Intervista di Claudio Fadda all’Ammiraglio Cristiano Bettini: vi presentiamo “Come progettavano i Velieri”
“Anche Cesare ordinò di modificare le navi logistiche prima della seconda spedizione alla conquista della Britannia (ne ho scritto in Oltre il Fiume Oceano), secondo il suo intuito terrestre… fu un disastro!” – Cristiano Bettini
Cristiano Bettini è un ammiraglio di squadra della Marina Militare Italiana. Dopo gli studi classici ha frequentato il Corso Normale di Stato Maggiore dell’Accademia Navale, conseguendo successivamente la specializzazione superiore in Direzione del tiro a bordo.
Nel suo curriculum può vantare una lunga carriera che spazia dalla navigazione sulle “navi grigie” (le navi militari della nostra Marina) alle numerose esperienze su velieri e yacht d’altura in tutto il Mediterraneo, Atlantico e Mar Nero.
Come comandante dello yawl “Corsaro II” ha effettuato due transatlantiche a vela. Si è occupato di insegnamento presso l’Accademia Navale di Livorno. È autore di saggi che trattano dalla formazione etica dei cadetti e degli ufficiali, alla storia marittima e strategica, sino al suo ultimo imponente saggio “Come progettavano i Velieri, alle origini dell’architettura moderna di navi e yachts” pubblicato dalla Edizioni ETS nel 2019.
Abbiamo scelto di presentare ai lettori di Oubliette l’ammiraglio Cristiano Bettini non solo come autore che scrive di mare e di imbarcazioni, ma anche e soprattutto come uomo che ha fatto della sua vita un’avventura sul mare dalla carriera nella Marina Militare Italiana a quella di velista su alcune delle più belle barche d’epoca che solcano il Mediterraneo e gli oceani.
C.F.: Buongiorno Ammiraglio Bettini, la ringrazio per la Sua cortesia nel concedermi questa intervista.
Il suo ultimo libro “Come progettavano i Velieri, alle origini dell’architettura moderna di navi e yachts” va a colmare una lacuna nella letteratura nautica italiana affrontando attraverso il tema storico e integrandolo anche dal punto di vista della scienza matematica e fisica dando un maggior respiro al tema della progettazione navale. Che ruolo ha giocato la sua lunga esperienza in campo navale nell’affrontare questa tematica nel suo saggio?
Cristiano Bettini: Le rispondo indirettamente partendo dalla bibliografia dei quasi 300 volumi che fanno parte della mia biblioteca personale in tema di architettura e costruzione, che vanno dalla metà del ‘600 ad oggi, che negli anni ho avuto modo di leggere e confrontare. Da qui emerge che fino alle prime due decadi circa dell’800 il perfezionamento delle linee degli scafi delle marine atlantiche da parte degli architetti, avveniva principalmente in base ai rapporti dei comandanti dei vascelli i quali, al termine di ogni navigazione, dovevano redigere un rapporto su andature, tenuta al mare, sbandamento e scarroccio in funzione della velatura usata, bilanciamento, manovrabilità, velocità, ecc. che viene riportata nelle sue componenti significative nei testi antichi di architettura. In base a questi l’architetto perfezionava gli scafi e le velature dei progetti successivi, che raggiunsero così quelle “sublimi linee” di cui scrive l’architetto Carlo Sciarrelli. Insomma una procedura che oggi chiamiamo try & error. Questa procedura nelle decadi successive è andata sfumando, prevalendo il puro calcolo e così spesso gli errori venivano rilevati solo a posteriori, come viene lamentato in diversi testi successivi. Il disastro del HMS Captain del 1867 fa parte di questo processo. In conclusione: le esperienze su diversi grandi velieri italiani e stranieri oltre a più piccoli yacht, mi hanno consentito di comprendere l’effetto, anche su grandi velieri, di fenomeni come strambate, risonanza, limiti di stabilità dinamica, rapporto tra vele e comportamento dello scafo, bilanciamento e controllo dei movimenti, limiti e tempi di manovra ecc. che ho cercato di descrivere… quasi come se fosse il rapporto di uno dei comandanti del passato!
C.F.: Quando e come avviene il passaggio dal metodo tradizionale all’architettura navale moderna?
Cristiano Bettini: La transizione è lenta per vari motivi: prima dello sviluppo dell’analisi infinitesimale e della meccanica di fine ‘600 i fenomeni venivano compresi ma non erano traducibili in un metodo scientifico; l’analisi metacentrica di Bouguer ed Eulero in teoria sblocca l’incertezza sul controllo della stabilità nella quarta decade del ‘700, ma solo per le piccole inclinazioni. Per le grandi inclinazioni bisognerà attendere l’inglese Attwood a fine ‘700; per la comprensione della stabilità dinamica si giunge solo verso la metà dell’800, con l’altro fisico inglese Moseley. A questo progresso scientifico che oggi può sembrare lento, va aggiunta una scarsa circolazione delle innovazioni, in parte voluta, nonché un conservatorismo di diversi settori delle società di allora restii a lasciare metodi di progetto e costruzione tradizionali, che nelle loro geometrie distinte dai principi fisici, apparivano più comprensibili.
C.F.: Sapere, ma anche saper fare. È stato difficile introdurre la nuova scienza progettuale negli arsenali navali in cui le navi per secoli son state costruite grazie all’esperienza dei mastri d’ascia? Tutte le marine hanno saputo cogliere questa innovazione positivamente?
Cristiano Bettini: Qui possiamo aggiungere qualche altro aspetto di questo conservatorismo che, oltre a quanto detto, si spiega anche con la difficoltà di molti cantieri nel disporre di personale, tra cui i maestri d’ascia, di un livello culturale adeguato. Ma questa ignoranza era anche a livello dei regnanti e dei letterati; le cito questo brano indicativo di una mentalità diffusa da una lettera del 1778 di Voltaire a Federico il grande di Prussia, di cui era confidente, che ambiva ad ampliare la sua piccola flotta:
“Gli inglesi hanno costruito navi di tipo migliore indicato da Newton e i loro Ammiragli mi hanno assicurato che queste navi sono molto meno buone di quelle costruite con le regole suggerite dall’esperienza”.
Nei nostri regni pre-unitari, i migliori progettisti venivano ingaggiati soprattutto in Francia e, nonostante una rilevante qualità costruttiva diffusa, l’innovazione progettuale languiva e proveniva da piani costruttivi stranieri. Si distingueva in parte la Serenissima grazie ai suoi rapporti mittel-europei, spinta dalle esigenze di una flotta che voleva competitiva nel Mediterraneo; purtroppo Napoleone nel 1797 spense quel mondo. Un buon indicatore del progresso raggiunto, quasi una cartina di tornasole usabile, è la conoscenza e l’uso del metodo metacentrico nei progetti, che nel testo ho descritto per il livello di conoscenza nelle varie nazioni.
C.F.: Quanto e come ha influito la moderna tecnica di progettazione navale nel campo delle esplorazioni e nella costruzione del sapere geografico?
Cristiano Bettini: Le navi impiegate per le esplorazioni, normalmente delle medie fregate adattate all’uopo, si avvalevano dei progressi raggiunti nei corrispondenti vascelli, come d’altronde avveniva per i velieri mercantili. La riduzione dei pesi delle artiglierie nei due ponti, pesi in parte sostituiti da provviste per lunghe navigazioni, miglioravano la loro stabilità abbassando il centro di gravità e talora riducendo l’esigenza di aggiunta di zavorra, oltre a rendere più sopportabile il rollio.
C.F.: Fra le sue numerose note ho trovato citati Chapelle e Chapman. Nel ‘700 le diverse marine europee e delle colonie d’oltre oceano erano alla ricerca della velocità a vela. Compaiono i dispatch schooners con le loro linee d’acqua filanti e una capacità di manovra molto più rapida rispetto a un vascello di linea, e la mente richiama facilmente i privateers del periodo coloniale americano. Quanto ha influito la moderna progettazione navale nella nascita di questi scafi?
Cristiano Bettini: In realtà il processo è avvenuto in senso inverso e poi ha caratterizzato il design navale americano, trasferitosi poi per molti anni anche sugli yacht: sono state le esigenze degli insorti delle 13 colonie di forzare il blocco inglese dei porti, quella dei contrabbandieri di approvvigionarle, le navi corsare (privateers) nonché la velocità di fuga necessaria alle navi negriere, a far ricercare forme nuove, (maggior larghezza, minor immersione, diversa velatura, basso bordo libero, ecc) talora con rischi notevoli. I dispatch shooners, per quanto sviluppati negli USA come schooner, erano nati da esigenze delle flotte europee e sembra che i primi disegni fossero francesi. Tuttavia già prima la velocità aveva affascinato il più significativo architetto del ‘600, Deane, e quello del ‘700, Chapman; infatti entrambi progettarono anche yacht (reali), non solo navi. Il patrimonio genetico di questi progetti è dentro i nostri yacht attuali.
C.F.: Oggi, nel campo delle barche a vela, al variare delle richieste e del tema proposto dagli armatori, i progettisti perdono un mucchio di tempo a “reinventare” soluzioni tecniche già note in passato. Abbiamo perso la memoria storica della progettazione navale e la conoscenza della navigazione o è realmente necessario ripartire da zero ad ogni progetto, pensando alla navigazione a vela come se fosse un esperimento che si ripete all’infinito nel tempo?
Cristiano Bettini: I monoscafi classici costruiti fuori dalle regole di stazza hanno raggiunto forme marine quasi perfette già nella prima metà del ‘900 e nel libro Lo Yacht, la panoramica che Sciarrelli ne fa è esplicativa; alcuni ulteriori progressi nei monoscafi si sono ottenuti nella riduzione della superficie bagnata dell’opera viva e quindi alle velocità (basse) soggette prevalentemente all’attrito e nella tecnologia delle vele e dell’attrezzatura velica. Intendo dire che la marinità (seaworthiness) ottenuta dal design degli scafi d’altura da tempo consente di navigare con sicurezza se si privilegia questa alla pura velocità. La ricerca della velocità è ormai parte di un diverso circuito, come lo sono le auto di formula uno rispetto alle berline; qui si accetta un rischio maggiore e una marinità solo accettabile. Anche nel passato imbarcazioni da regata di caratteristiche estreme soggette a regole di stazza, come nel 1886 l’Oona (lunga 10 metri, larga solo 1.5 m con ben 186 mq di vela!) che affondò dopo poco, non erano nel normale circuito dell’altura. Sono più perplesso sull’attuale tendenza di inserimento di comodi moduli abitativi di stampo terrestre o aeronautico su carene veloci, che hanno costretto, come lei dice, a riscoprire soluzioni del passato (penso al design degli Sharpie americani del 1890), ma con adattamenti che a mio avviso, estetica a parte, non appaiono idonei a navigazioni impegnative e protratte su cui è bene essere più cauti. Ricordo che chi aveva impostato con i suoi Moana tutto il progetto attorno alla marinità e robustezza strutturale era Franco Malingri; certo si trattava di un dislocamento pesante con un costo finale maggiore. Tuttavia non voglio dire che non si possano fare delle eccellenti barche d’altura sicure a dislocamento leggero (Sciarrelli docet) ma questo comporta parametri del progetto diversi. Sono le contaminazioni di puro effetto estetico o abitativo, su cui potremo in altra occasione dissertare più a lungo, che possono essere illusorie.
C.F.: Alla luce di ciò, secondo lei cosa è moderno e cosa non è moderno in una barca?
Cristiano Bettini: La modernità di un oggetto è strettamente legata alla rappresentazione che ciascuno di noi proietta su di esso; questo vale anche per le barche. Cioè se scegliamo la categoria “modernità” per valutare una barca, entriamo in rappresentazioni culturali strettamente legate a vari modelli estetici che ci circondano ed influenzano e che mutuano un design estraneo all’ambiente marino; d’altronde la radice etimologica di moderno è la stessa di moda. Il punto di ingresso dovrebbe essere la marinità di uno scafo ed allora scopriremmo che quanto disegnato dai grandi architetti del ‘900 come Fife, Herreshoff, Giles, Alden, Sciarrelli, Sparkman & Stephens, Ahker, Holman, Carcano, Griffiths e tanti altri, essendo marino è anche e ancora moderno; così dovremmo culturalmente rifiutarci di definire moderno (e solo per questo bello) ciò che non è marino, …anche se starebbe molto bene in una villa al mare. Da questo punto di vista potrei dunque chiedermi: la prua verticale è marina o no? Le linee d’uscita poppiere lunghe e piatte sono marine o no? Baglio massimo ed elevate altezze di puntale rispetto alla lunghezza sono marini o no? I timoni appesi sono marini o no? Le poppe aperte sono marine o no? Se sì, sono anche attuali e non solo di moda.
C.F.: Qual è, secondo lei, il futuro delle barche classiche e dove ci sta portando l’innovazione delle barche moderne?
Cristiano Bettini: Anche in questo vale l’etimologia della parola: un oggetto classico non ha bisogno di futuro ed ha già conquistato il passato. Una barca classica non ha tempo, ha quindi già il futuro. Le sue linee sono già nel nostro retroterra culturale, come il legno con cui erano costruite.
Nell’osservare le barche moderne, invece, credo che tutti noi ci dobbiamo sì sforzare di osservare senza pregiudizi modelli estetici nuovi, partendo però dalla loro marinità, come detto, sia nell’opera viva quanto nell’opera morta ed in relazione alle performance che il progetto vuole perseguire. Navigando meno e per tempi più brevi, vivendo più in banchina, una trasmigrazione dei più comodi modelli abitativi terrestri in barca non può non avere successo commerciale e credo che questo trend, come quello dei moduli aeronautici che “sanno di modernità”, continuerà, adattandovi tutte le tecnologie attuali dei materiali e dei sistemi di comunicazione e informatici. Tuttavia una barca comoda, stabile e solatia in banchina non può trasformarsi appena esce in mare in una macchina da regata, come spesso il proprietario crede o in grado di affrontare qualunque mare! Ogni barca, come ogni nave, nasce con scelte e presupposti di progetto decisi dall’armatore con il progettista, che li realizza con una serie di compromessi, ma quei presupposti non possono essere dimenticati.
Anche Cesare ordinò di modificare le navi logistiche prima della seconda spedizione alla conquista della Britannia (ne ho scritto in Oltre il Fiume Oceano), secondo il suo intuito terrestre… fu un disastro!
C.F.: Non solo le navi, ma anche le moderne imbarcazioni da diporto sono sempre più un concentrato di elettronica e tecnologia. Tuttavia, negli anni ho imparato a mie spese che non si naviga solo quando a bordo sono rose e fiori. Parliamo di sicurezza, problemi tecnici e gestione dell’equipaggio in condizioni complesse. Una accurata progettazione e costruzione può prevenire o aiutare in caso di problemi a bordo? Quanto contano la componente tecnica e quella umana?
Cristiano Bettini: Vedo che siamo insieme tornati circolarmente al cuore del problema della marinità del complesso nave- equipaggio. Chi disegna la propria barca ideale per le blue waters, una barca d’altura, la pensa anzitutto come un guscio in grado di tenerlo a contatto con il mare e allo stesso tempo di proteggerlo in qualunque condizione… anche a fronte di possibili errori di conduzione e in condizioni meteo imprevedibili: è la mitizzata barca ideale che si chiede immancabilmente al progettista. Si dimentica che non c’è barca ideale senza equipaggio ideale (aggiungerei senza skipper ideale). È un modello di partenza per trattare i modi di affrontare situazioni che richiedono di modificare il nostro modo di pensare usuale, che trattai in “Processi decisionali in ambiente complesso”. Mi sono trovato a vela in condizioni molto difficili sia in Atlantico che nel Mediterraneo orientale e senza un equipaggio motivato, capace e resiliente, sarebbe stato difficile uscirne indenni per le sole qualità della barca. La storia di molte gravi perdite in mare di ottime barche, a partire dal non dimenticato Fastnet del ’69, parla proprio di una mancata simbiosi di uomini e barca.
C.F.: Vorrebbe chiudere con una citazione?
Cristiano Bettini: Chiuderei con la frase di Sciarrelli, che ebbi modo di conoscere in barca, forse un po’ radicale ma che sintetizza l’attrazione iniziale che avevamo entrambi per le linee d’acqua dei velieri del passato quale scuola per lo studio di quelle successive:
“Le imbarcazioni moderne non sono altro che fantastici piani velici su rozzi scafi, mentre le fregate del Settecento avevano linee d’acqua sublimi con vele disastrose”. – Carlo Sciarrelli
C.F.: Ammiraglio, la ringrazio per la sua cortesia e per le interessanti riflessioni a cui portano le sue risposte. Vorrei salutarla anch’io con una citazione di John H. Illingworth, dall’introduzione dell’ormai raro e – in Italia – poco conosciuto saggio “Further Offshore”:
“Oggi il progetto dello scafo deve essere corretto, il piano velico e il sartiame devono essere corretti, e soprattutto gli skipper e gli equipaggi devono essere addestrati per ottenere il meglio dalle loro barche. Buona fortuna e buona navigazione a tutti voi.” – John H. Illingworth
In lingua originale:
“Today the hull design must be right, the sail plan and rigging must be right, and above all skippers and crews must be keyed up to get the best out of their boats. Good luck and good sailings to all of you.” John H. Illingworth
Written by Claudio Fadda
Info
La striscia di Carlo Sciarrelli
Vorrei, anche io commentare quanto sopra scritto, con una frase che Sciarrelli diceva spesso ai committenti le sue barche:
” Il bello non è nuovo, il nuovo non è bello.”
Ottima intervista. La barca classica è tale “for ever”. Quella moderna sarà mi pare di capire sempre più
mirata al tipo di utilizzo.
Può diventare anche una specie di abitazione…..!
Pure le barche d’epoca possono diventare “una specie di abitazione”. Dragut docet!