e sogna di diventare madre tanto che ha già scelto il nome della sua bimba. La vede, parla con lei, la accarezza. Annedda si chiamerà. Ma su questa favola bella grava un presagio di morte, di cui Franzisca è consapevole. Sa che non sarà mai chiamata mamma e neppure moglie. E accetta docile questo destino tremendo; come l’agnello condotto al macello piega il capo sotto il giogo della sventura.

Ogni capitolo si compone di due sezioni: un incipit in cui si avvicendano le varie protagoniste della storia e parlano in prima persona e il corpo del racconto in cui è adottata la prospettiva del narratore onnisciente. In Le spose della luna c’è poca azione, il che non significa che l’opera sia appiattita su un grigiore informe; significa piuttosto che essa gioca sulle risonanze emotive e sulla psicologia dei personaggi.

La prosa fatata, quasi da fiaba antica, di Emma Fenu ci trasporta in una dimensione onirica che confina con il mito. La penna dell’autrice dà forma a una Sardegna ancestrale in cui magia, tradizioni e folklore sono vivi e vitali in un connubio che affonda le radici in un passato remoto eppure attuale.

Questa allure magico-sacrale riecheggia il dramma pastorale dannunziano La figlia di Jorio; in entrambi i casi il testo è intessuto di citazioni bibliche veterotestamentarie. Simile è la duplice ambientazione nel mondo di giù, il villaggio, e nel mondo di su, quello della montagna. E proprio in una grotta sulle alture i dannunziani Mila e Aligi, così come Franzisca e Istevani, trascorrono un segmento della loro esistenza vivendo in castità. I protagonisti maschili non colgono il fiore di carne delle loro donne ma vivono con esse un amore platonico e puro, non contaminato da appetiti sessuali e proiettato verso un futuro sponsale che mai arriverà.

 

Written by Tiziana Topa

 

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