“Sommersione” di Sandro Frizziero: quando l’io diventa un tuo personaggio
Leggendo le prime, squinternate, pagine del libro, mi propongo una missione quasi impossibile: scoprire chi dà del tu al bieco protagonista.

In realtà conosco già la risposta: si tratta dell’autore stesso, trasfigurato in un’anima gemente che tanto, in vita sua, ha fatto gemere il prossimo (soprattutto Cinzia, la moglie), ma essa non mi soddisfa e quindi tiremm’innanz.
“Ogni occasione era buona per tirare fuori il diop… che ti usciva…”, che, caro eventuale prossimo lettore, ti assicuro che non ce n’è di bestemmie peggiori di quella che lui esterna e che io censuro. Era l’unica che circolava quand’ero sotto la naja, emessa come un peto tanto dai veneti quanto dai calabri, bestemmia standard, e se io fossi uno scrittore questa userei in prima battuta, anche se poi la sostituirei con Dioscapeedaca’, fuggiasco, oppure diocànarein, passeriforme, oppure dioscandiàn, natio del paese di Boiardo, ma poi forse rimetterei la prima che m’è uscita, proprio per non farmi individuare come un imprecante sui generis.
Il lui, che è poi un io, si lamenta, attribuendo il suo malumore al protagonista: le pene di Cinzia, che la condussero a una precoce morte, le doveva passare il prete, non lei, che lei era una fida pecorella dell’armento di Santa Madre Chiesa, ma piuttosto quel pretastro, “omiciattolo come gli altri, preoccupato soltanto della propria sopravvivenza”.
Ma come fa Sandro a conoscere i pensieri più intimi del pescatore? Mistero della fede nella letteratura, dove qualunque fesso riesce a introdursi nei pensieri non solo degli uomini, ma anche, addirittura, delle donne, e pure delle bestie, come e quando vuole, e solo se vuole. Accade che quei pensieri fuoriusciti dalla maschera di turno, vengono talvolta cambiati, secondo l’estro del dio (stavolta non cane, ma, peggio, scrittore), come se si potesse tornare indietro nel tempo (volando più veloci della luce!) e mutasse qualche variabile connessa al principio d’indeterminazione di Heisenberg, e tutto il mondo allora ricomincia, ma Altrove.
“Era così gioioso quel pretaccio, circondato dalle sue fedeli ammiratrici, che quel Cristo in croce appeso alla parete che lo guardava serio aveva pure cominciato a dargli fastidio…”, lui che “aveva cominciato a mangiare come se i vizi capitali fossero sei e non avesse mai sentito parlare dell’ingordigia…”
L’io è in vena di facili accuse: “Anzi di te si può solo dire che non hai fatto altro che irritare e infastidire le persone, questa è la verità, mettendo continuamente in discussione le loro convinzioni e facendo fallire i loro tentativi di riportarti in seno alla società. Per questo ti odiano.”
Nooo! Lui, l’io narrante, non mette, nooo!, macché!, in discussione la verità del suo tu… anzi, gli agevola decisamente il suo rientro in società. Come no!
Chi, se non lui, s’intrufolava in segreto dentro la casa del Nane, dove operava la badante Polina? La quale “oltre che a spazzolarne la casa e a cucinargli speziatissime ricette di carne, che non avevano mancato di fargli venire terribili quanto reali disturbi intestinali, offriva al Nane anche una serie di servizi extra, come lo scuotimento, tra l’altro senza risultati rilevanti, delle parti intime, con annessi strusciamenti e palpazioni.”
Posso anche ammettere che Polina abbia fatto la spia su tante cose, che non fosse altro che un’etera domestica, e non dubito che Nane abbia detto in giro che ci provava con lei, ma come faccio a essere sicuro che il suo pene sia rimasto inerte. L’io narrante lo è.
Quando lei gli rubò tutto, profittando del fatto che egli fosse intento a evacuare di brutto, lui “l’aveva chiamata una, due, tre volte, fino a quando aveva scoperto che era scappata…” e “il Nane era rimasto fregato pure col culo sporco.”
I figli così lo trovarono, ma chi ha deciso che aveva chiamato la Polina una, due, tre volte?
Passiamo all’ex moglie, che non può più testimoniare, giacché deceduta: “… si sarebbe sentita persa senza la tua presenza forte, senza le tue bestemmie, almeno così pensavi…” Ecco che Sandro si è trasformato in una prodigiosa sinapsi, collegata, contemporaneamente a un neurone di Cinzia e a uno di… del protagonista. Come dire: la Verità è sommersa nel suo cervello, in quello di Sandro intendo.
L’io-tu-lui narrante segue il protagonista financo nel bagno, dove assiste alle classiche, prevedibili operazioni della minzione: “… ti abbassi i pantaloni, e ti prendi in mano il pene, l’uccello vecchio, circondato da pelo bianco. Pisci appoggiandoti allo sciacquone e ti ricordi di quando lo infilavi dentro le fiche e i culi delle donne quell’uccello vecchio, mai dentro i culi degli uomini perché i finocchi li bruceresti come monito per chi vive contro natura.”
A parte il fatto che queste sono al massimo verità probabilistiche e per nulla comprovate… Se il pelo, per qualche miracolo semidivino, non fosse canuto, ma nerissimo? E ci andavano insieme a donne, lui e l’alter tu per poi conversare amabilmente di quello che si è fatto e come? Si tenga inoltre presente che solo una percentuale non troppo alta, diciamo intorno al 37%?, degli uomini, per orinare, si abbassano i pantaloni, mentre il restante 73% lo fa limitandosi ad aprirsi la potta (bottonata o a cerniera cambia poco), estraendo l’organo; e, domanda non ultima per gravità, quest’intolleranza omofobica a chi appartiene, al tu o all’io?
Capita poi all’ io-tu-lui narrante… Che d’ora in poi affronto di persona, come se fosse quello che è: un ente come tutti gli altri, come me e come quell’altro, l’investigato, presunto colpevole di chissà quale crimine, fissandolo nella ghigna. Quindi, ricomincio, ti capita di entrare in un sogno del pescatore che viene pescato da una rana pescatrice.
Chi te l’ha raccontato? Questa ricchezza di particolari nel descrivere la sensazione orribile di essere stato trafitto da un amo: “un dolore che pian piano aumenta, si allarga e ti scende lungo tutto l’esofago”, ci hai pensato su o li hai provati uno a uno, come se fossi tu il pescatore pescato dalla rana pescatrice?
La tua finzione nacque con la pesca di un’orata, ricordi, in cui eri entrato nel cervello di chi pesca sapendogli dire cosa sta provando in quel momento. Quindi tu sei un meccanismo che permette al personaggio di pensare. Sei forse davvero un groviglio incasinato di sinapsi?
Descrivi per filo e per segno un canicidio perpetrato dal tu, che buono non è, ma ti sei visto te? Costui, come ispirato da te, anzi: “mosso da una forza misteriosa”, va in cantina, piglia del veleno “a granuletti blu”, da notare la precisione della descrizione, lo mischia a della carne e lo getta a Gigia, la cagna della Marzia, che accusa il colpo, si rintana nella cuccia, “che ora funziona perfettamente da bara”. Qua ci sono gli estremi di una denuncia all’Autorità Giudiziaria, per un’ipotesi, anzi due, di reato: omicidio di animale domestico, oppure calunnia.
Subito dopo tu vagli le varie future morti del tuo carissimo nemico: o in ospedale, circondate da infermiere atarassiche, oppure in casa, col “puzzo dolciastro della tua prima putrefazione”. Oppure con le cosce immerse tra quelle di una “contadinotta trentacinquenne nata a migliaia di chilometri di distanza dall’Isola e destinata a essere l’urna funeraria del tuo cazzo”. La meretrice becchina è, chissà perché, cinese, forse perché costa meno di questi tempi?
Oppure in taverna, soffocato nell’eroico “tentativo di mangiare un mezzo uovo con l’acciuga” e, poi, che c’entra l’INPS adesso, l’unico Istituto che si occupa del tuo antagonista, “che non dovrebbe più liquidarti la tua bassissima pensione”? Che c’entra? Anche la Fornero, che Dio l’abbia in gloria!, parlava di aspettativa di vita. Non l’ha mica inventata lei, l’INPS, Lei, la morte! Lei, poveretta, si occupa dei vivi!

Il passaggio precedente evidenzia quel che, in questo, analizzo. Fra i tanti esseri in cui potresti camuffarti, non c’è né il caso né Dio. Einstein giurava che Dio, in quanto tale, non giocasse a dadi col cosmo. Bohr gli rispose che Dio era Dio, Einstein no: che stesse zitto, perciò. Poi venne un tale che di cognome rintoccava Bell, il quale affermò che, senz’ombra di dubbio, Dio giocava sì a dadi, ma barava come il Primo (e l’Ultimo) dei gambler: tutto questo perché nessuno sa per quale motivo una particella che spari da qui mirando lì, va a finire lì ± x.
Finché non si saprà predeterminare con precisione, ma soprattutto certezza quella x, nessuno potrà mai essere sicuro di nulla. Poi arrivò un altro, un certo Hugh Heverett III, che ideò l’ormai stantia teoria dei multiversi, per cui quella particella Lei può scegliere dove andare, creando mondi paralleli e mai trasversali, non tu, caro amico scrittore, a meno che… tu non finga…
Qui non ce la fai a proferir fandonie, perché forse il tu è ancora vivo e rischi di fare una brutta figura. Soggetti morti! Questo mi permetto di suggerirti, almeno finché tu non ti divinizzi (come altri, più di te celebrati autori, senza bisogno che ti offenda: Balzac, Hugo, Dostoevskij e Tolstoj, ma non dimenticare mai, in questa serie, il più convinto degli artefici, quello che credeva di saper ripetere, anzi, riprodurre la Natura: l’italo-galletto Zola). Loro mentivano e, mentre lo facevano, creavano.
Tu ti arrabatti, almeno fin qui, dato che ho appena terminato di leggere la prima parte. Ma prima di passare alla seconda, ti voglio dire che non scrivi male, scrivi orrendamente, ma sai attrarre l’attenzione di un lettore per sua natura reagente come me, e sai conferire l’idea a quel che narri. L’episodio della pia donna che bestemmia al culminar della sua esistenza ricorda, anzi, è quasi identico alla storia di mio cugino di secondo grado, il caro siin Abbondi, che vinse parecchie gare di campionati di campanari, il quale, in vecchiaia, preso da una strana follia, cominciò a sacramentare a suon di musica. Grazie, caro, per avermelo ricordato… Ora passo alla seconda parte, dai…
A un tratto, ti metti a vituperare le zingare, che non servono a niente, a differenza delle nigeriane che almeno danno una gran parte di sé, queste no, se non ti chiedono l’elemosina significa che sono ladre (oppure che hanno due attività, dico io), ma queste non sono le idee del tu, ma di quel “Tocia che alla taverna dice che bisognerebbe riattivare i forni” o di chi? Non è che siano…?
Poco dopo la frase più schifosa (magari anche vera) che abbia mai letto. Subito dopo aver scritto che in fondo il morto non è che una comparsa in un mondo fatto di vivi, aggiungi: “perché morire vuol dire prima di tutto uscire dalla ridicolaggine dell’esistenza”.
Dopo un Padre nostro che meno cristiano e fideistico non si può (ma chi è l’orante?), ti metti a discorrere sulla lapide di Cinzia, la moglie del tu, a cui balla un po’ la “C” e poi discetti sulle differenze fra la Taverna e l’American Bar.
Da come li descrivi, con abbondanza di particolari, si vede che li frequenti tutti e due, questi ameni esercizi pubblici. Ma per quale motivo, per tenere sotto controllo il tu? Il primo, un esercizio di “discretissimi” titolari cinesi, è una bettola e poco più, dove vi sono vecchi inaciditi che giusto possono invidiare chi ha una dentiera nuova, chi utilizza la latrina in modo autosufficiente, e dove ogni chiacchiera si perde prima ancora che sia pronunciata.
Nell’altro, è tutto diverso, il titolare è gentile e premuroso, la figlia, Carlotta, molto simpatica, che accetta anche le battute un po’ spinte, ma non di “farsi palpare” il posteriore, “anche solo per un attimo”, quello no, per tale fattispecie occorre recarsi altrove, dai cinesi, e non bisogna forse specificare che il tu preferisca questi ultimi, meno invadenti ma più proni ai desideri dell’anziana clientela.
Domanda, ma tu, quando vai all’American Bar, gliel’hai mai provato a toccare il deretano a Carlotta? O anche tu hai preferito, ad un certo punto della tua esistenza, con la scusa di marcare stretto il tu, hai preferito quel catemos-tott quel troviamoci-tutti dai cinesi, che lì alla fine ti permettono ogni cosa, anche il petting spinto, purché alla fine paghi. E non gliene ne frega nulla a nessuno, vero?, che “ogni argomento si esaurisce in un gesto o in rutto, alla Taverna.”
C’è poi il fatto da non trascurare in una disamina che possa dirsi puntuale e che riguarda un tostapane che Cinzia aveva “acquistato in offerta al supermercato dei Tedeschi senza consultarsi prima con te”, un aggeggio casalingo che “non avete mai usato, tra l’altro.” Di più non riporti, ma ti chiedo: eri al Supermercato con lei, quando l’ha comprato, oppure sai che l’acquisto è avvenuto in un periodo in cui era notoriamente in offerta? Oppure tiri a indovinare? E chi ti ha dato la prova che esso non sia mai stato utilizzato?
E a cosa sarebbe servito, nelle intenzioni di Cinzia, a tostare il pane da immergere nel caffelatte? O a preparare toast? O non te l’hanno comunicato questi ipotetici vicini di casa?
Tu dici, rivolto al solito tu: “Soffrono i tuoi compagni di bevute, è evidente, perché lottano contro un dolore del tutto nuovo, ammesso che possano esistere davvero dolori nuovi: quello scaturito dalla noia.” E poi aggiungi: “Senza dubbio, è stata la pensione a trasformare quegli uomini in quello che sono.”
Ti ringrazio, caro, a dicembre di quest’anno anch’io sarò ridotto in simil guisa.
L’episodio in cui muore il giovane marinaio Agostino ti fa sbiellare, per cui finisci per dire una stupidaggine: “nelle tragedie muore sempre il più giovane, è un fatto di natura”. Infatti, “in paese pensavano che dio stesso, che in questo caso aveva agito, non si sa per quale oscuro motivo, per mezzo di un soldato slavo, avesse scelto male la sua vittima…”

Fratello, tu forse ignori il frammento del greco Menandro, in cui si dice che “muor giovane colui che gli dei amano”. Similmente, anche il latino Plauto affermava che “quem di dilugunt, adulescens muritur”.
Un’altra mazzata a pagina 141: “Non esiste sofferenza alcuna se non la senti sul tuo corpo”. E questo cosa vuol dire? A chi si riferisce? A me? A te? A tu? All’intera compagine umana e subumana? Anche alle bestie?, anche a Bigia?, la cagna che il tuo tu ha ammazzato, il cui crimine, per quel che ne so, è ignorato da tutto il mondo, ma non da te, da me e, ovviamente, da tu, il premeditato e volontario assassino.
Poi ti diverti a raccontare le prodezze amatorie del tu, magnificando il suo usbergo, e il suo modo di sverginare Marina, la sedicenne innocente ma non troppo, compiendo poco meno di uno stupro, non del tutto, forse, lei era d’accordo a metà, ma il tu le aveva fatto sagacemente ingurgitare un amaro di quelli che vanno alla testa e poi, pluf!, l’aveva penetrata senza dir né tanto né quanto, salvo poi ganassare: “Te l’ho rotta, Marina, le avevi detto ridendo, te l’ho rotta.” Ma, il tutto, perché l’hai narrato?
Mi sa che l’ho capito io il perché: dopo aver sbrodolato qualche volta sulle nigeriane, pagando e provandone vergogna, il tu aveva smesso di farlo, e tu gli metti il dito non dico dove, diciamo sulla piaga, irridendolo: “Ci sono nigeriane nuove, lo sai, giovani di vent’anni che ne dimostrano quaranta, che vanno con vecchi bavosi un po’ meno vecchi e bavosi di te. Ma non ti interessa, non ti interessa più niente.” Certo che sei proprio un bell’amico, tu…
Ho iniziato l’ultima e per fortuna breve terza parte. Come per le altre due, la narrazione inizia con un groviglio intricato di rumori, suoni, colori e luci, e poi, come potresti farne a meno!, ti rivolgi al tuo amatissimo e odiatissimo tu. Dici delle cose che non so da quale cappello a cilindro siano scivolate fuori: “Non c’è sonnifero che tenga per i vecchi come te che alla spalle hanno una vita di pensieri e che forse temono, con qualche fondamento, di non risvegliarsi più.”
E poi, e anche questo discorso non mi pare eccessivamente essoterico: “Una volta calato il sole, sei l’unico in grado di ascoltare il silenzio, di captare la musica segreta dell’Isola. Si tratta di melodie ignobili, adatte certamente all’umore cupo dell’ergastolano o del prete dubbioso, che sorgono dalle profondità del mare e che vengono sospinte dal vento di bora.” Boh?!?
Sintetizzo la storia di Nena, la strega dell’Isola, l’incarnazione del Diavolo, secondo le idee bislacche di tutti gli Isolani, compreso della mamma del tu. Il quale tu, curioso com’è, la vuole conoscere (armato di crocefisso, come se fosse uno stiletto) e lei ci sta a incontrarlo, anzi, comincia a discorrere con lui e a dirgli “di non aver paura del demonio e dell’inferno, perché all’inferno c’eri già e che il mondo era la casa del demonio; demonio e uomo vivono insieme, e non così male come dicono i preti.”
La mamma di tu si accorge di quanto è successo e prova a fargli fare degli esorcismi da chi sa produrli, ma invano. Il ragazzo era già strano, dopo di questo diventerà un demonietto.
“Sull’Isola il peccato è non delinquere, non accostarsi alla colpa, non giocare con la morale e i rimorsi…” etc etc… Cose trite e ri-trite…
E poi descrivi amabilmente le abitazioni dell’Isola: “Piccole costruzioni dall’aria sfatta, come di puttana di statale, le cui finestre, talvolta, s’illuminano, lasciando intravedere la sagoma di un uomo talpa, di un uomo-paguro.”
Scusa ma me lo sai dire perché fra uomo e talpa non c’è il trattino, mentre tra uomo e paguro sì? Un refuso?
Due pagine dopo, leggo: “Per questo ad ogni passo ti si senti braccato…” bello quel ti si senti! E per chi mi hai preso, per il tuo correttore di bozze?!?
“Bestemmi così tanto, che le tue bestemmie non sono altro che una litania religiosa, il canto sommesso di un monaco deviato. Alla fine, le tue bestemmie sono il catalogo della creazione, che poi coincide col potere del dio stesso.”
Sai che gioia?! Mi sono appena accorto che c’è pure una quarta parte!
Per fortuna è ancora più corta della terza!
“… perché sei impastato con l’odio, e l’odio rende immortali, secondo la logica dell’inculare o essere inculati, l’unica che conosci.”
“La mappa dell’inferno…”
“Basterebbe unire ogni sofferenza, i punti morti del mondo, come in quel giochino della settimana enigmistica…”
“L’inferno è una trappola tesa, è un ricordo che non si può cancellare.”
Poi accade il fatto, uno dei tanti, anzi, il peggiore, senza dubbio. Qualcuno recede da questo mondo, per una vile responsabilità del tu, quando entrambi sono ancora giovinetti.
Tutto il mondo (dell’Isola) lo verrà a sapere.
Tutti condanneranno il tu, senza possibilità di appello.
Non si tratta di un peccato originale, ma di tipo intermedio (che può svanire nel nulla con una piccola confessione, grandissima arma dei cattolici!).
Ma il tu non è persona che ami confessare una sua colpa, men che meno al pretonzolo dell’Isola!
Tutta la sua vita ne sarà pertanto un’orribile e tetra conseguenza.
Ripeti l’antifona preferita: “La vita è inculare o prenderselo nel culo.”
“… talvolta l’inferno è vincere.”
“… e l’universo intero che poi è il cesso di dio.”
“… non può essere che un dio cane, un dio ladro, mandante ultimo di ogni miseria e di ogni ingiustizia.”
Osta! C’è pure l’epilogo!
In cui sei blando, blando, blando, blando…
Finalmente, però, il tu si sporge verso un enorme pesce luna.
E tu: “gli sorridi un momento prima che ritorni negli abissi.”
Non sono per nulla progredito nella mia ricerca del responsabile.

Credo che la risposta sia annidata là, dove nessuno può attingerla.
Meno male, che forse c’è ancora una pur piccola speranza di libertà!
Sandro, il libro, pur orrido, m’ha molto emozionato, ma non so dirti perché.
Nicolaas Thomas Bernhard[1], quando e se un giorno emergerà dall’Isola, sotto cui è sommerso da più di un ventennio, ti porgerà i suoi più maligni complimenti.
Ma, che dici, ce lo facciamo adesso un bel Prosecco?
Prosit!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Sandro Frizziero, Sommersione, Fazi Editore, 2020
Note
[1] Nicolaas Thomas Bernhard (Heerlen, 9 febbraio 1931 – Gmunden, 12 febbraio 1989), è stato uno scrittore, drammaturgo, poeta e giornalista austriaco, tra i massimi autori della letteratura del Novecento non solo di lingua tedesca. Prima della morte aveva dato disposizioni affinché non fosse pubblicato nulla del materiale rimasto inedito.