“Fedra di d’Annunzio” di Carlo Santoli: l’antica Grecia e la possibilità di redenzione
Il mito classico di Fedra ha ispirato generazioni di drammaturghi, da Euripide a Racine.

Anche il nostro Vate, Gabriele d’Annunzio non è rimasto immune al fascino di tale mito e nel 1909, alla vigilia dell’espatrio, ha composto l’omonimo dramma, Fedra. Rispetto alle tragedie classiche, d’Annunzio ha introdotto alcune variationes, ad esempio la sua eroina non si impicca né si avvelena ma induce Artemide a colpirla con le frecce.
Carlo Santoli, ricercatore di Letteratura Italiana moderna e contemporanea presso l’Università degli Studi di Salerno, rivolge la sua attenzione al dramma dannunziano e nel saggio Fedra di d’Annunzio (Marsilio Editori, 2019, pp. 84) ne analizza puntualmente la genesi e la messa in scena ad opera dello scenografo Léon Bakst.
Nell’estate 1895 d’Annunzio compie un viaggio – a lungo agognato – in Grecia. Dall’epifania delle antiquitates elleniche nascono il dramma La città morta e, appunto nel 1909, l’opera conclusiva del ciclo mitologico, Fedra.
Dopo la presentazione a Milano il 10 aprile 1909 e il 20 marzo 1915, la Fedra, con l’allestimento di Bakst viene rappresentata all’Opera di Parigi il 7 giugno 1923 e al Teatro Costanzi di Roma il 19 aprile 1926 riscuotendo grande successo di critica, con consensi rivolti precipuamente a Bakst, autore degli scenari.
Nel I atto un labirinto di colonne colorate costituisce la struttura del palazzo di Cnosso. Bakst segue le indicazioni di d’Annunzio nel Prologo; fondamentale è il gioco del contrasto tra la luce “occidua” e l’ombra.
In fondo al buio Bakst apre una porta sul mare. La siepe delle colonne delimita due entità spaziali, una a destra e una a sinistra rispetto al tendaggio che scende dal soffitto e che esprime l’imponenza del Mégaron, dimora di Teseo. Tale elemento è una presenza nuova e allude a un paganesimo primitivo.
Nella Grecia antica Bakst e d’Annunzio ricercano l’origine del proprio essere e della propria identità. Lo spazio, che è architettonico, pittorico e prospettico, e le luci colorate esprimono il “misterioso potere propiziatorio” sulla psiche del pubblico. I figurini si ispirano – pur nelle innovazioni iconografiche – alla statuaria greca, alle korai, e incarnano l’ideale del kalós kai agathós.
Con i motivi figurativi Bakst dimostra che l’esperienza tragica della morte, nucleo del dramma dannunziano, è elaborata dall’arte attraverso il mito dell’immortalità dell’anima.
Quello di Bakst è un teatro fondato sull’importanza del colore – giallo maculato di rosso – che è la componente centrale della rivoluzione scenica da lui operata. Egli profonde inoltre grande interesse verso la luce e la moda.
Proprio come d’Annunzio anche Bakst compie un viaggio in Grecia nel 1907; prima di tale data la sua conoscenza dell’antico mondo ellenico era vaga e approssimativa ma, una volta acquisita, si dispiega pienamente nell’allestimento di Fedra. D’Annunzio e Bakst condividono dunque il nucleo generativo della tragedia.
“In questa ricerca appassionata delle rovine del mondo classico si conferma l’assunto dell’opera, che si può definire come itinerario verso l’arte, l’archeologia e il paesaggio arcaici.”

Bakst visita Atene, Creta, Tebe, Micene, Delfi e Olimpia in una sorta di grand tour contemporaneo. Dal contatto con le rovine elleniche Bakst matura i germi del suo stile: la monumentalità e il valore simbolico della rappresentazione.
Un denso simbolismo caratterizza infatti ogni elemento della scenografia di Fedra: spirali, polipi, tori, occhi, idoli e simulacri dedalei dimostrano, nel loro valore archetipico, la possibilità di una compenetrazione tra l’universo naturale e quello soprannaturale.
Anche la struttura del palazzo di Teseo, nel II atto, assolve a una funzione simbolico-allegorica conducendo il pubblico, per via anagogica, in un percorso catartico. Erwin Panofsky parla di “prospettiva come forma simbolica”.
Lo spazio antico, per il teorico dell’iconologia, è aristotelicamente “finito, eterogeneo e incostante”, in contrapposizione a quello moderno, “infinito, omogeneo e costante”. Ebbene, secondo questo principio, l’intrico di colonne – strombate e colorate d’azzurro – prospetticamente scorciate secondo l’uso egeo, ha un valore simbolico.
La prospettiva, che rigorosamente delimita lo spazio di quelle, allineate a destra e a sinistra della tenda, ha una forte valenza espressiva, capace di sostituire la camera da presa mobile del cinema.
Il percorso catartico – di cui si diceva –, con il quale lo spettatore può rigenerarsi e salvarsi, muove dall’oscurità e dallo spazio angusto del labirinto per elevarsi, in una adscensio ad lucem, fino alla luminosità della finestra aperta sul mare e posta sullo sfondo; essa rappresenta la via d’uscita dal groviglio dell’inconscio in un superamento dei complessi e dei traumi che vi albergano.
“Alla ‘luce’, via d’uscita dal mondo dell’inconscio […] additata da d’Annunzio, l’individuo può pervenire solo dopo aver, necessariamente, attraversato e vissuto lo spazio profondo (prospettico e temporale) dell’Atrio-Labirinto.”
Lo spazio vuoto aperto dalla prospettiva centrale è infatti rappresentazione della profondità insondabile del tempo, inteso non come momento fermato faustianamente ma come ‘tempo remoto’ rivissuto e attualizzato nel presente.
Il viaggio in Grecia del 1907 rappresenta per Bakst una folgorazione, un colpo di fulmine per una civiltà di cui poco conosceva. A Olimpia, Creta, Cnosso e Micene egli ri-cerca e ri-trova le radici del proprio essere e della propria esistenza. Questo itinerario è un percorso della memoria, una memoria in cui – inconsciamente, come fuoco sotto la cenere – pulsa e vive la coscienza della propria identità.
Bakst condivide con d’Annunzio l’esperienza di questo ritorno alle origini, del regressus ad uterum comune anche ad altre eccellenze della nostra Letteratura, quali Dante, Foscolo e Pascoli.
Il viaggio in Grecia è per Bakst l’immersione nell’acqua lustrale di una civiltà primigenia, aurorale e incontaminata che diventa per lui occasione di palingenesi a fronte della corruzione e della decadenza della società industriale degli occidentali.
Architettura, colore e segni sono per Bakst una sorta di “macchina del tempo” che gli permette di tornare all’età beata dei Greci e degli Egizi, al “Paradiso perduto” che assume valore paradigmatico. Bakst, infatti, di ritorno da questo viaggio della memoria e della psiche, addita ai contemporanei questa via come unica possibilità per redimersi, per recuperare quei valori essenziali smarriti ma che, soli, possono ridare dignità e forza a una civiltà frenetica, materiale e materialista cui sfugge il senso profondo dell’umana esistenza.
Santoli opera un paragone tra Bakst e Gauguin. Quest’ultimo è sempre in fuga perché si illude di potersi salvare troncando il legame con il presente, recidendo il cordone ombelicale che lo unisce all’Occidente irrimediabilmente corrotto. A questa visione pessimistica si oppone quella ottimistica di Bakst il quale crede che sia possibile intervenire sul presente lacerato curandone le piaghe infette con il balsamo della lezione degli antichi. È questo il messaggio di Bakst, “ringiovanire in una mitica barbarie.”

Il teatro, l’esperienza drammaturgica sono lo strumento di cui egli si serve per comunicare al suo pubblico tale messaggio. Il mito pone gli spettatori al cospetto delle proprie origini ancestrali e remote.
Alzato il sipario, essi si trovano difronte a se stessi, come riflessi in uno specchio. Si tratta di un teatro che Santoli definisce “dialogico, narrativo” oltre che – potremmo dire – introspettivo. D’Annunzio e Bakst attribuiscono al mito una valenza archetipica e una funzione pedagogica.
La Fedra è il felice frutto del connubio di tutte le discipline: poesia, arte, archeologia, moda e perfino elementi propri al linguaggio cinematografico. Si realizza così quel sogno di “teatro totale” detto gesamtkunstwerk inteso come sintesi di tutte le forme artistiche che insieme concorrono al medesimo fine, ovvero dar vita a un’atmosfera avvolgente e pregna di tensione emotiva.
Il saggio di Santoli presenta una struttura tripartita. L’Introduzione espone il piano dell’opera. Segue il capitolo Dall’Ellade all’interpretazione del mito che ripete il sottotitolo e costituisce il corpo del lavoro. La terza sezione prevede una nota teatrale e la menzione di altre edizioni di Fedra.
Fedra di d’Annunzio ha tutta l’allure di un corso monografico universitario, coerentemente con il ruolo accademico dell’autore. Egli scava con rigore filologico nella materia trattata, rivelando padronanza e familiarità con la stessa. Ne risulta un’esposizione puntuale e priva di sbavature la cui lettura non è da prendere alla leggera ma richiede impegno e concentrazione. Ma, una volta entrati nel mood della prosa di Santoli, asciutta, nitida e priva di divagazioni, egli ci conduce in un viaggio dal sapore metafisico attraverso i simboli e i segni di Bakst.
Un viaggio nell’antico mito ellenico la cui attualità è più che mai viva e vitale. Sulle orme di Bakst, Santoli addita proprio il mito quale fonte e veicolo di rigenerazione per la nostra società, inquinata e viziata dalle fondamenta, e quale auspicio per una palingenesi quanto mai necessaria proprio come ai tempi del Vate e del suo sodale.
Written by Tiziana Topa