Meditazioni Metafisiche #27: Epicuro e la liberazione dal dolore
Nelle raffigurazioni dell’antico Egitto il cuore del defunto, precisamente il suo ib, viene posto su un piatto di una bilancia, mentre sull’altro vi è una piuma, simbolo della dea Maat. L’interpretazione tradizionale è quella per cui, se il cuore è più leggero della piuma, il defunto può salvarsi. Oggi gli egittologi sostengono che Maat è la dea della giustizia e dell’armonia del cosmo, quindi il cuore del defunto è posto al cospetto del suo simbolo per indicare la giustificazione di quest’ultimo, e non per essere pesato. Infatti, pare che i due piatti della bilancia siano sempre rappresentati in equilibrio tra loro.
In ogni modo, dopo questa famosa cerimonia, il defunto ritenuto degno era detto in egiziano antico maa-kheru, che letteralmente vuol dire “giusto di voce”. Nella Bibbia incontriamo spesso che gli empi hanno la lingua malvagia, specie nei Salmi, per esempio nel Salmo 52, 4 è scritto: “La tua lingua è come una spada che uccide”. Secondo una teoria, il riferimento culturale sarebbe da ascrivere a questa teologia dell’antico Egitto.
Nel mondo del passato e in quello attuale vi sono molte religioni. Secondo gli storici delle religioni sarebbero tali solo quelle concezioni che presentano almeno due caratteri nella dottrina:
- Dicotomia tra mondo materiale e mondo spirituale;
- Istanza che salva.
Nella maggior parte delle religioni è Dio la istanza che salva. Di converso Dio punisce gli empi anche non salvandoli. Questo mistero era ben presente in Giovanni della Croce, il quale scriveva che “la gloria, quando non lo glorifica, opprime colui che la osserva”, porque la gloria oprime al que la mira cuando no glorifica.
Ma questa divinità fa soffrire anche quando salva: pensiamo alla dottrina cristiana del Purgatorio oppure alle lamine d’oro orfiche per le quali il giusto nell’altro mondo ha molta sete. I mistici cristiani dicono che la sofferenza è un dono di Dio e una vocazione ad amare di più. Per Kierkegaard soffrire è avere un segreto in comune con Dio. Ci sono molti modi di soffrire del giusto, come accadde a Giobbe. Non ultimo quello di dedicare la vita ai fratelli. Giovanni 3, 16: “Anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli”, sull’esempio di Cristo, Agnello innocente, che diede la vita per salvare l’umanità. San Bernardo diceva che Dio ama solo per essere amato a sua volta.
La creazione è un dono di Dio all’umanità. In essa l’uomo è il frutto più eminente. Dio va onorato e adorato anche nello spazio. Gli ebrei pregano rivolti a Gerusalemme, considerato il centro del mondo. Se si trovano a Gerusalemme, pregano rivolti a Tempio. All’interno del Tempio pregavano rivolti al Santo dei Santi, ove risiedeva Dio. Le chiese cristiane sono rivolte a Est, dove sorge il sole. Secondo Basilio Magno (Sullo Spirito Santo, 27) i cristiani pregano rivolti a Est perché lì si trovava l’Eden, quindi questo gesto è la prefigurazione della loro salvezza. I musulmani pregano rivolti alla Mecca. Eliade parlava della “simbolica del centro”: le antiche città delle varie popolazioni erano costruire in modo tale che tutti i complessi gravitassero attorno al centro del culto, il tempio.
Dio va onorato anche con il corpo. La preghiera esige una compostezza esteriore riflesso di quella interiore. Nell’esicasmo si dice una giaculatoria per ogni atto respiratorio. I testi sacri delle varie religioni spesso vanno anche cantati, per accompagnare con la voce la preghiera e il racconto delle storie sacre[1]. Dio si onora anche nel tempo. Il memoriale della tradizione ebraica, ziqqaron, non è un semplice ricordo ma un rivivere il passato nel momento presente.
Isaia 45, 15: “Veramente tu sei un Dio nascosto, Dio d’Israele, salvatore”. La chiesa occidentale tende a razionalizzare la divinità, invece quella orientale punta a contemplarne il mistero insondabile. Per i musulmani la bestemmia più grande è associare a Dio qualcosa di umano. Dio si è rivelato nella natura e in ciò si è anche nascosto perché le cose non possono parlare di Dio in maniera completa ma solo allusiva. Poi Dio si è rivelato nei testi sacri e allora è diventato più misterioso perché le Scritture sono influenzate dal ragionamento umano e dagli schemi della storia. In seguito Dio si è rivelato in Cristo e allora il mistero si è ingigantito perché Cristo è vero Dio e vero uomo. Ma il culmine dell’assurdità e della incomprensibilità si è avuto nella rivelazione di Dio quale Eucaristia. Come può Dio Onnipotente velarsi in un pezzo di pane? Come può Dio Onnipotente morire per amore dell’umanità?
Levinas osservava come la vera separazione non è nella dispersione spaziale né nella distinzione tra termini che la ragione può stabilire. La vera separazione è attestata dall’idea della metafisica. “La parola trascendenza sottolinea il carattere eminente di questa separazione”[2]. Come se, parlandone, sentiamo che ci appartiene un Principio trascendente ma da questo ne siamo radicalmente separati.
Non si può comprendere il mondo spirituale e gli angeli o Dio che lo abitano con le categorie di bene e male che gli uomini utilizzano per capire il mondo terreno. Lo studioso Otto applicava agli dèi due istanze: il fascinosum (aspetti positivi) e il tremendum (aspetti negativi). Nella Bibbia Dio ama gli ebrei ma è pronto a distruggerli con catastrofi per un nonnulla. Prima ancora un testo accadico canta la dea Nana sia come divinità “la cui delizia è l’attacco” sia come “misericordiosa”.
Anemospilia è il sito archeologico di un antico tempio minoico a Creta. Il tempio fu distrutto da un terremoto. Gli archeologi trovarono, sotto le macerie riportate alla luce dopo millenni, i resti del corpo di un giovane con una spada di bronzo sul petto. Era la vittima di un sacrificio umano alle potenze ctonie che era già stato immolato. È stato rinvenuto anche il corpo del sacerdote che stava fuggendo ma morì sotto le mura crollate del tempio. Il sacrificio umano è visto oggi come un atto turpe contro la vita, invece allora era l’atto di maggior rispetto per la vita. E questo per vari motivi. Innanzitutto perché gli dèi gradivano massimamente l’offerta e dare culto agli dèi era la cosa più importante che poteva capitare alla vittima. Ma, a parte la straordinarietà di questo ritrovamento archeologico, salta agli occhi che, nel mentre il sacerdote e gli altri partecipanti davano il massimo tributo agli dèi, venne un terremoto inspiegabile operato dalle stesse potenze ctonie che avrebbero dovuto gradire l’offerta. Le divinità non seguono logiche umane!
La figura delle sirene è nel mondo greco ambivalente: vita/morte, follia/sanità. Nel mondo miceneo, quindi pre-greco, compaiono dei sigilli a forma di sirena per garantire legittimità alla registrazione, quindi si presume che esse siano viste come entità positive. Ma nell’Odissea e poi in varie tradizioni greche la sirena è foriera di significati molto sincretistici, da cui si ipotizza che la parola greca “sirena” derivi dalla radice indoeuropea SEH2, “legare, unire”. Già nel nome questo essere divino unisce significati tra di loro inconciliabili, che sfuggono a una logica discorsiva. La stessa radice ha dato il sostantivo greco “canto”, oimē, e in Omero il canto delle sirene ammalia i marinai. È interessante che in ittita vi è un contenuto concettuale simile in parole come: ishiya-, “legare, unire”, e ishamai-, “canto”.
Nel canto di Neša, cantico funerario ittita, l’opera letteraria e religiosa ha un potere avvolgente, unitivo, nel creare anche un legame tra antenati: “Portami da mia madre…”. Qualcosa del genere si può ipotizzare anche nel mondo vedico, dove i poeti creano legami tra Ciò che è e Ciò che non è (Ṛg-Veda X, 129, 4)[3]. Per le correnti mistiche dell’Islam la ragione discorsiva (nutq) non può penetrare in maniera soddisfacente il Mistero di Dio. È necessaria una iniziazione alla conoscenza intuitiva (ma’rifa) e ispirata (‘ilm ladunni). In questo modo l’iniziato acquisisce quel gusto intimo (dhawq) di quelle realtà che i non-iniziati colgono solo di riflesso. L’iniziazione è connessa a un cambiamento di stato spirituale dell’adepto che lo rende idoneo alla conoscenza intuitiva[4].
La gnosi delle cose divine viene esaltata nel Discorso Perfetto, un testo ermetico in copto ritrovato a Nag Hammadi. “La gnosi circa le cose costituite è veramente la medicina contro le passioni della materia. Perciò la scienza deriva dalla gnosi. Me se nell’anima dell’uomo c’è ignoranza della scienza, vi rimangono le passioni incurabili, e con queste vi è anche la malvagità nella forma di una ferita incurabile. La ferita poi divora l’anima e questa marcisce per opera di quella ferità della malvagità e si putrefà. Dio invece è innocente di ciò poiché ha inviato agli uomini la gnosi”[5].
Per l’epicureismo gli dèi esistono, ma non si prendono cura degli uomini. La cifra di questa importante dottrina dell’antichità ellenistica, anche se non famosa come lo stoicismo, è che per l’uomo vale solo il mondo materiale[6]. Il suo fondatore, il filosofo greco Epicuro (341 a. C.-270 a. C.), è considerato un grande materialista della storia del pensiero.
La sensazione di un oggetto sensibile forma nell’animo una immagine, la quale corrisponde alla percezione dell’oggetto. Se è ripetuta, noi ci formiamo un concetto o prolessi, cioè uno schema mediante il quale comprendiamo un oggetto. Percependo che un oggetto è freddo, capiamo la freddezza (concetto) e possiamo prevederla nel futuro. Percezione e prolessi sono sempre vere perché dipendono dall’oggetto, le distorsioni derivano dai pensieri collaterali che nascono a margine della prolessi.
Già nella Lettera a Erodoto emerge che per Epicuro esistono due minimi: la sensazione e l’atomo. Egli giustifica l’atomo facendo riferimento alla sensazione[7].
Nel Seicento il filosofo Gassendi, sostenendo uno scetticismo metodico, scalzò Aristotele, accettato nelle torri d’avorio accademiche, e rivalutò Epicuro. Per Gassendi l’uomo conosce solo ciò che fa, cioè solo il fenomeno. La sostanza, se esiste, è conosciuta solo da Dio.
Per Epicuro le affezioni o emozioni sono fondamentali perché ci guidano con sicurezza alla verità dell’oggetto. Quando sentiamo che una cosa ci procura dolore o piacere, capiamo l’oggetto secondo verità. Oggi i filologi discutono se la teoria dell’emozione in Epicuro dipenda da Aristotele[8].
Da un punto di vista filologico, l’epicureismo è un grande problema di ricostruzione. La riscoperta di Epicuro si ebbe nell’umanesimo: a tal proposito sono fondamentali l’epistola del Raimondi e il dialogo del Valla. Prima di allora Epicuro fu rivalutato dal Petrarca[9].
Epicuro scrisse opere molto importanti, ma non ci sono giunte nella loro interezza. Diogene Laerzio nelle Vite tramanda alcune citazioni da queste (Massime capitali) redatte per scopo divulgativo, assieme a tre delle svariate lettere che Epicuro scrisse: a Pitocle sulla conoscenza, a Erodoto sulla fisica, a Meneceo sull’etica. Ma queste lettere hanno un carattere discorsivo.
I tre codici integri più antichi delle Vite di Diogene Laerzio sono: B (Neapolitanus III B 29, sec. XII), P (Parisinus gr. 1759, sec. XIV in.), F (Laurentinus 69.13, sec. XIII). I filologi prendono in esame anche codici recenziori: Z, T, D, G, H.
Abbiamo poi altri frammenti, assieme a presentazioni dell’epicureismo (soprattutto quella di Cicerone nel De finibus e quella di Lucrezio nel De rerum natura). Risulta che questo epicureismo è non del tutto collimante con le lettere e i frammenti di Epicuro che abbiamo. I frammenti non colgono queste parti salienti del pensiero di Epicuro? L’epicureismo è una elaborazione successiva della scuola? Nel Medioevo, inoltre, si fraintese grandemente il pensiero di Epicuro, secondo una tendenza presente in minore misura già in Cicerone: laddove Epicuro parlava del piacere come assenza di bisogno, si credette che stesse parlando di piacere come appagamento del desiderio[10]. Probabilmente Epicuro non ricercava il piacere come noi lo intendiamo, bensì la liberazione dal dolore: quello fisico (aponia) e il turbamento spirituale (atarassia). L’infelicità nasce da un errore intellettuale che ci fa approcciare male alle cose. Allora la filosofia permette una valutazione razionale del piacere e del dolore tale da rifondare le scelte di vita[11].
Secondo Bignone, Epicuro credeva possibile raggiungere la felicità solo liberandosi dalle paure, le quali creano turbamento e per di più riempiono l’animo di fantasmi, che distorcono dalla considerazione dei veri problemi e della realtà, cosa che solo la filosofia può dare[12]. Pesce riconosce in Epicuro “la funzione esclusivamente pratica dell’intera filosofia”[13].
Lucrezio scrive nel I a. C. il De rerum natura per far conoscere l’epicureismo. Quest’opera fu riscoperta nel 1417 da Poggio Bracciolini dopo quasi un millennio di dimenticanza. Il Lachmann si basò sui manoscritti dell’opera di Lucrezio per fondare il suo metodo filologico.
Nel De rerum natura (V, 1 ss) Lucrezio scrive questi versi:
“Quis potis est dignum pollenti pectore carmen
condere pro rerum maiestate hisque repertis?
Quisve valet verbis tantum qui fingere laudes
pro meritis eius possit qui talia nobis
pectore parta suo quaesitaque praemia liquit?”
“Chi può/chi è capace di comporre un carme degno di un animo forte a fronte della grandezza dell’argomento e di queste scoperte? (chi è capace di parlare di cose così importanti?). O anche chi è tanto valente con le parole da poter comporre lodi commisurate ai meriti di lui (Epicuro) che lasciò a noi premi/doni tali che sono stati partoriti dal suo ingegno e ricercati?”.
Lucrezio scrive la sua opera in esametri, come Ovidio: egli però non ha assimilato la lezione alessandrino-callimachea che è operante invece nella produzione di Ovidio.
Il latino potis si spiega con il greco sophos, che indicava l’abilità tecnica dell’arte della scrittura. L’ablativo pollenti potrebbe essere concordato con condere: “Chi può comporre efficacemente un carme…”. In latino condere, “comporre”, è l’Atto di esposizione della materia, di versificazione poetica, di natura fondativa e organizzativa, di sistemazione della materia. In italiano si va a perdere il significato fondativo.
Qui Lucrezio esprime che le parole non possono rendere la grandezza del pensiero di Epicuro. Lucrezio cita spesso la povertà del latino, incapace di esprimere adeguatamente la filosofia. È questo è tanto più problematico se pensiamo che fu Lucrezio a porre le basi del lessico filosofico latino sulla falsariga di quello greco. Il latino è prima di parole tecniche della filosofia e di per sé si presta male alle astrazioni perché è una lingua concreta e pratica.
Per altri qui Lucrezio starebbe parlando della impossibilità di lodare Epicuro. È il topos dell’Ineffabile, cioè dell’incapacità di parlare di un argomento, che arriva perlomeno fino a Dante (che non ha parole adeguate per lodare Beatrice). In questo modo Lucrezio esalterebbe l’importanza dell’epicureismo. Ancora dopo oltre due secoli un epigramma di Filodemo tramanda il testamento di Epicuro voluto da lui medesimo: che si celebrasse un incontro tra amici per onorare la memoria del Maestro il giorno della sua nascita. Pare che esso avvenisse il venti del mese di Gamelione[14]. Lucrezio (V, 8) non esita a dire che Epicuro “è stato un dio”, deus ille fuit, deus. Il perfetto usato da Lucrezio (fuit) indica che Epicuro ha soltanto vissuto come un dio, come afferma Epicuro stesso nella Lettera a Meneceo: si tratta quindi solo di una divinizzazione temporanea. Quindi Epicuro ha raggiunto in vita quella felicità divina che Epicuro stesso promette a chi voglia meditare quotidianamente sul suo insegnamento e decida di seguirlo (Lettera a Meneceo 135)[15].
Filodemo di Gadara è stato un filosofo epicureo greco antico. Fu ospite a Ercolano nella cosiddetta Villa dei Papiri, che conserva frammenti delle sue opere restituiti alla luce dalle ceneri del Vesuvio con moderne tecniche scientifiche. In essi si parla di Epicuro.
Sauron ha sostenuto che esistesse un legame tra il contenuto epicureo della biblioteca della Villa dei Papiri e le sculture ivi ritrovate, nonché che tale Villa non fosse altro che un ginnasio greco destinato a evocare il mondo perduto di Epicuro. La Villa presenta un isolato Belvedere, che Sauron mette in relazione con i versi lucreziani (II, 1-4): “Dolce è mirar dalla riva, quando i venti sconvolgono l’ampia distesa del mare, l’altrui gravoso travaglio, non perché rechi piacere che uno si trovi a soffrire, ma perché è dolce scorgere i mali dai quali siamo liberi”. Questo Belvedere sarebbe il luogo di più isolato ritiro spirituale ove si meditava filosoficamente sulla vita[16].
Secondo una terza interpretazione, l’esatto significato del discorso di Epicuro si sarebbe già perduto e Lucrezio aveva tra le mani non la dottrina di Epicuro ma quella dei suoi allievi. È possibile poi che i filosofi greci siano criptici. Anche Teofrasto, allievo di Aristotele, non aveva ben compreso la dottrina del Motore Immobile. Addirittura Lucrezio usa il verbo fingere (i codici presentano altresì la variante pingere): “immaginare”. Non è solo difficile comporre ma anche immaginare la lode per la figura (o l’esatta dottrina) di Epicuro.
In base a una questione affrontata dagli studiosi, Lucrezio non sapeva tradurre dal greco in latino la esatta terminologia riguardo la psiche, quindi si è rifatto ad un passo di Accio per introdurre in latino la distinzione tra animus (parte razionale) e anima (parte irrazionale). Nella Epistola a Erodoto Epicuro ha una visione unitaria dell’anima, anche Lucrezio dice che la psiche è fondamentalmente una, ma quest’ultimo la distingue in animus e anima, come fanno altri epicurei, pertanto i filologi sostengono che già in Epicuro vi fosse siffatta dottrina[17].
Ma anche Cicerone incontrava difficoltà analoghe. Epicuro usava il termine greco prolepsis, “prolessi”. Cicerone nel De natura deorum impiega ben tre termini latini per renderlo: notio, praenotio, anticipatio. Lucrezio invece pare non tradurre bensì interpretare il termine greco di Epicuro con la parola latina: notities[18].
Pensiamo anche alla definizione di Eros, Amore. Epicuro non aveva un alto concetto dell’amore: il neoplatonico Ermia nel Commento al Fedro di Platone riporta il pensiero di Epicuro, “intenso appetito di rapporti sessuali accompagnato da assillo e ansietà”. L’elemento nuovo nella definizione di Epicuro è il sostantivo greco orexis, “appetito” o “intenso desiderio”, tratto dalla definizione di Aristotele. Per Aristotele questo desiderio è la propensione verso il fine composta dal movimento di: volontà (boulēsis), desiderio (epithumia) e slancio (thumos). Lucrezio non riuscì ad esprimere con un solo termine tanta ricchezza di significato nella definizione epicurea di amore e usò siffatta immagine poetica (IV, 1058 ss): “Questa è Venere per noi, da essa poi deriva il nome Amore, da qui prima stillò nel cuore quella goccia della dolcezza di Venere cui poi seguì una gelida inquietudine”[19].
Riguardo la possibile cripticità insita in Epicuro, forniamo questo esempio. Epicuro sosteneva che aver paura della morte risponde a una logica errata. Dove c’è lei, non ci siamo noi. Perché allora dovremmo preoccuparcene? Nella Lettera a Meneceo (124.1-10) Epicuro consiglia di spegnere in noi il “desiderio dell’immortalità”. In greco c’è una espressione giudicata curiosa: pothos tēs athanasias. Essa indica una forma di pulsione psichica che l’uomo deve eliminare al fine di concentrarsi sul presente e quindi goderne. Per alcuni si tratta di un generico desiderio. Per altri filologi di una nostalgia.
Ma come si può avere nostalgia di qualcosa che non si è mai provato?
Forse Epicuro con grande finezza si fa beffa del pensiero assurdo dello stolto: solo uno stolto può avere nostalgia per qualcosa che non ha mai provato. Oppure, forse qui Epicuro polemizza con la dottrina erotica di Platone: per Platone i viventi cercano di acquisire una forma di immortalità attraverso l’aspetto erotico. Avendo nostalgia dell’amore avuto in gioventù, gli stolti cercano in questo modo di acquistarsi l’immortalità?[20].
Un altro aspetto assai contraddittorio in Epicuro dovrebbe essere la grandezza del sole nella Lettera a Pitocle. È scritto: la sua grandezza “… poi può essere maggiore di quanto appare, o un po’ più piccola o uguale (mai contemporaneamente)…”. Messa così la lezione “mai contemporaneamente” sembra essere uno scolio (commento posteriore di qualche copista) che non aggiunge niente di nuovo, infatti molti la espungono. “Mai contemporaneamente” è in greco ouch ama, alcuni correggono in tuchanei (nella convinzione che il testo tramandato manchi di un verbo). Per altri “mai contemporaneamente” avrebbe un senso voluto da Epicuro, ma criptico: potrebbe riferirsi al fatto che sì le sensazioni sono sempre veridiche, ma possono variare e quando lo fanno varia la realtà in senso contrario, cioè tali variazioni avvengono “mai contemporaneamente”, cioè non nello stesso senso. E così via[21].
Ma la Lettera a Erodoto è l’opera più impervia e oscura tra quelle intere giunte fino a noi di Epicuro. Ampie parti restano tuttora indecifrate, anche nel loro significato di base. A ciò si aggiungono rilevanti problemi testuali: i manoscritti non concordano e presentano lezioni diverse, altre lezioni sono impossibili e i filologi congetturano delle correzioni. Facciamo questo esempio.
In 48 abbiamo: “Nessuna di tutte queste cose è in contrasto con i dati della sensazione se ben si consideri in qual modo si potrà ricondurre dalla realtà che è fuori di noi ai nostri sensi sia (tina) la chiara evidenza di essa sia (tina kai) la sua conformità (della realtà percepita) alle sensazioni” (traduzione di Arrighetti). I codici tramandano la lezione: ina kai tas sumpatheias. Usener la corregge in tina kai, altri la conservano intendendola come una espressione ellittica. C’è chi vuole cancellare ina, mentre un altro filologo sostituisce ina con lo stilema epicureo ama kai. Se fosse una espressione ellittica, il testo sarebbe estremamente oscuro[22].
Gli studiosi hanno indagato anche lo stile linguistico di Epicuro, specialmente quello delle tre Lettere. Egli adotta la koiné colta, quel greco sovradialettale tipico dell’età ellenistica. Presenta uno stile sintatticamente semplice e reso contorto dall’uso continuo di tecnicismi. Caratteristiche salienti sono la frequente sostantivizzazione dell’aggettivo e i non rari anacoluti[23].
Written by Marco Calzoli
Note
[1] Per approfondire: J. R. Jacobson, Chanting the Hebrew Bible: The Art of Cantillation, New York 2017; C. Crescenti, La ricerca della perfezione nella recitazione coranica, Firenze 2005; W. Howard, Veda Recitation in Varanasi, Dehli 1986.
[2] E. Levinas, Parola e silenzio, Milano 2012.
[3] V. A. Valenti, Il canto delle sirene e il canto di Neša, in Studi Classici e Orientali, Vol. 64 (2018), pp. 1-30.
[4] M. A. Golfetto, Il patto spirituale tra Corano e letteratura sufi, in Divus Thomas, Vol. 110, No. 3, Sufismo (settembre-dicembre 2007) pp. 92-116.
[5] A. Camplani (a cura di), Scritti ermetici in copto, Brescia 2000.
[6] Dopo la decadenza della filosofia post-aristotelica, lo stoicismo presenta un rinnovato progresso nella ricerca filosofica, dal punto di vista della creazione di nuovi concetti e della loro profondità, nonché della terminologia specifica. Invece epicureismo e scetticismo hanno influito molto meno sui concetti e sui termini. Lo stoicismo è l’ultima opera significativa dell’antichità dal punto di vista concettuale e terminologico. Vd. M. Unterstainer, Problemi di filologia filosofica, Milano 1980.
[7] F. Verde, Elachista: La dottrina dei minimi nell’Epicureismo, Leuven 2013.
[8] B. Centrone, La Retorica di Aristotele e la dottrina delle passioni, Pisa 2015; F. Verde, I pathe di Epicuro tra epistemologia e etica, in Elenchos, Vo. 39 (2018) pp. 205-230.
[9] M. R. Pagnoni, Prime note sulla tradizione medievale e umanistica di Epicuro, in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia, Serie III, Vol. 4, No. 4 (1974) pp. 1443-1477.
[10] Diano si è occupato anche del piacere in Epicuro. Per approfondire: C. Diano, Scritti epicurei, Firenze 1974.
[11] Già nell’antichità Demetrio di Laconia (II a. C.) scrisse un trattato nel quale esaminava alcuni passi di Epicuro corrotti da una errata tradizione manoscritta o fraintesi dalla critica avversaria: Aporie testuali ed esegetiche in Epicuro, Napoli 1988. Ma già i contemporanei attaccarono Epicuro e le sue le tesi. Hessler sostiene come la Lettera a Meneceo muove velatamente dagli attacchi portati contro Epicuro dai filosofi avversari.
[12] E. Bignone, L’Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro, Milano 2007.
[13] D. Pesce, Saggio su Epicuro, Bari 1974.
[14] A. Arena, L’icade di Filodemo ed il genetliaco di Epicuro, in Latomus, T. 71, Fasc. 3 (settembre 2012), pp. 696-712. Per approfondire: D. Fusaro, La farmacia di Epicuro. La filosofia come terapia dell’anima, Padova 2006.
[15] M. Erler, La sacralizzazione di Socrate e Epicuro, in M. Beretta, F. Citti, A. Iannucci (a cura di), Il culto di Epicuro, Firenze 2014, pp. 1-14.
[16] Per approfondire: M. P. Guidobaldi, L’impronta epicurea nella Villa dei Papiri di Ercolano alla luce delle recenti indagini archeologiche, in M. Beretta, F. Citti, A. Iannucci (a cura di), Il culto di Epicuro, Firenze 2014, pp. 151-162.
[17] F. Verde, Accio, Lucrezio e la psicologia di Epicuro, in Museum Helveticum, Vol. 74, No. 2 (dicembre 2017), pp. 158-171.
[18] C. Bailey (a cura di), Titi Lucreti Cari. De Rerum Natura, 3 voll., Oxford 1947.
[19] S. Cerasuolo, La definizione di Venus e Amor nella diatriba del libro IV del De rerum natura di Lucrezio, in Atene e Roma, Fasc. 3-4 (luglio-dicembre 2014) pp. 172-190.
[20] E. Piergiacomi, La folle nostalgia dell’immortalità, in Studi Classici e Orientali, Vol. 63 (2017) pp. 91-102.
[21] F. Verde, Epicuro e la grandezza del sole, in Methexis, Vol. 28, No. 1 (2016) pp. 104-110.
[22] W. Lapini, L’Epistola a Erodoto e il Bios di Epicuro in Diogene Laerzio, Roma 2015.
[23] Per approfondire: D. De Sanctis, Questioni di stile: osservazioni sul linguaggio e sulla comunicazione del sapere nelle lettere maggiori di Epicuro, in D. de Sanctis, E. Spinelli, M. Tulli, F. Verde (a cura di), Questioni epicuree, Sankt Augustin 2015, pp. 55-74.
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Rubrica Meditazioni Metafisiche