“One of Us” di Heidi Ewing e Rachel Grady: fuga dall’ebraismo ortodosso
A due passi dalla caotica Manhattan, c’è un quartiere in cui il tempo sembra essersi fermato.

Una folla di uomini in abiti scuri e di donne con lunghe gonne e parrucche tutte uguali popola Williamsburg, quartiere di Brooklyn, conducendo uno stile di vita distante dal nostro e per molti sconosciuto: è la comunità chassidica di New York, ebrei ultra-ortodossi che vivono osservando con rigore i precetti religiosi della Torah.
Fondato dal rabbino e mistico Ba’al Shem Tov nel XVIII secolo in Polonia, il chassidismo circolò in tutta Europa nei secoli successivi, avendo come principale obiettivo il rinnovamento spirituale dell’ebraismo ortodosso.
Dopo l’Olocausto, tale corrente si diffuse rapidamente in Israele e negli Stati Uniti con l’emigrazione di ebrei europei in fuga nel tentativo di ricostruire ciò che il Nazismo aveva spazzato via.
Per fare ciò i sopravvissuti alla Shoah e i loro discendenti si riunirono in comunità estremamente chiuse ed evitarono ogni tipo di contaminazione con il mondo circostante, in virtù di una purezza da preservare soltanto attraverso il rifiuto del progresso.
E del resto chiusa e rigidamente ancorata ai propri valori risulta essere la comunità di Williamsburg a Brooklyn: tanto vicina al traffico e ai grattacieli di Manhattan eppure tanto lontana negli usi e costumi.
Tali differenze emergono in primo luogo dall’aspetto dei membri della comunità: dallo shtreimel – cappello di pelo indossato dagli uomini coniugati – ai payot – i lunghi boccoli portati da uomini e ragazzi davanti alle orecchie secondo l’interpretazione della Torah.
Ma è nell’aspetto delle donne che la rigida osservanza dei precetti religiosi si manifesta in maniera più netta: ogni donna, dopo il matrimonio, è costretta, infatti, a rasarsi i capelli e ad indossare una parrucca secondo lo standard di modestia imposto nell’abbigliamento dalla Legge ebraica.
Il matrimonio è, del resto, nella comunità chassidica un rito di passaggio imprescindibile e avviene in giovane età, intorno ai 18 anni, mediante l’intervento di una specifica figura che ha il compito di combinare le unioni schedando i giovani in età da nozze.

In tale comunità il ruolo che spetta alle donne è esclusivamente quello di madre e moglie e non vengono forniti ulteriori modelli all’infuori di questi, complice anche il sistema scolastico estremamente arretrato e incentrato sull’insegnamento dei precetti religiosi.
Nessun accesso ad internet né alla TV, nessun contatto con il mondo esterno: questa è la realtà della comunità chassidica di Williamsburg, che è difficile immaginare possibile in un quartiere newyorkese, ma che esiste e da cui è difficile prendere le distanze.
Infatti, meno del 2% dei membri della comunità riesce ad allontanarsi a causa dei numerosi abusi e delle pressioni psicologiche che ne conseguono. Non tutti vi riescono, eppure diverse sono le testimonianze di coloro che hanno deciso di intraprendere un percorso di affermazione lontano dalla comunità.
Tra questi vi sono Etty, Ari e Luzer, protagonisti del documentario “One of us” diretto da Heidi Ewing e Rachel Grady – candidate nel 2007 al premio Oscar al miglior documentario per il film “Jesus Camp” – nel 2017 e prodotto da Netflix.
“One of Us” racconta da vicino tre storie differenti accomunate dal medesimo senso di oppressione provocato dal vivere in un contesto asfissiante che impedisce ogni forma di emancipazione personale. Storie di abusi, violenze fisiche e psicologiche consumatesi all’interno della comunità nel tacito consenso generale.
C’è la trentenne Etty, vittima di abusi da parte del marito, contro il quale porta avanti una battaglia legale per la custodia dei sette figli. Quello di Etty è un percorso estremamente delicato poiché l’allontanamento dalla comunità chassidica è in primo luogo fuga dalla violenza domestica.
In assenza di un supporto da parte della comunità – che, al contrario, la giudica colpevole mettendone in dubbio l’integrità poiché denunciando il marito ha infranto il divieto di segnalare un ebreo ultra-ortodosso – Etty porta avanti la sua battaglia grazie al solo sostegno di Footsteps, associazione che si occupa di supportare coloro che si sono allontanati dalla comunità chassidica o desiderano farlo.

Emerge dalla testimonianza di Etty il dramma di una donna la cui affermazione personale ha come conseguenza la perdita di ogni diritto nei confronti dei figli. I bambini, infatti, sono considerati di proprietà della comunità e a questo Etty non sa opporsi.
Come sottolineato dalla donna nel documentario, la legge non vale nella comunità chassidica ed episodi di illegalità come la violenza da lei subita vengono taciuti e confinati tra le quattro mura domestiche.
Differente è, invece, il percorso di Ari, ragazzo diciottenne che decide di allontanarsi dalla comunità poiché assalito da dubbi e incertezze. Insito nel giovane è il desiderio di scoprire il mondo circostante ed affermare una propria individualità diversa da quella imposta dalla comunità.
L’immagine che lo introduce è piuttosto eloquente: il ragazzo è, infatti, ripreso nel momento in cui rasa i capelli e rinuncia ai payot e, in questo modo, alle proprie radici. Da lì inizia la sua rinascita, sancita definitivamente dalla scoperta di internet.
Così come per Etty, anche per Ari il desiderio di libertà scaturisce da un vissuto traumatico e violento. Una violenza, quella subita dal giovane, che si è consumata nell’indifferenza generale, quando quest’ultimo era soltanto un bambino e che rappresenta una ferita insanabile.
La vicenda di Ari non è che uno degli esempi di violenze ai danni di minori perpetrate all’interno delle comunità chassidiche su cui si è pronunciato anche il rabbino Nuchem Rosenberg con l’espressione “catena di montaggio degli abusi sessuali su minori” in riferimento ai numerosi casi di violenze ai danni di minori da parte di rabbini, maestri e familiari.
Tali violenze si consumano nel silenzio della collettività e coloro che denunciano vengono ostracizzati. Opporsi a tutto ciò non è semplice poiché il prezzo da pagare è molto alto e non tutti sono disposti a farlo. Andarsene equivale a troncare ogni rapporto con la propria famiglia, rinunciando alle proprie radici e ricominciando da zero ed è questo un atto che richiede estremo coraggio.
Seppur desideroso di conoscere il mondo, tuttavia Ari non riesce nel suo intento e, sia per via della sua giovane età sia per via dei traumi che lo hanno segnato, realizza di essere incapace di vivere nella sua comunità e allo stesso tempo di non riuscire ad inserirsi nella società. Ed è così che il documentario lo ritrae: in bilico tra due mondi senza poter far parte di nessuno di essi.
Infine, la terza storia raccontata in “One of Us” è quella di Luzer, che per realizzare il sogno di diventare un attore divorzia dalla moglie e si trasferisce a Los Angeles, abbandonando la propria comunità.

Il cambiamento portato avanti da quest’ultimo è radicale e non lascia spazio a dubbi o ripensamenti poiché forte è il bisogno di affermazione personale. Così, lontano dalla propria famiglia e da una vita passata che non sente più sua, Luzer nasce una seconda volta.
Tre storie di ricerca interiore e rinascita, diverse ma allo stesso tempo simili. Storie in cui l’individualità si realizza soltanto attraverso una dolorosa rinuncia in un contesto di cui il documentario svela il lato più torbido.
La ricostruzione del mondo chassidico avviene però a partire dal solo punto di vista dei tre protagonisti e pertanto risulta incompleta. Ciononostante “One of Us” fa luce su una realtà differente e sconosciuta ai più attraverso testimonianze emozionanti in cui centrale è la ricerca della libertà ad ogni costo.
Written by Roberta Di Domenico