Meditazioni Metafisiche #19: il ruolo della conoscenza intuitiva nell’esperienza misterica
I filosofi antichi non sono conosciuti direttamente, ma mediante l’interpretazione che ne è stata data. Forse questa è una espressione che tende ad essere estrema, ma è basata su dati difficilmente controvertibili del tutto.
Innanzitutto c’è il problema della traduzione. Ogni traduzione è una interpretazione (nel Medioevo latino il traduttore era detto interprete). Per secoli i filosofi greci sono stati conosciuti mediante le traduzioni e questo ha generato molte incomprensioni del pensiero degli autori, come quando i filosofi musulmani non capirono il senso della Poetica di Aristotele (scritta in greco) per via della traduzione araba (che loro leggevano) fatta a sua volta sul siriaco. I traduttori latini medioevali dei filosofi greci rendevano il greco parola per parola: restava così immutato il problema del significato di certe espressioni dubbie. Nell’umanesimo si decise di impiegare la lingua di Cicerone per tradurre certi concetti filosofici greci: ma Cicerone non aveva determinati concetti e quindi determinate parole. Questo generò ulteriori incomprensioni.
E l’originale greco? Gli uomini del Duemila non sanno bene il significato di parole famosissime in tutta l’antichità greca quali logos, aletheia, dunamis, e così via. Ci sono innumerevoli studi linguistici e filologici per capire, in Aristotele, l’esatto significato di aitia (causa?), di ousia (sostanza?), di kunesis (movimento?) o di quella strana espressione greca to ti ēn einai (essenza?).
Non solo, ma Aristotele o per la maggior non scrisse cose che dovevano essere pubblicate (ma stese appunti) o le sue opere sono soprattutto appunti dei suoi studenti. Poi le innumerevoli contraddizioni che si ritrovano nella sua opera vengono giustificate da alcuni con lo sviluppo del pensiero di Aristotele, quindi i curatori dell’opera avrebbero inserito materiale di epoche differenti.
Dopo il Medioevo si cominciarono a rileggere gli originali greci. A questo punto si pose altresì il problema della ricostruzione esatta del testo. Le opere antiche erano tramandate con manoscritti e i copisti potevano fare delle sviste comunicando quindi male il testo. Dopo secoli di trasmissione gli errori che si sommavano rendevano problematico risalire all’originale.
Quasi tutti i filosofi greci sono conosciuti per manoscritti del IX-X secolo d. C., redatti a Bisanzio quando si passò dalla scrittura greca maiuscola a quella minuscola: da allora i primi non furono più copiati e vennero trasmessi solo gli altri. Questo passaggio dai due tipi di scrittura creò ulteriori fraintendimenti sul testo originale.
In base alle divergenze sul testo della Metafisica di Aristotele i manoscritti che la tramandano si dividono in due famiglie: Alfa e Beta. Se in un dato passo i diversi manoscritti concordano, non è detto a rigore che quello sia il testo originale: questo accade per via dei secoli di differenza che li separa da Aristotele (potevano a rigore basarsi tutti su un testo di per sé erroneo). Se in quel passo non concordano, è possibile tentare di risolvere il problema con soluzioni dettate da ragioni paleografiche, filologiche, filosofiche. Nemmeno A e B erano sicuri di alcuni passi di Aristotele e allora si rifacevano alle soluzioni di Alessandro di Afrodisia, grande commentatore antico di Aristotele.
In Metafisica 993 b 30 si traduce: “Ciascuna cosa, quanto possiede di essere, tanto possiede anche di verità”, ekaston ōs echei tou einai, outō kai tēs alētheias. Questa traduzione è di Alessandro di Afrodisia, che intendeva il verbo echō come “avere, possedere”. In base a questo passo Alessandro trovò giustificazione per introdurre altrove in Aristotele metechō, “partecipare”, dicendo che le cose partecipano all’essere e quindi in senso platonico vi sono gradazioni di essere nelle cose (a volte c’è più di essere, a volte di meno). Ma questo concetto platonico legato alle Idee e alle cose che partecipano alle Idee non si trova altrove in Aristotele.
Probabilmente Alessandro si era sbagliato a tradurre il primo passo: il verbo echō significa anche “stare”, quindi sarebbe “ciascuna cosa come sta nell’essere, così sta nella verità”. Allora, se questa traduzione è giusta, Aristotele voleva dire l’esatto contrario di quanto intendeva Alessandro, cioè che le cose hanno tanto essere quanta verità.
Oltre a questi problemi linguistici e filologici, ci sono anche quelli relativi al contenuto. Cosa voleva dire Aristotele? Già Teofrasto, discepolo diretto di Aristotele, si chiedeva l’esatto rapporto in Aristotele tra il Cielo e il Motore Immobile. E a questo livello il problema viene risolto comparando Aristotele con altri suoi passi.
Questi richiami brevi e icastici sulla storia dei testi antichi sollevano enormi problemi, non ultimo quello sullo statuto della filosofia e del pensiero filosofico. La filosofia occidentale è nata con i pensatori greci, ma se non sappiamo bene cosa volessero dire, si pone il problema su che cosa sia esattamente un pensiero filosofico.
Colli negava addirittura validità intrinseca al pensiero filosofico razionale e discorsivo inaugurato da Parmenide e che ha trovato la vetta in Platone e Aristotele. Per Colli, infatti, la vera Sapienza Greca era intuitiva e appannaggio di quei pensatori precedenti i cui discorsi erano intrisi di misticismo e visioni estatiche. Forse significa qualcosa che nell’antichità vi era una imponente letteratura antiplatonica: Platone era conosciuto come Sathōn, “minchione”. E Aristotele era criticato da Plotino.
Ma è possibile fare un’ulteriore riflessione. La logica razionale può dimostrare tutto e il contrario di tutto, come insegnavano i sofisti. Ogni discorso, se ben analizzato, può venire distrutto. Carmelo Bene inveiva in una trasmissione televisiva che “tutte le cose che si dicono sono cazzate”.
È possibile fare sofismi (ragionamenti erronei) senza che ce ne accorgiamo. La mente umana non è così potente da calcolare la correttezza intrinseca di ogni ragionamento. Non solo, ma come dice il II tropo di Agrippa, “ogni proposizione rimanda ad un’altra proposizione che la giustifica, ma che deve essere a sua volta giustificata”. Ragionando razionalmente tutti ci basiamo alla fine su premesse che diamo per scontate senza poterle adeguatamente giustificare. Quando diciamo che “il cielo della notte è blu” diamo per scontata una cosa che ci pare vera, ma che tanto vera potrebbe non essere. E se stessimo sognando e in realtà il cielo fosse di un altro colore? Facciamo spesso sogni notturni nei quali cose assurde ci paiono scontate e assolutamente vere e non ci accorgiamo di stare sognando.
Oppure quando diciamo che 2 più 2 fa 4 noi diamo per scontato che esista il numero 2. È una premessa che noi diamo per scontata senza dimostrarla. Ma, se vogliamo essere precisi, non c’è un solo 2, perché tra 2 e 3 ci sono in mezzo 2, 1 e poi 2, 2 e poi 2, 3 e poi 2, 4 e poi 2, 5 e così all’infinito: ci sono infinite frazioni che separano il 2 dal 3, quindi quando diciamo 2 abbiamo idea di cosa stiamo dicendo?
Oppure quando diciamo che “è giusto essere buoni”, noi diamo per scontate delle definizioni come “giusto” e “buono” senza dimostrarle. Ci sono molti modi di intendere questi concetti che stanno nella nostra mente in una maniera molto vaga e generica. Andronico di Rodi curò l’edizione delle opere di Aristotele nel I secolo a. C. e mise proprio al primo posto le Categorie per indicare che prima di tutto occorre stabilire cosa significano esattamente i termini che si usano. Ma alla fine non si può definire tutto: ogni ragionamento si basa su premesse che non possiamo definire.
Tommaso d’Aquino appena prima di morire ebbe da Dio la consapevolezza che tutta la sua produzione altro non fosse come paglia da bruciare.
La verità non è una proposizione logica né un oggetto. La verità è il nostro personale incontro con il Mistero. Tutti sentiamo il Mistero, tranne poche eccezioni. È il senso del sacro e dell’assoluto, il brivido dell’ignoto, anche se non sempre lo vediamo come un Dio di una religione. È questa la verità, che però non è razionale e discorsiva, bensì è intuitiva. Tutti noi sappiamo di amare una donna anche se nessun pensatore ci dimostra cosa sia razionalmente l’amore.
Intuiamo in qualche maniera il Mistero e percepiamo con i sensi la cosiddetta realtà oggettiva. Mediante questa intuizione e questa percezione sensibile ci costruiamo delle idee razionali sul mondo che crediamo circondarci. A questo punto non esiste la razionalmente verità oggettiva. La verità è ciò che costruiamo soggettivamente e va bene per un singolo ma non per un altro. Ed è indimostrabile oggettivamente ciò che vale solo per un singolo in quanto vale solo per questi. Non esiste oggettività.
Tutto sta nella nostra mente. “In verità, è un’opinione stranamente diffusa tra gli uomini che le case, le montagne, i fiumi, insomma tutti gli oggetti sensibili, abbiano un’esistenza naturale o reale, distinta dal loro essere percepiti dall’intelletto. Ma, per quanto siano grandi la fiducia e il consenso di cui questo principio gode nel mondo, chiunque se la senta di metterlo in discussione scoprirà, se non mi sbaglio, che esso implica una contraddizione manifesta. Infatti, i suddetti oggetti non sono altro che le cose che percepiamo con i sensi, e non percepiamo altre che le nostre idee o sensazioni”[1]. Oggi sappiamo meglio questo: il mondo esterno è illuminato dalla luce che colpisce l’oggetto, si riflette e si ripercuote sulla retina, la quale cattura il fotone e lo trasforma in un impulso elettrico che arriva per le vie nervose periferiche fino alla corteccia cerebrale dove noi abbiamo la percezione. Il mondo esterno non esiste per noi, esiste solo la percezione e le idee che noi ci facciamo mediante la sensazione.
Noi nasciamo dal Mistero e dovremo ritornarci. In mezzo ci sono solo costruzioni mentali. Non dobbiamo fare come Empedocle, il quale per vedere il mondo al di là volle buttarsi dentro un vulcano. È solo questione di tempo: dovremo tutti ritornare di là, da dove proveniamo. E allora sapremo cosa si cela alla vista.
Noi siamo i discendenti degli antichi indoeuropei. Secondo la Sweetser dai verbi della percezione, soprattutto visiva, nasce per un procedimento metaforico il lessico degli stati interiori, tra cui la conoscenza. Una stessa radice indoeuropea sta alla base sia del vedere (latino video, greco oida) sia del conoscere (sanscrito veda, tedesco wissen). Belardi invece diceva che il passaggio fu dai termini spaziali a quelli della conoscenza: superstitio era una conoscenza veicolata dall’idea dello “stare sopra”; stessa idea la si ipotizza per l’Avestā da apastāk, “conoscenza” come “stare presso” e per Upaniṣad, “stare presso” il Maestro.
Allora l’origine della nostra conoscenza sarebbe esperienziale: non è teorica né astratta. La conoscenza vera sta nel hic et nunc, pertanto è intuitiva. Ne deriverebbe che ogni conoscenza astratta e razionale sia una sovrastruttura in sé almeno non completa, spesso fuorviante, se non a volte del tutto sbagliata.
Però in base alle conoscenze razionali gli astronauti sono andati fin sulla Luna. È possibile muovere un treno. È possibile dare farmaci che curano le malattie. In questi casi i filosofi analitici usano il concetto di “verità relativa”. La verità relativa è una verità parziale che può funzionare ma che non è assoluta.
Se conoscessimo cosa sia in sé l’elettricità, avremmo una verità assoluta. Sarebbe fatta di elettroni, ma l’atomo è solo una teoria. Noi della elettricità sappiamo solo qualche effetto, che possiamo sfruttare a nostro vantaggio. Abbiamo cioè delle verità relative. Non abbiamo una comprensione assoluta della elettricità tanto da sapere ogni cosa e dominarla totalmente. Insomma, ci sfugge quella conoscenza che cercava Faust: “E conoscessi, il mondo, che cos’è che lo connette nel suo intimo, tutte le forze che agiscono, e i semi eterni, vedessi, senza frugare più tra le parole” (Goethe, Faust, 382 ss). Mancando la totalità della conoscenza, “mi è chiaro che nulla possiamo conoscere”, sehe, dass wir nichts wissen können (v. 364).
È lo stesso discorso della ipertensione arteriosa essenziale (che non dipende da altre patologie). Non ne conosciamo del tutto la natura (quindi non sappiamo perché si manifesta), ma possiamo avere su di essa qualche verità relativa che ci permette di tenerla parzialmente sotto controllo, come evitando di mangiare salato o assumendo dei farmaci.
Per questo gli stoici antichi avevano tanta stima della conoscenza pratica. Le verità relative aiutano nella vita. Crisippo di Soli (fr. C. e 110 von Arnim): “L’uomo di natura malvagia, essendo spinto dall’errore del vizio a cui aderisce spontaneamente, è per ciò stesso stolto. E siccome è fallibile sbaglia anche nell’agire, tanto quanto, all’opposto, il saggio compie sempre azioni rette: ecco il motivo per cui noi chiamiamo beni non solo le virtù, ma anche le belle azioni. Sappiamo che fra i beni alcuni sono preferibili per sé, come la conoscenza, perché quando essa sia presente non desideriamo altro”.
Tuttavia, parafrasando le note tesi di Gorgia, possiamo dire che la nostra piccola mente non può attingere la verità assoluta.
La divinità “non dice né nasconde ma allude” (Eraclito fr. 93 DK: oute leghei oute kruptei allà sēmainei). Quindi, alla stregua di Apollo, anche non possiamo dire la verità assoluta, vi possiamo solo alludere in maniera imperfetta. La nostra mente discorsiva serve per procurarci il cibo o per guidare l’automobile. Non può attingere al Fondamento dell’esistenza umana e delle cose che appaiono.
“Un intelletto finito, finitus intellectus, non può raggiungere con precisione la verità delle cose procedendo mediante similitudini. La verità, infatti, non è qualcosa di più o qualcosa di meno, ma consiste piuttosto in qualcosa di indivisibile, per cui tutto ciò che non è il vero stesso non può misurarla con precisione…. L’intelletto quindi che non è le verità non giunge mai a comprendere la verità in modo così preciso da non poterla comprendere in modo ancor più preciso, all’infinito”[2].
È anche la distinzione indiana tra Brahman nirguṇa e Brahman saguṇa: i principi delle cose sono due, il primo assolutamente indescrivibile, acausale e immutabile, il secondo razionalizzabile e esprimibile in parole in quanto dotato di una causalità e di un mutamento nel tempo. Il Fondamento (verità assoluta) è il Brahman nirguṇa, invece i molteplici approcci che colgono qualche verità relativa studiano il Brahman saguṇa.
Platone (Politeia VI, 484): “Dal momento che i filosofi sono coloro che hanno la capacità di attingere alle realtà che sono sempre nello stesso modo e identiche a sé, mentre quelli che non hanno questa capacità vanno errando tra le molte realtà che sono in molti modi e per questo non sono filosofi”. Probabilmente questi “filosofi” di cui parlava Platone non erano quelli che noi oggi leggiamo a scuola (per esempio le opere di Platone e Aristotele che erano rivolte a un pubblico non iniziato). Platone forse non sta parlando di ragione razionale e discorsiva, ma intuitiva.
La Scuola di Tubinga ha provato a ricostruire il Platone non scritto, quello riservato ai veri detentori del sapere greco, iniziati alla vera filosofia. È un dato di fatto che nei Dialoghi platonici l’interlocutore dichiara, prima di esporre la conclusione del ragionamento, che deve passare sotto silenzio la definizione essenziale dell’oggetto. Perché? È stato scritto molto in proposito. In Menone 76 E-77A Socrate dice che l’interlocutore per sapere bene il concetto deve essere iniziato ai Misteri. Oggi noi sappiamo che nei Misteri vi era non solo una conoscenza razionale ma anche intuitiva, mistica e sacrale. I Misteri fondevano religiosità, filosofia, arte e scienza.
Proclo (Lettera all’inventore Teodoro 18) diceva chiaramente che le discipline razionali, quali la matematica e la geometria, servono a liberare l’intelletto dalle forme della vita irrazionale. Il loro scopo è quindi quello di condurre l’allievo alla contemplazione delle forme incorporee, tēn tōn asōmatōn eidōn katanoēsis. Pertanto solo di anticipare la futura sapienza misterica, che, possiamo concludere, dovrebbe essere appannaggio di chi sviluppa una intuizione ancora maggiore, vale a dire una contemplazione totale.
Il Fondamento non si può “capire” razionalmente né “esprimere” a parole ma solo “sentire” con l’intuizione: con la mistica, con l’esperienza estetica, con la religione, con l’amore disinteressato. A questo punto aveva ragione Adorno, per il quale “l’arte è più reale della filosofia poiché dichiara l’identità come apparenza”[3].
Il Fondamento non va “capito” ma va “amato” e “servito” con la vita. In India ci sono asceti che quando scoprono Dio non si mettono più seduti: poco tempo dopo i dolori alle gambe diventano lancinanti. L’origine del pensiero greco probabilmente non è stata razionale ma mistica. I “filosofi” (in greco “amanti della sapienza”) vennero dopo i “sapienti”, che erano come i sapienti delle altre grandi correnti di pensiero. In Eraclito c’è molto dei Veda indiani. E Strabone (Geografia VII, 3-4) riferiva una informazione dello storiografo Posidonio (II secolo a. C.) per cui in Tessaglia già a quel tempo vi erano autentiche pratiche ascetiche: alcuni si astenevano dal mangiare carne e altri vivevano in celibato.
Abbiamo due nature. Il nostro Io materiale vuole conoscere razionalmente, ma è un’illusione. Il nostro Sé spirituale comprende intuitivamente e, in questo modo, compie un atto di amore. Nell’uomo abitano due principi: materia e spirito.
Secondo l’orfismo, i Titani sono morti dopo aver mangiato Dioniso (fr. 220 Kern) e gli uomini, essendo nati dalle loro ceneri, hanno in sé una parte materiale e negativa (quella proveniente dai Titani, i colpevoli) e una parte spirituale e positiva (quella derivante dal dio Dioniso).
Per questo non possiamo che concludere così (Cicerone, De oratore III, 17, 67): “In primo luogo Arcesilao, scolaro di Polemone, trasse soprattutto la convinzione, dai vari scritti di Platone e dai dialoghi di Socrate, che niente può essere appreso con sicurezza attraverso i sensi o la mente. Si dice che questo filosofo, parlando in modo estremamente piacevole, rifiutasse ogni valutazione proveniente dalla mente e dai sensi e stabilisse per primo (sebbene tale metodo fosse del tutto socratico) l’uso di non rivelare il proprio pensiero e di confutare invece le opinioni espresse da ciascuno dei suoi interlocutori”.
Cicerone (Varro 45): “Pertanto Arcesilao dichiarava che non vi è nulla che si possa sapere, neppure quello che Socrate si era serbato, il sapere di non saper nulla: a tal punto tutte le cose gli sembravano nascoste nel buio; e così risolutamente pensava che non vi sia nulla che si possa scorgere o intendere. Per queste ragioni bisogna, secondo lui, che nessuno dichiari o affermi o approvi col suo assenso alcunché, e che ognuno freni sempre e trattenga da ogni pericolo di caduta la sua temerità, temerità che è grandissima quando si assente a una cosa falsa o sconosciuta; e non c’è niente di più turpe del caso in cui l’assenso e l’approvazione precorrono la cognizione e la percezione. In pratica, Arcesilao faceva quel che era concordante con la sua teoria: e così appunto disputando contro le opinioni di tutti, distoglieva i più dei suoi interlocutori dalla loro opinione, affinché, trovandosi nel medesimo argomento ragioni egualmente pesanti dalle due opposte parti, più facilmente si sospendesse l’assenso dall’una e dall’altra parte”.
Infine, offriamo questa citazione (Pirrone, fr. T. 53 Decleva Caizzi): “È necessario prima di tutto indagare sulla nostra conoscenza; se infatti per natura non conosciamo nulla, è superfluo indagare sul resto”.
Written by Marco Calzoli
Note
[1] G. Berkeley, I principi della conoscenza umana, in ID., Opere filosofiche, Torino 2011.
[2] N. Cusano, La dotta ignoranza, in ID., Opere filosofiche, teologiche e matematiche, Milano 2017.
[3] T. W. Adorno, Beethoven. Filosofia della musica, Torino 2001.