“The wife – Vivere nell’ombra” di Meg Wolitzer: un matrimonio quasi perfetto
Un consiglio a me stesso: prima di iniziare la lettura di qualsiasi opera, leggi con attenzione il commento inserito sulla sovracopertina, specie se è sulla prima, anche se non è da sottovalutare nemmeno la quarta, e neanche le rimanenti due. Non bisogna dimenticare che in ciascuna di esse può essere racchiusa la verità sintetica del libro, almeno dal punto di vista dell’editor.
Occorre meditare su questa frase: “Scrivere una quarta era il lavoro più adatto a Joe: aveva la misura perfetta per un preciso paragrafo descrittivo.” Questo lo dico per dare un pizzico di ragione a chi mi attacca dicendo che sono un po’ prolisso nelle mie recensioni.
A mia discolpa dico, che per me quel che scrivo è necessario. Forse non sanno che è più quello che getto che quello che tengo. Se quel che rimane può essere ritenuto ridondante, beh, capita. Questo è quanto ho in comune con Proust, mentre con Pirandello posso vantare un misero cinque in italiano scritto in prima superiore.
Inoltre, mi si è stato sussurrato che mi capita di parlare soprattutto di me. Il fatto è che non so reagire se non dicendo che io non faccio recensioni, bensì personali reazioni al libro. Tanto mi si dà, tanto cerco di restituire. Di cosa stavo parlando? Ah, del romanzo scritto da colei che fino a due giorni fa era soltanto il nome della moglie del divulgatore scientifico Richard Panek, di cui apprezzai qualche tempo fa l’interessante Il mistero sotto i nostri piedi (quell’atroce mia nemica personale che si chiama gravità, per colpa della quale ho frantumato un numero imprecisato di sogni).
L’io narrante è Joan, la moglie dello scrittore rinomato ormai in tutto il mondo, quel Joe Castleman, signore del proprio castello, colui che ha fatto di sé il proprio punto di riferimento maggiore. Un egoista di talento, in poche parole.
Una nota sulla scrittura di Meg-Joan: densa, eppure leggera, ma così ricca di particolari che alla fine debilita un po’. Quello di cui sto trattando è uno di quei libri che non si vede l’ora di finire, perché alla fine ti riempiono troppo, senza darti requie, per cui uno rischia l’indigestione.
I particolari sono raramente eroici, per cui alla fine ti ritrovi a rivivere una vita altrui, senza desiderare di entrarci in fondo, per cui non vedi l’ora di uscirne. Lo stesso mi capitò in un’opera che oggi giudico fra le più belle che ho letto, La montagna incantata di Mann, così poco eccitante fin quasi alla fine e forse quello che più mi ha commosso: per capire il suo reale valore sono dovuto arrivare alle ultime quattro o cinque pagine.
Ogni tanto, nel libro di Meg, spiccano delle battutine gaie che servono a riprendere fiato e a far abbozzare un sorriso al lettore, in una storia per tanti versi distante, come quando si accenna a “quelle caramelline friabili alla menta, a forma di guanciale, che per qualche motivo giacciono in un cestino di paglia accanto a ogni singolo registratore di cassa esistente al mondo, come se i proprietari di tutte le caffetterie si fossero incontrati per concordare quel protocollo.” Che lo yankee sia il popolo maggiormente capace di organizzarsi (fatta eccezione che per gli ebrei), lo sapevo ma che arrivassero fino a questo punto, Gesù mio no!, sarebbe assurdo, quindi yankeemente probabile.
O quando Joan parla della valvola mitrale del marito “che si chiudeva alla meno peggio, con un’approssimazione quasi ebbra.”; o quando specifica (un paio di volte) che la valvola artificiale che regola il cuore difettoso di Joe è di natura suina.
Il quale Joe è un Catilina, simulator ac dissimulator, lo definirebbe Cicerone, per cui quando gli viene comunicato di aver vinto il premio Helsinki (non si guardi su google, che non esiste), non solo non stava riuscendo ad assopirsi per la tensione, ma costringeva alla veglia anche la moglie, mentre poi la verità che avrebbe distribuito agli amici era tutta diversa: stava dormendo della grossa e la chiamata transoceanica l’aveva destato nel cuore della notte.
Joan è una ragazzina timida che cerca in tutti i modi di passare inosservata, anche se dentro di sé immagina di essere migliore di quel che appare. I due si innamorano l’uno dell’altra. Gli opposti si attraggono, si dice. Cocciante ha vinto un Sanremo cantando Se stiamo insieme ci sarà un perché (e lo voglio scoprire stasera)…
A pagina 50 una frase che da sola vale il costo del libro: “Forse era quello che significava essere uno scrittore: vedere con gli occhi chiusi”. Tanto faceva Joe, così pensava Joan. Lo scrittore passa la vita con gli occhi sgranati, poi li tiene a fessura, come fanno i gatt, ed è come se dormisse e se, tra le braccia di un Dio simile a Morfeo, sognasse, con incubi saltuari.
Anche Joan ha tentato di scrivere, da ragazza, ed è stato questo suo acerbo talento che ha avvicinato i due futuri sposi. Jo glielo getta in faccia, quasi senza preamboli: “Non ha la minima consapevolezza del suo talento.” Jo in quel periodo le deva del lei perché era l’insegnante di Joan e questo rapporto di subordinazione, fatto anche di complicità, durerà per tutta la vita.
Jo ammette di non aver una naturale disposizione allo scrivere, anche se sa che non potrà far altro che narrare la sua storia umana. Ci proverà comunque, anche se “nella vita nessuno ti dà credito per l’impegno.” Si tratta, alla fine, di due metà che s’intersecano perfettamente.
Per aumentare in lei l’autostima, Jo la presenta a Elaine Mozell, una nota scrittrice, ma da quel colloquio Joan ne esce ancor più sfiduciata; o forse sarebbe più corretto dire complessata. Una frase di Elaine la paralizza: “… immagino che potresti definirla una cospirazione finalizzata a smorzare la voce delle donne perché quelle degli uomini risuonino ancora più fragorose.” Se questo mondo maschilista prevede un dominus, anziché una domitilla, a che pro combattere, perché mai esprimersi?
Stavo pensando alle grandi scrittrici, a due fra le più famose, la Woolf e la Christie, diversissime fra loro ma egualmente autorevoli. Ecco chi mi ricorda Meg! Agatha! La moglie di Richard Panek non è una sua sosia, ma una sua cugina sì, potrebbe anche essere.
I gialli di Agatha sono realizzati col medesimo stampino: omicidio a pagina 12, rivelazione del probabile assassino a pagina 51 (numero messo non a caso). Poi a pagina 132 il lettore scopre di aver preso un abbaglio a pagina 51 e rimane in tal modo spiazzato, ma poi comincia a produrre tutta una serie di cabale probabilistiche che non lo portano da nessuna parte. Nelle ultime sette pagine c’è l’agnizione finale: l’assassino è quello che a pagina 51 ha destato i primi sospetti, ma ormai è tardi: Agatha-Miss Marple ti ha fatto un’altra volta fesso. Quel che ti resta ormai è passare al prossimo thriller.
In fondo, questo è The wife, un thriller psicologico.
A pagina 61 una frase mi fa rabbrividire: “Profumava di un balsamo da barba di qualche sorta, e sul mento spiccava una macchia di sangue.” Non ho idea di come sia la scrittura di Joe, ma quella che sto leggendo è potente. Mi pare una discrasia sfuggita a Meg: la narrazione dell’io è degna di una professionista, quale Joan non è stata, perché mai ha tentato di addentrarsi nel mestiere, non solo della professione, di scrittrice.
Comincio a sviluppare una tesi, poi una seconda, su chi possa essere l’io narrante reale (sento che dev’essere un maschio). Se io fossi il romanziere, se io calzassi le scarpe, magari con tanto di tacchi, di Meg, risolverei l’inghippo rivelando alla fine del percorso che dietro di lei è nascosto qualcun altro. Chi? Due sospetti: Joe, preso da un ultimo colpo di reni geniale e mitopoietico? David, il figlio geniale ma quasi autistico, capace perciò di qualsiasi miracolo? Non certo una delle due figlie, così femminilmente terra terra. Boh! Chissà chi lo sa?!
Un particolare mi ha distratto fin dalle prime pagine: Joe è un divoratore di noci e a volte ne regala una con due paroline dipinte (ti amo) alle sue vittime, pardon, alle sue studentesse sedotte e regolarmente abbandonate dopo l’atto. Anche a quella che poi ha sposato: una sorta di vincitrice di concorso.
Importante quest’angiosperma dicotiledone, come si evincerà dal prosieguo della lettura. Joè “è un uomo che mangiava noci e che leggeva Joyce alle sue studentesse.” La noce è il titolo del libro che gli ha assicurato una fama imperitura.
A pagina 66 un’autocondanna da parte di Joan: “Non sapevo davvero che cosa pensassero gli uomini, o in che modo lo pensassero. Non potevo immaginare cosa li alimentasse, cosa li guidasse, e così decisi di non provare.”
Jo cerca di darle coraggio, con la conseguenza di demoralizzarla sempre di più: “Ed è sempre stimolante mostrare le cose dal punto di vista di una donna. Siamo così abituati alla visuale maschile… trovo che avere la possibilità di vedere attraverso gli occhi di una donna dia ristoro.” Questo Joan avrebbe amorevolmente donato al marito: una vita ristorata.
Jo continua ad apprezzare la scrittura di Joan. Però fatica, chissà perché, a entrare nella mente dei suoi personaggi femminili, mogli o puttane che siano. Un muro separa i due sessi, che solo alcuni scrittori mostrano di sapere aggirare. Lui ancora, no. In tal senso si sente un po’ limitato.
La mente di Joan all’improvviso si spezza: vede se stessa e si descrive: “Si sentiva umiliata” – si creava “una distanza letteraria da me stessa e da quell’uomo che mi teneva alle spalle e mi baciava.” In tal momento cresce in lei una nuova consapevolezza, che mai più l’abbandonerà.
Una strana considerazione a pagina 98, geniale ma incomprensibile per me: “Gli uomini padroni del mondo sono ossessionati dagli impianti stereo, non chiedetemene il motivo.” Da cui deduco che o non sono per nulla un uomo o non sarò mai un padrone del mondo.
A pagina 102 un sintomo appena percettibile: “io e Joe siamo rimasti in silenzio.” Perché non Joe ed io? Suona un po’ da aspirante suffragette.
“Nessuno diceva mai ‘due jota’, era sempre uno. Il linguaggio poteva solo credersi infinito; di fatto, quando parlavano o scrivevano, tutti nuotavano lungo canali sorprendentemente ristretti.” Meg, se ti capita leggi Casse-pipe di Céline. Non tutti gli uomini sono così banali. A volte sono anche pazzi. Anche quel Joyce tanto amato da Jo; ma anche qualche donna, ad esempio la citata Woolf.
Una frase amena, a pagina 143: “‘Joan ha un sacco di impegni’, aggiungeva Jo, ‘Vi sembra poco far da babysitter al mio ego?’”
Jo è un lavoratore forzato, sempre intento a “spaccare pietre”. Joan rassicura il lettore: “gli ero stata accanto, sempre pronta ad asciugargli la fronte e a portargli qualcosa di fresco da bere.” Più una mamma o una babysitter (di quelle che in fondo al loro cuore non riescono a non odiare il bebè che accudiscono), più che un’affettuosa mogliettina. Le mogli però, sanno badare a noi mariti, pur maledicendoci a volte: “… sappiamo cosa dire agli uomini che per qualche motivo hanno molte difficoltà a prendersi cura di sé stessi e degli altri.
‘Ascolta’, diciamo, ‘Andrà tutto bene.’
E poi, come se le nostre vite dipendessero da questo, facciamo in modo che sia così.”
Ecco perché ci si sposa, mio caro Richard, per avere una babysitter affidabile e a buon mercato.
A pagina 206 un refuso: “della la chiave”, l’unico che ho trovato. Questo è a volte il nostro maritale heavy duty: rinvenire gli errori femminili.
Joan non perdona a Jo l’esistenza che gli ha consentito, ma anche obbligata a vivere, e gli dice: “Si dà il caso che tu sia qui perché ci sono io.”
Se un giorno finalmente mi concederanno il Premio Helsinki, alla fine manderei mia moglie a ritirare il premio, soprattutto il congruo assegno, nonché a pronunciare il discorso di accettazione, nel corso del quale lei non mancherebbe di avvertire l’inclita platea che il merito della vittoria spetta a lei che, mentre io poltrivo sul divano a mo’ di Andy Capp, con l’ennesimo libro in mano, mi rendeva la vita così piacevole e priva di impegni casalinghi. Lei lavava, stirava, preparava da mangiare etc etc…
Joan risulta essere stata per anni l’interprete di Jo: colei che ha fatto da tramite perché egli potesse trasmettere la sua parola. Un viatico e nulla più. Ha curato l’aspetto esteriore delle cose, come quando mia moglie mi aggiusta solitamente il colletto della camicia prima di uscire.
In due punti del romanzo, Jo benevolmente definisce Joan la metà migliore di sé. Joan è una parte di lui. Non il contrario. “Ero la sua metà migliore, e non è passato un giorno, in tutti questi anni, in cui questo non mi venisse ricordato.”
Jo dà una definizione del coniugium, a cui è arduo controbattere: “due persone che stringono un affare.”
Noi uomini scivoliamo spesso nella nostra virile volgarità: è sempre l’affare di lui che predomina. Fino a ieri era così, oggi un po’ meno. Dipende anche con quanta violenza la donna stringe quell’affare. In altri due punti l’io narrante dice che le sue cosce usavano avvolgere con energia quelle del marito, manifestando in tal modo la sua forza reale.
Il librò più magico di Agatha Christie è Dalle nove alle dieci, in cui l’assassino è l’io narrante.
Oh, lo dico en passant, senza secondi fini…
La frase con cui Joan termina il libro è indirizzata a Nathaniel Bone, petulante biografo del marito: “Joe era uno scrittore magnifico. E non smetterò mai di sentire la sua mancanza.”
Il loro è stato un matrimonio perfetto, nel senso etimologico del termine: perfectus in fine est.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Meg Wolitzer, The wife – Vivere nell’ombra, Garzanti, 2018