“Diario in Bolivia” di Ernesto Che Guevara: il bene genera bene, il male genera se stesso
Che, lo sai che il mio amico Gino voleva chiamare suo figlio come te? Non Ernesto, ma Che! Poi qualcuno in famiglia obiettò: Che Simonazzi non suonava bene. Per cui, obtorto collo, scelse per l’erede il più anodino Ilich.

L’immagine di quel tuo sguardo acuto, colmo d’idealismo e di un quid d’inesprimibile, dipinta sui muri o sulla maglietta di qualche sessantottino, per anni m’ha perforato l’anima. Per cui ogni tanto ho provato un senso di colpa, chiamalo rimorso o peccato, come ti pare, di non aver mai letto una riga tua.
Ho cominciato col libro sbagliato, che poi si è rivelato quello giusto: Prima di morire, una mezza furbata della Feltrinelli, perché riporta gli scritti di vari autori marxisti che andavi ricopiando sul quaderno durante le tue scorribande, con rari e laconici tuoi commenti.
Dopo che hai letto qualsiasi tomo non puoi impedirgli di agire nel tuo intimo. La funzione del suddetto è stata quella di predispormi moralmente al diario del tuo sacrificio.
Ti chiedo, Che: ma chi te l’ha fatto fare? Un bel ragazzo, della buona borghesia argentina, con la laurea in medicina (che hai conseguito per guarire dal cancro la tua mamma, tentativo nobile, coronato da insuccesso). Ma non potevi rimanertene al calduccio della tua Rosario, a meditare sulle colpe del mondo, anziché tentare invano di combatterle?
Hai contribuito a far vincere la guerra rivoluzionaria cubana e il tuo amico Fidel, che ha scritto l’introduzione, aveva già pronti non so quanti e quali incarichi per te. Un giorno domandò all’assemblea post-rivoluzionaria se c’era qualche economista in sala. Tu capisti comunista, e alzasti la mano. E fosti nominato ministro.
Quel periodo ricco di allori durò poco: presto decidesti di mollare tutto e di partire per Altrove.
E ora sei qui, in un Altrove che si rivela peggiore del Congo. Bolivia, la tua tomba silvestre!
Fidel dice che hai sempre considerato la morte come un fatto naturale e altamente probabile. Quando ti catturarono eri sfinito dalla fame e dall’asma. Non t’uccisero subito, ma ti sparacchiarono a capocchia dalla vita in giù, almeno così assicura Fidel. L’agonia ti fu interrotta benevolmente da un colpo di pistola al fianco destro. Prima ti avevano preso le impronte digitali, e poi mozzato le mani.
Per mettere le cose in chiaro subito, sappi che mai ti avrei seguito fino in fondo a quel tunnel dell’orrore, e nemmeno forse per un tratto del tuo cammino rivoluzionario. Se avessi deciso di farlo, me ne sarei scappato nottetempo, maledicendo te e quel rio destino.
Tu sei un accentratore. Ne hai validi motivi, per dio. Però manchi di furbizia, e lo dimostri quando incrini e annulli l’autorità di Monje, il capo dei comunisti boliviani, che se ne va via incazzato e malfido. Questo è stato, anche secondo Fidel, uno dei motivi della tua sconfitta. Lui dà la colpa al tradimento di Monje, io alla vostra incomprensione reciproca. Chissà, mezzo secolo dopo è difficile dire dove alberghi la ragione.

Tu per te riservi ogni potere gerarchico e sanzionatorio. Chi non accetta la cosa, se ne può pure andare a fanculo. Quando qualcuno sbaglia, non adotti il Metodo Montessori (e nemmeno il Malaguzzi) e nel tuo diario rilevi le colpe di tutti quelli che sbagliano e annoti le punizioni a cui li sottoponi.
Sto ora pensando alla tacchina che era caduta in una delle vostre tagliole e che per scappare si fa amputare una zampa: a lei va tutto la mia stima e l’affetto. Ti capisco, avevate fame, però sono solidale con quella pennuta. Anche a te poi mozzeranno le mani, ricordatelo sempre.
Dopo ogni scontro a fuoco, fino a quello di ottobre, tu elenchi le armi sequestrate ai nemici, i morti e i feriti da una parte e dall’altra, i prigionieri catturati, disarmati e a volte messi in mutande, e liberati non senza una tua reprimenda. Sei inflessibile, ma quasi umano. Non dubitavo.
A Walter non lesini le critiche: gli dici che è pigro e cacasotto durante gli scontri. E lui non l’ha mica preso tanto bene. Non ti fai troppi amici, così. Vedi tu.
Quando il tuo amato Rolando ci lascia le penne, ti viene da pensare questo: “Il tuo piccolo cadavere di capitano coraggioso ha dilatato nell’infinito la sua metallica impronta.” Chissà!
Urbano e Aniceto vengono da te redarguiti perché troppo intenti a nutrirsi e poco a lavorare per il progetto. Non dici se li hai anche puniti. In certe occasioni ti basta un richiamo verbale.
Tu che sei medico fai anche il dentista e il chirurgo occasionale per i tuoi uomini. E fai loro punture ed estrai loro il dente cariato senza fargli fare troppa fila. Estrai anche liquidi purulenti che si infiltrano nell’anima e nel corpo della truppa (nell’intimo di Miguel, per esempio).
Se qualcuno protesta per motivi irragionevoli, tu gli neghi per un po’ il diritto di partecipare alle imboscate. Pare che i tuoi militi riescano a capire come ci si deve comportare. Non tutti, però.
Sei un tipo pratico. Quando manca l’acqua nella jeep, tu e quei tuoi sandroni pisciate dentro la vaschetta del radiatore. E ci aggiungete un po’ della scarsa acqua che vi è rimasta.
Quando muore Tuma, a cui hanno spappolato il fegato, tu capisci cos’hai perso: “il compagno inseparabile di tutti questi ultimi anni, di una fedeltà a tutta prova, e comincio a sentire la sua mancanza come quella di un figlio.”
Meno male che io e te non siamo nemmeno mezzo parenti.
Tu riprendi malamente i tuoi seguaci, dicendo loro che, se non si rispettano le regole, se ne pagano le tragiche conseguenze, la morte di qualcuno di voi.
“La mula si è punta a un ramo e mi ha disarcionato, ma non mi sono fatto niente. Il piede migliora.” Il piede purulento, ah sì, che ti duole così tanto.
Vengono a mancare Raul (che era introverso, sfaticato e poco combattivo, ma molto interessato all’evolversi della dottrina politica) e Ricardo (che era indolente, indisciplinato, ma combattente nato).
Anche tu fai delle cazzate: “Abbiamo camminato per circa un’ora che per me è stata come due a causa della stanchezza della cavallina; a un certo punto l’ho colpita con una coltellata al collo, aprendole una bella ferita.” E capisci di avere sbagliato: “sono arrivato a perdere l’autocontrollo; questo non succederà più.”
La cosa ti fa filosofare: “un tale genere di lotta ci dà l’occasione di trasformarci in rivoluzionari, il più alto gradino a cui può giungere l’uomo, ma anche di diventare uomini nel senso più completo della parola; coloro che non riescono a raggiungere nessuno di questi livelli devono dirlo e lasciare la lotta.”
Non ci provo nemmeno un attimo ad attaccarmi alla fune che offri a chi vuol seguirti. Che ci vuoi fare? ôgni cajòun a gh’à la so pasioun: tu hai quella, io ne ho altre.
Quando fosti colto da diarrea e ti immerdasti, ricordi?, puzzasti come un porco ininterrottamente fino al 10 settembre: “Mi dimenticavo di sottolineare un fatto; dopo più di sei mesi oggi ho fatto il bagno. È un record che già alcuni di noi stanno raggiungendo.” Beh, era quasi ora!
A mangiare due arance ti cresce l’asma: smettila, per dio! Succede anche con la carne di cerbiatto! Vez, datti ‘na regolata!
“Oggi è morto Anselmo, il cavallo vecchio, e ora non ce ne rimane che uno per il trasporto. La mia asma continua invariata…” – Beh, te l’avevo detto!
“Ha fatto freddo ma non ho passato una cattiva notte; devono incidermi una altro ascesso nel medesimo piede.”
Il 12 settembre, a meno di un mese dal tuo recedere, trascrivi un episodio che definisci tragicomico: Eustaquio dà l’allarme, arrivano i nemici, ma è una sua allucinazione “pericolosa per il morale della truppa che già comincia a parlare di psicosi.” Al povero milite “sono venute le lacrime agli occhi”: lo affligge “la mancanza di sonno essendo da 6 giorni addetto ai servizi, per essersi addormentato mentre era di sentinella, e per averlo negato.”

Camba vorrebbe filarsela, come il topo che abbandona la nave: “Naturalmente è un caso tipico di vigliaccheria e per noi sarebbe una liberazione lasciarlo andare…”, ma ormai conosce troppo i vostri piani “e quindi non può partire.”
Anche Chapaco sogna di andarsene, non ora, promette, fra un anno: gli dici che sì, che va bene fra un anno se ne potrà andare. Se ci arriva, a un anno.
Alla sera “finiamo la vacca e non ci restano che quattro zampe per un brodo domattina.” Sta andando un po’ tutto a puttane. Mentre attraversi un fiume, dici, “ho perso le scarpe e ora sono con dei sandali di tela.”
E non è finita: “Segno dei tempi: mi è finito l’inchiostro.” (19 settembre 1967, giorno in cui nacque mio cognato).
Anche il tuo tempo sta scadendo, zurieddu. Ultimo giorno descritto: oggi è il 7 ottobre.
Nelle pagine che seguono la fine del diario, il tuo spettro parla della rivoluzione necessaria per stroncare l’invasione yankee e depreca che il nemico vi manda contro dei ragazzini, quasi bambini, a cui siete costretti a sparare, stroncando quelle giovani vite: “Nonostante il nostro rincrescimento nel vedere scorrere il sangue di reclute innocenti, questa è una categorica necessità della guerra.”
Se ne potrebbe discutere a vita, o anche a morte.
Hic et nunc, invece, si chiacchiera amabilmente sulla necessità di ridurre i parlamentari. Soltanto 1,35 euro all’anno per abitante il misero risparmio! 81 milioni che potrebbe essere destinati a… Ma c’è chi dice che a forza di ridurne il numero si cadrà in una dittatura. E c’è chi se ne frega. E che l’ammette senza problemi. Ma altri controbattono che…
Il fatto è che, tutto sommato, si sta tutti abbastanza bene e non lo si sa. Non si riesce a percepirlo. Per questo vorrei tanto che questo tuo diario infetto diventasse un libro di testo dei licei.
Ieri ho sentito il mio amico R., che il giorno prima stava poco bene, un po’ per l’afa e un po’ per il cuore: “Mi sembra di avere in petto un elemento estraneo…”, mi diceva.
A letto stava leggendo “Un eroe del nostro tempo” di Lermontov: “È brevissimo e appassionante. Ritmo vertiginoso. 170 pagine in tutto. E ne avrei voluto 300. Se penso che l’autore aveva allora 26 anni, bisogna ammetterlo che questi russi hanno una marcia in più…”.
Poi, a sera, mi ha inviato un suo splendido racconto, di quella volta che lui, Georges e Michele incontrarono…
Ma questa è tutt’un’altra storia…
Anche per lui e per me, vale l’adagio arsan che scrissi poc’anzi.
Arrivederci, caro.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Ernesto Che Guevara, Diario in Bolivia, Feltrinelli, 1990