Il delitto di Borgoratti: il brutale omicidio della 90enne Giovanna Mauro in un tentativo di rapina ed il libro “12 colpi di forbice”
Venerdì 13 dicembre alle 23:00 su Rai 3 ci sarà un approfondimento sul delitto di Borgoratti a cura del programma “Commissari – Sulle tracce del male”, condotto da Pino Rinaldi realizzato in collaborazione con la Polizia di Stato.
Il primo ottobre del 2013 una donna di 90 anni, Giovanna Mauro, viene brutalmente uccisa dall’idraulico e vicino di casa Angelo Sechi, l’uomo entrato in casa con una scusa cercò di derubare la donna pensando che avesse già ritirato la pensione. Così non fu.
Il 56enne Sechi finse qualche lavoretto in casa, ma Giovanna si accorse delle strane manovre e volendo cercare aiuto fu colpita da dodici colpi di forbice.
Il furto è stato di 50 euro ed un ciondolo d’oro. Ad inchiodare Sechi tracce di pelle sulle unghie della pensionata. La Cassazione lo ha condannato il 21 marzo 2017 all’ergastolo, confermando la sentenza dei primi due gradi di giudizio. Rimane aperta la pista di un complice perché andò via dall’appartamento completamente coperto di sangue.
I due coniugi, Carolina Colombi e Giuseppe Mori, dichiarano sulla puntata de “I commissari – Sulle tracce del male”: “Noi speriamo che la trasmissione possa stimolare qualche magistrato a cercare quei complici che ci furono allora secondo la nostra opinione e secondo il parere del nostro avvocato Ferruccio Barnaba”.
A gennaio del 2017 la già citata nuora di Giovanna Mauro, Carolina Colombi, pubblica un romanzo verità intitolato “12 colpi di forbice – il delitto di Borgoratti”. Il libro è narrato in prima persona che, da un punto di vista emotivo, descrive come i famigliari hanno appreso della morte della donna.
Ma non solo, infatti, presente nel libro lo sviluppo delle indagini per identificare l’assassino con la delega ad un investigatore privato che potesse svolgere un’inchiesta parallela a quella della Sezione Omicidi. Presenti nel libro tematiche sull’uccisione di donne come fenomeno sempre più presente in questa Italia (ed Europa) e alcune riflessioni sulla giustizia soprattutto sul patteggiamento.
“12 colpi di forbice” è servito alla famiglia per “processare” ciò che è avvenuto e per fare in modo che non si dimentichi. Vi lasciamo all’introduzione ed ai primi capitoli del libro pubblicato su Amazon in Self Direct Publishing.
“Non l’abbiamo perduta.
Ella dimora prima di noi, nella luce di Dio
Vive con noi, ci ama, ci protegge dal cielo.”
– Introduzione –
Ciò che mi ha spinto a narrare la tragica vicenda di cui siamo stati protagonisti è stato un impulso, un impulso affettivo nei confronti della mia famiglia. Ma, quello che mi ha permesso di raccontare sentimenti ed emozioni con i quali abbiamo affrontato la drammaticità dei primi giorni di ottobre del 2013, è stato anche il bisogno urgente di dare voce al nostro dolore.
Per la ricostruzione dei fatti riportati lungo il corso di questa narrazione ho attinto alla lucida testimonianza delle persone che hanno conosciuto Giovanna, che da lei sono state beneficiate e che le hanno voluto bene.
Inoltre, per mettere insieme gli accadimenti, mi è stata indispensabile la lunga e approfondita conoscenza che mio marito, unico figlio di Giovanna, aveva di sua madre.
Solo in questo modo ho potuto ricostruire la vicenda che abbiamo vissuto e che ci ha profondamente segnato, cambiando radicalmente la nostra vita.
In quei tristissimi giorni, Giuseppe ha sentito la necessità, quasi un doveroso senso di rispetto e giustizia nei confronti di sua mamma, di capire e approfondire il motivo per cui Giovanna è morta. E attraverso la sua logica ferrea e la lucidità, caratteristiche che lo contraddistinguono in ogni occasione, incoraggiato anche dalle indicazioni riferitegli da alcune persone, ha elaborato una sua ipotesi dei fatti.
Quando poi ho deciso di improvvisarmi “cronista”, intervistando mio marito, ho avuto modo di conoscere aspetti e sfumature della personalità di Giovanna che mi erano passati inosservati.
Ed è stato anche per renderle merito e non dimenticarla, che ho ritenuto opportuno raccontare di lei e farne un ritratto: il più autentico possibile. E per fare memoria della sua generosità, non solo d’animo ma anche di concretezza, parte dei proventi di questo nostro scritto saranno devoluti in beneficenza, così come lei sicuramente avrebbe desiderato.
Inizialmente, da un punto di vista emotivo e in maniera drammaticamente fedele, narro le nostre primissime reazioni alla notizia dell’efferato delitto della mamma di mio marito.
Ho scritto poi riportando il probabile sviluppo dell’indagine. E per farlo, ho preso a prestito un personaggio, un alter ego di mio marito, anche se di sesso femminile. Dunque, l’investigatrice presa a prestito per raccontare lo svolgersi dell’indagine per catturare l’assassino di Giovanna, non è figura di fantasia, ma è persona verosimile. Una persona quindi, che ha svolto per noi un’inchiesta parallela a quella della Sezione Omicidi.
Nonostante la premessa, qualcuno potrebbe pensare che Stella Rinaldi, l’investigatrice, sia un personaggio di pura invenzione. Ma così non è. Perché sull’esistenza di una persona che ha realmente partecipato all’inchiesta, senza ovviamente intervenire nell’operato della Squadra Omicidi, non vi è alcun dubbio.
Perché? Perché inserire un personaggio alternativo agli investigatori ufficiali?
Per raccontare con la maggior chiarezza, e senza alcun vincolo il verosimile andamento dell’indagine.
Si potrebbe identificare tale personaggio con il figlio della vittima, un suo alter ego appunto, che dopo aver dialogato in incognito, con persone che ben conoscevano sua madre, ha tratto dai suoi confronti risultati importanti ai fini investigativi.
Certamente l’immaginazione mi è venuta in soccorso per sviluppare quest’aspetto del libro, il quale conferisce allo scritto la connotazione di un romanzo, un romanzo giallo per l’esattezza. Coinvolgente ed emozionante.
Il personaggio, aderente alla realtà, è un’investigatrice che nella narrazione ricopre diversi ruoli: detective privato, investigatore in contatto con le forze dell’ordine, e confidente della famiglia. Ruoli, che le sono stati affidati al fine di smascherare l’omicida di mia suocera.
Perché dunque questo escamotage? Perché non mi è possibile essere del tutto esplicita nel trasferire l’esatta ricostruzione dei fatti, ai miei lettori?
La risposta è alquanto semplice.
Il principale motivo di consegnare al mio personaggio il racconto degli eventi legati all’indagine, si spiega con una valida motivazione: le fasi processuali, a carico di colui, definito “presunto assassino”, che presumibilmente si è macchiato dell’omicidio di mia suocera, non sono ancora terminate.
Dunque, un doveroso riserbo è tuttora necessario.
Inoltre, potrebbe essere aperto un nuovo procedimento penale nei confronti di coloro che hanno aiutato, in misura più o meno concreta, il responsabile del misfatto, così come è emerso dagli atti che hanno portato al processo. Da questi, evince infatti, che esistono evidenti presenze di DNA, di altre persone sul luogo del delitto, fanno pensare a delle complicità: altri potrebbero aver collaborato all’efferato omicidio di Giovanna.
Motivo per cui, la prudenza è d’obbligo.
Nel prosieguo del libro, oltre al resoconto dell’indagine, e al racconto del nostro sconcertante dolore, si alternano temi di grande attualità che riguardano la vita di tutti, e non soltanto la nostra.
Ho considerato il femminicidio e altre forme di violenza esercitate nei confronti delle donne. Poi, con la maggior obiettività possibile, ho preso in esame della giustezza, oppure no, di mantenere in piedi la pena detentiva dell’Ergastolo: fine pena mai.
Facendo poi un breve excursus, ho menzionato la pena di morte, dai tempi più remoti fino ai giorni nostri, con l’intento di dimostrare quanto essa sia aberrante. Attraverso un drammatico episodio legato alla migrazione, ho cercato inoltre di dimostrare che coloro i quali raggiungono il nostro paese, sono anch’essi vittime di un ingiusto sistema mondo. E non sempre agli stranieri si possono imputare atti delittuosi che avvengono sul nostro territorio. Tuttavia, non si può escludere che la violenza, aumentata in Italia in maniera esponenziale, sia causata anche dalla presenza di coloro che vengono nel nostro paese appositamente per delinquere.
Inoltre, amnistia e indulto, e altre forme di esercizio della giustizia.
Che dire di temi di così drammatica modernità?
Le mie competenze in materia sono limitate, e anche il ragionamento che qui ho elaborato è altrettanto contenuto, e non articolato e lungo come invece avrei voluto fare.
Ma non sono un’addetta ai lavori. Sono solo una persona che si è documentata, raccogliendo sufficienti informazioni per proporre una sintesi di queste scottanti problematiche.
Pertanto, ho ritenuto utile interporre alla narrazione del triste episodio che la sorte ha consegnato alla mia famiglia, ad avvenimenti di strettissima attualità.
Tutto ciò, affinché il mio scritto non fosse una brutale e fredda cronaca del delitto di mia suocera, ma una miscellanea di private considerazioni a esso collegate.
Ritengo inoltre, che l’aberrante vicenda di cui siamo stati involontari protagonisti, debba essere collocata e valutata in un contesto sociale pericoloso e violento come quello in cui viviamo.
Nelle mie intenzioni quindi, la testimonianza di tale drammatico fatto di cronaca può avere una sua utilità, a dimostrazione di quanto, con un gesto delittuoso, si possa distruggere la serenità di una famiglia normale.
In conclusione, mio marito e io, abbiamo affidato alle parole la nostra intima testimonianza, non solo per dare spessore e visibilità al tragico evento, ma anche con la speranza che possa offrire uno spunto di riflessione a coloro che leggeranno queste nostre parole, riflessione che aiuti a non sottovalutare i numerosi soprusi di cui ogni giorno si contano vittime innocenti.
Auspico infine, anche se l’intento può apparire presuntuoso, che attraverso le nostre personali considerazioni, si sviluppi una più ampia presa di posizione che aiuti a contrastare la violenza che ogni giorno insanguina le nostre città. Una consapevolezza quindi, che si faccia portatrice di più voci che si alzino dal coro, e denuncino il degrado morale e materiale in cui la nostra società sta scivolando.
– Primo capitolo –
Come ogni sera si erano sentiti al telefono.
Era il 30 settembre 2013. Quella è stata l’ultima volta.
Il giorno dopo il telefono squilla ancora, a lungo. Ma a vuoto.
1, 2, 3, 4 e più trilli che vanno a perdersi nel disumano silenzio dell’appartamento.
Le nocche delle sue dita si fanno bianche per la tensione con cui stringe la cornetta. Poi, di nuovo fa il numero. Digita un’altra volta sulla piccola tastiera.
In maniera più lenta e accurata adesso, imponendosi una calma che non ha, quasi a nascondere uno sconvolgimento interiore che soltanto io gli riconosco.
E poi ancora. Ma, nonostante l’insistenza, dall’altra parte nessuno risponde.
Non è da lei rimanere fuori, in chiesa, oppure da qualche amica, senza avvertire il figlio abituato a chiamarla tutte le sere, e in certe occasioni anche più volte al giorno.
A quel punto è subito allarme.
L’uomo è adesso concitato, e non più controllato come poc’anzi.
E immediatamente sul suo viso si dipinge un’espressione di vero e proprio terrore.
Poi, con frenesia pigia sui tasti per comporre il numero della Rita.
Con la sua solita flemma e in modo pacioso e tranquillo, la donna risponde quasi subito.
“Rita? Hai visto mia madre? Per caso, è lì da te?”
“È passata stamattina… poi non l’ho più vista.”
Replica Rita con la sua forte inflessione genovese.
“Per favore, visto che hai le chiavi, potresti mandare la signora Lina, solo per vedere che sia tutto a posto, forse non ha sentito il telefono…”
“Sì, la mando subito, intanto la Lina è qui con me.”
Trascorrono cinque minuti.
Lunghi, anzi lunghissimi, quasi eterni: i più lunghi della nostra vita in comune, mentre la nostra casa si riempie di un silenzio sinistro.
Nel frattempo, con la mia consueta efficienza che il mio ruolo di moglie e di madre m’impongono, mi preoccupo di organizzare la cena per mio figlio. Caso mai dovessimo precipitarci dalla nonna, penso.
Non immaginando certo che l’irreparabile è già avvenuto, e di fronte a ciò tutte le altre incombenze sono di alcuna importanza. Lo chiamo sul cellulare. Risponde subito, è appena uscito dallo studio d’informatica dove svolge la sua professione.
“Ti lascio la cena, qui, sul tavolo…”
“Perché? Cosa è successo?”
“Non riusciamo a metterci in contatto con la nonna. Ora sentiamo la Rita, e poi decidiamo cosa fare…”
“Fammi sapere, appena hai notizie.”
Lascio mio figlio con le parole ancora sospese a mezz’aria, mentre mio marito si prepara a chiamare di nuovo la Rita.
Ma la signora Lina non è ancora scesa da quell’ultimo piano maledetto, dove mia suocera abita da quasi sessanta anni.
E impotenti, io e Giuseppe aspettiamo.
Ma lui non può stare fermo. Va’ in corridoio e lo percorre a grandi passi.
Sembra un leone in gabbia e pronuncia parole, purtroppo profetiche, dettate dal timore che la crudele attesa porta con sé.
“Lo sento. Me lo sento. È successo qualcosa! Si è sentita male!”
Poi, con la voce incrinata dall’emozione, come in una supplica, aggiunge.
“Telefona tu. Per favore! Io non ce la faccio…”
Parole sincopate, che portano con loro la spietata ombra del dubbio.
– Secondo capitolo –
Trascorrono infine ancora pochi e inesorabili secondi. Interminabili, anche se scorrono con una insolita velocità fino a consegnarci la più tragica delle notizie.
“Sono la nuora della Nina…”
Dico. Ma immediatamente vengo interrotta dalla donna.
Il suo parlare è stranamente pacato e tranquillo, nonostante la macabra situazione di cui è stata unica protagonista.
In seguito mi rammaricherò della pesante incombenza che le abbiamo affidato.
“È nel corridoio, in un lago di sangue… ha una forbice piantata in gola…”
“È morta?”
Urlo nel telefono con voce strozzata, formulando una domanda di cui già conosco la risposta, anche se racchiude in sé la speranza di ricevere da lei il più assoluto diniego.
“Sì.”
Risponde Lina con un tono che non ammette repliche, anche se pare arrivare da lontano, troppo da lontano, perché io possa credere che le sue parole corrispondano al vero.
“Devo chiamare la polizia?”
Le chiedo, pronunciando la più banale e inutile delle frasi.
Nel frattempo, nella mia testa prendono a scorrere immagini, che come fotogrammi di una vecchia pellicola s’inseguono l’un l’altra con sorprendente rapidità.
E su di un ipotetico schermo, quasi assistessi a un brutto spettacolo, osservo una lunga sequenza che pare senza fine: immagino Giovanna stesa in terra, anche se in una posizione diversa da quella in cui successivamente verrà trovata, e vedo ciò che Lina mi ha appena descritto.
Poi, avverto una strana sensazione: la mia persona subisce una sorta di sdoppiamento e percepisco un’altra me stessa.
Un’altra che mi è aliena, ma soprattutto mi è sconosciuta.
Cerco di recuperare una parvenza di lucidità, ma non sono in grado di ubbidire a me stessa; la razionalità ancora non mi appartiene e continuo ad avvertire un’insolita estraneità col mondo circostante: la trappola nella quale sono stata inghiottita pare non volermi abbandonare.
Ostinatamente mi rifiuto di accettare la realtà di cui, in maniera traumatica, sono venuta a conoscenza. E pur essendo lucida, l’irreale sensazione persiste e sembra non avere fine: sono consapevole di ciò che è accaduto, ma non sono capace di sollevarmi dal confuso stato emotivo in cui mi trovo. Proprio non riesco a far mia la spietata verità che mi è stata comunicata, e che arriva a sconvolgere la mia quotidianità, la mia vita tranquilla, consolidata, scandita dal ritmo degli impegni che riguardano una famiglia normale.
È forse una fuga della mente che mi suggerisce di rifugiarmi altrove, in una dimensione parallela, diversa da quella reale?
Infine, dopo alcuni e infiniti istanti, congedo Lina.
“Grazie Lina, grazie.”
E lui, che ha ascoltato tutto, senza che io debba raccontargli nulla già sa.
Non può stare fermo neppure un attimo, e continua a muoversi su e giù per il corridoio. E in balia di una disperazione senza limiti si lamenta.
Con le mani nei capelli ulula. Ulula come un animale ferito.
Visibilmente sotto choc si pone domande, e poi ancora domande su domande.
Deve assolutamente trovare un motivo, anche uno soltanto, che spieghi l’atto criminoso di cui sua madre è rimasta vittima. Intanto, penso che forse avrei dovuto avere più tatto.
Sicuramente, nel dargli la notizia della morte di sua madre avrei dovuto essere più cauta.
In fondo è solo un uomo. E in certi casi la fragilità appartiene più agli uomini che alle donne.
Continua poi a tormentarsi, a piangere sommessamente, dopo aver urlato un “no” disperato e inutile che vorrebbe annullare ciò che è stato: un atto di ribellione che echeggia in tutta la casa. Ma ormai l’irreparabile è avvenuto, e nulla e nessuno ci potrà restituire mia suocera.
Nel frattempo, il cellulare che stringe fra le mani squilla.
E come per un automatismo Giuseppe risponde. Racconta, grida. E con tutto il fiato che ha in gola dà notizia a nostro figlio del tragico fatto. Premuroso e sensibile, il ragazzo gli risponde che già si sta precipitando verso l’abitazione della nonna. Non immaginando però che gli sarà impedito di entrare.
E io, sempre con la cornetta fra le mani, sento come in un’antica litania il suo lamento di uomo ferito. Temo per lui, per la sua salute. La sua ipertensione potrebbe soffrire del trauma che con un colpo solo ha stravolto il suo presente. Ma ancora sono incapace di reagire.
Infine, mi decido e digito il 113.
E immediatamente una sollecita voce di poliziotto ascolta le mie parole.
Apparentemente sono lucide e dettagliate, ma con loro portano tutta l’amarezza del mondo.
“Il suo nome signora… e il suo numero è quello da cui sta chiamando?”
“Sì.”
Rispondo con voce sicura, e nonostante le risposte mi escano con grande fatica, trovo in me una forza che non credevo di possedere.
“Si tratta di mia suocera. È stata trovata da una vicina di casa. È morta!”
Dico boccheggiando, mentre il mio respiro si taglia a metà.
“Mando subito una volante… mi dia l’indirizzo… aspetti un attimo, per favore.”
“E noi? Andiamo a Borgoratti?”
“Mi lasci il numero del suo cellulare, vi faremo sapere…”
Gli do il nostro numero e dopo alcuni minuti, sempre con cortesia, l’uomo mi liquida per tornare a occuparsi di delinquenti e assassini, tutta gente per cui in quel momento non nutro alcun sentimento di indulgenza. Anzi!
Vorrei vederli spazzati via in un improbabile rogo che li inghiottisse tutti quanti!
– Terzo capitolo –
Nel frattempo, a interrompere il macabro silenzio che avvolge la nostra casa c’è soltanto il fragile pianto di mio marito.
Di umana pietà per quella donna minuta, ma dalla tempra d’acciaio che fino a poche ore prima era sua madre in carne e ossa, palpitante di vita e desiderosa di condividere con gli altri momenti di serena fraternità.
In questo momento, in lui, ad avere la meglio su tutte le altre emozioni è la compassione. Compassione e tenerezza insieme.
In me, invece, si scatena una rabbia feroce che si manifesta con imprecazioni e parole terribili.
Prima sono stata inghiottita dall’incredulità, e adesso sono divorata da un odio non umano. Oltre che dall’afflizione e dal dolore per la perdita.
Ma, qualunque siano i miei sentimenti sono impotente.
Sono solo una donna, impreparata ad affrontare una tragedia più grande di me.
Incapace di sollevare me stessa dallo sconvolgente stato emotivo in cui mi trovo, non so cosa fare per aiutare mio marito a combattere il suo.
Decido quindi di mettermi in contatto con il parroco, che ben conosceva Giovanna e la vedeva tutti i giorni.
Prima di essere un sacerdote è una persona, una persona buona e comprensiva.
Afflitto da più malanni, aveva per lei, come per gli altri parrocchiani, una premura infinita, una parola sempre pronta a rincuorare gli animi, a offrire conforto, amicizia, solidarietà e senso di appartenenza alla comunità parrocchiale che lui guida. Sentimenti esemplari che non tutti i sacerdoti vogliono o sanno trasmettere.
Spulcio frettolosamente fra le vecchie pagine ingiallite dell’elenco telefonico e cerco un numero. Un numero che corrisponde a una famiglia che conosco bene.
La moglie è una persona amabile e leale, e possiede qualità d’animo che difficilmente ho riscontrato in persone del quartiere dove vivo.
Mi ha sempre dimostrato amicizia e simpatia, e so di potermi rivolgere a lei e a suo marito in un caso di estremo bisogno come quello in cui mi trovo.
Compongo il loro numero, e nitida mi arriva la voce dell’uomo.
Ho fretta di sapere, e in breve racconto i fatti. Lo faccio nel modo più conciso possibile, e cercando di non essere troppo traumatica gli spiego la necessità di avere il numero di telefono del parroco di San Rocco. Ovviamente, data la gravità di ciò che gli ho riferito, l’uomo è impressionato e fa di tutto per aiutarmi.
Raggiungo il Don al telefono e lo metto al corrente della tragedia che la sorte ci ha destinato. E lui, da prete sensibile e dal fine intelletto, comprende subito il baratro in cui la nostra vita d’improvviso è scivolata.
Ha per noi parole di sostegno e di affetto, e la sua presenza, anche se soltanto telefonica, ci fa sentire un po’ meno orfani. Poi, immediatamente si precipita su, in quella strada che sale verso la collina, dove mia suocera abitava.
Prendendo a prestito una metafora tutta mia, e senza dubbio un po’ infantile, mi viene da pensare che attraverso quella vecchia mattonata, tutta in salita e che si dirige verso l’alto, si sarebbe potuto raggiungere un luogo celestiale, forse paradisiaco.
Ma così non è stato.
Perché lì, intorno alle 12 del primo giorno di ottobre del 2013, non c’era alcun sprazzo di azzurro ad accendere quella giornata ancora estiva, ma solo l’ombra scura del Maligno che ha armato la mano di chi ha spezzato brutalmente la vita di Giovanna.
– Quarto capitolo –
A un certo punto, a causa del grave shock emotivo, sono in preda a un tremito irrefrenabile.
Ugualmente però è tempo di andare, anche se non ho la minima idea di come affrontare il traffico e neppure il seguito della serata.
Perciò, senza badare a ciò che indosso, abbandono gli abiti casalinghi.
Alla rinfusa infilo pantaloni neri di cotone e scarpe basse.
Prendo poi un impermeabile leggero, caso mai dovesse piovere, mi dico; cercando forse, nel più banale dei gesti, di scappare dall’incubo infernale che sto vivendo.
Intanto, con la mente che fa acqua da tutte le parti, cerco di essere razionale, di provvedere alle mie immediate necessità e pure a quelle di mio marito.
Ma anche lui, con gesti brevi e consolidati, si è già vestito.
E con passi frettolosi e pieni d’angoscia ci addentriamo nella serata genovese per raggiungere la nostra vecchia auto.
Ci avventuriamo così, nella giovane notte, accompagnati solo dal nostro complice silenzio più loquace di un miliardo di parole, mentre il dolore che inaspettatamente ci ha colto è tutto lì, raccolto nelle nostre povere persone.
E con l’irreale sensazione di essere capitati per caso dentro a un brutto film dell’orrore ci dirigiamo verso il centro; anche se abbiamo con noi l’assurda speranza che la realtà sopraggiunga e ci porti soltanto novelle letizie.
Anche se purtroppo così non sarà. Perché la realtà, in quanto a brutture e desolazione spesso supera la finzione.
E mentre vivo l’incubo più orrendo della mia vita gli cammino accanto, mi stringo a lui, l’uomo con il quale ho condiviso metà della mia vita e che è diventato il mio più importante riferimento.
Voglio fargli sentire che non è solo, che io gli sono vicina, che il suo dolore è anche il mio, anche se l’intensità non può essere la stessa: per lui era madre, per me “soltanto” suocera.
E così, a fianco l’uno dell’altro ci prepariamo a vivere una delle notti più lunghe della nostra vita.
Infine, guidando con la mia solita prudenza, filiamo via nel traffico nervoso di una notte sopraggiunta troppo in fretta. E pur cercando di acquietarmi, continuo a essere avviluppata da brividi che non riesco a controllare.
Con cautela imbocchiamo la sopraelevata, ormai consapevoli che per lei non possiamo più fare nulla, nulla se non rendere conto alla Sezione Omicidi delle sue e nostre abitudini.
Dopo qualche minuto è il trillo del cellulare a interrompere i nostri mesti pensieri.
E accompagnata dall’esagerato battito del mio cuore, che riempie di un rumore assordante l’abitacolo dell’auto, ascolto Giuseppe, che dopo aver aperto con uno scatto nervoso la scatoletta nera si prepara a rispondere.
“Venite in Questura… io sono già per strada… ci vediamo lì.”
Con poche parole, appena sussurrate nel silenzio irreale delle nostre vite, nostro figlio, come gli investigatori gli hanno suggerito, ci comunica la destinazione del nostro breve viaggio.
Ormai il traffico è scorrevole, fluido, quasi inesistente.
E il buio che alberga nei nostri cuori, straziati da un dolore che non siamo in grado di contenere, ci accompagna fino al massiccio portone scuro della Questura.
Arrivati lì, troviamo due, forse tre agenti, pronti ad accoglierci e a condurci dagli investigatori che si occuperanno di indagare sull’omicidio di mia suocera.
Mio marito in una stanza, con uno e più uomini.
E io in un’altra, con una giovane poliziotta dal fare educato e gentile.
Per raccontar loro i nostri spostamenti della giornata appena trascorsa.
Tutto normale. Prassi. Routine.
D’altra parte, in fatti delittuosi come questo, i primi a essere ascoltati sono i parenti della vittima.
Con il cuore in pezzi e completamente smarriti, ci mettiamo a disposizione dell’autorità per dare conto dei nostri movimenti.
Mi siedo. Stanchissima, come se avessi fatto un’interminabile maratona.
Ma prima di parlare del mio privato con la giovane donna che mi sta davanti, mi chiedo dove sia finito mio figlio.
In fondo, è da questa mattina che non lo vedo, e non ho idea di dove sia. Nutro perciò il vivace desiderio di abbracciarlo.
Sono prostrata, disperata direi, ma per noi tre non ho alcun tipo di preoccupazione. Non dobbiamo dimostrare nulla. Nulla, soltanto rilasciare una deposizione.
La nostra estraneità ai fatti è fin troppo evidente.
Siamo al di sopra di ogni sospetto: amavamo quella donnina brutalmente assassinata in nome del dio Denaro.
Questo, e soltanto questo è il movente del suo feroce delitto.
Perché nella sua lunga vita Giovanna non ha mai avuto un nemico, anzi, neppure l’ombra di una qualsiasi inimicizia.
Dunque, la sua morte non è avvenuta per un qualsiasi tipo di vendetta.
E neppure per mano di qualcuno capitato lì per caso, che ne ha improvvisato l’aggressione e il conseguente omicidio.
Prendo il cellulare che mio marito mi porge e chiamo Anna Maria.
Le era molto affezionata.
Da quando Giovanna è rimasta vedova, la cugina di mio marito le è sempre stata vicina, più che altro telefonicamente, a causa della distanza fra le due.
Immediatamente risponde.
Ma non le do subito notizia della tragica circostanza che ha portato Giovanna alla morte. Soltanto, la informo del suo decesso.
Però lei, da persona intelligente quale è, comprende che non si è trattato di morte naturale e vorrebbe saperne di più. Ma, d’altra parte anch’io ne so poco, e lascio Anna Maria ai suoi interrogativi con la promessa di risentirci il giorno seguente.
Non è questo il momento della conversazione: è ormai tempo che io risponda alle domande dell’ispettrice.
Sono calma, stranamente, anche se il mio cervello ha qualche difficoltà a elaborare le giuste risposte.
Ma la donna è paziente e fa di tutto per farmi sentire a mio agio.
“Una bottiglietta di tè? D’acqua?”
“No, nulla, grazie.”
Con cortesia, rispondo alla sua cortesia.
Poi, inghiotto il dolore e comincio a parlare.
Ma qualcosa mi dice che nell’altra stanza le cose non vanno per il verso giusto.
Attraverso le fragili pareti che dividono i due ambienti percepisco una singolare tensione, e avverto il turbamento in cui si trova mio marito a causa della difficoltà di farsi comprendere dagli ispettori con i quali si sta relazionando.
“Mia madre è… anzi era…”
Sta dicendo con una voce strozzata che non gli appartiene, e che va a perdersi in un singulto dettato dalla disperazione, disperazione che in un attimo solo l’ha scaraventato in uno sconvolgimento emotivo che ha spazzato via tutte le sue certezze di uomo perbene.
“Era una donna prudente. Non apriva la porta a persone sconosciute. Non è possibile che abbia aperto a uno sconosciuto… ma soprattutto era metodica… mangiava poco e spesso. Era abituata a mezzogiorno a consumare un piccolo pasto, altrimenti stava male. Forse un calo di zuccheri…”
Queste sono le parole che mio marito pronuncia al di là della barriera rappresentata dal debole muro che ci divide.
Le distinguo chiaramente. Affannate, angosciate, ma soprattutto vere.
E dettate solo dal desiderio di dare il maggior numero di indicazioni possibili, al fine di collaborare con i poliziotti, e far sì che facciano luce su quest’orrendo delitto e al più presto ne trovino il responsabile.
Poi, il figlio della vittima continua.
“Sicuramente l’omicidio è avvenuto intorno alle 12. Conoscevo troppo bene mia madre… era una donna abitudinaria e fin da quando ero piccolo mangiava a mezzogiorno.”
Solo per fare chiarezza sulle consuetudini di sua madre. È un suo dovere di figlio e un suo diritto di cittadino onesto.
E chiarire se la donna avesse mangiato oppure no, è un imperativo a cui Giuseppe non può sottrarsi.
– Quinto capitolo –
Il mio viso è rigato da lacrime. Copiose e fredde.
Sono turbata, molto, e ho difficoltà ad aprire gli occhi.
Li stropiccio per cercare di svegliarmi, e poi li asciugo con il risvolto del lenzuolo finemente ricamato da mia suocera; senza curarmi di sporcarlo, o peggio ancora di rovinarlo.
Poi, lentamente prendo consapevolezza ed esco dall’inquietante dormiveglia che mi avvolge come una scomoda coperta ruvida.
Infine, mi guardo intorno, e ho difficoltà a capire dove mi trovo.
Ma, osservando più attentamente riconosco la stanza da letto che condivido con mio marito, e ritrovo i contorni dei mobili che di recente abbiamo sostituito.
Appoggio i piedi a terra e rabbrividisco per il gelo del pavimento.
Poi mi siedo sul letto e cerco di ricordare, anche se tutto è confuso. E, mentre lentamente ritrovo la mia consueta lucidità faccio memoria, e mi dico che sogno e realtà si sono sovrapposti, come in un caleidoscopio di disordinati pensieri.
Nel frattempo, dalla strada mi raggiungono i primi segni della vita che riprende la sua quotidianità: rumori di auto, di moto, voci concitate che si richiamano l’un l’altra, un lontano abbaiare di un cane, i rintocchi delle campane…
A questo punto sono sveglia, e comprendo che il mio turbamento è dovuto soltanto a un sogno, anche se non sono in grado di dare a esso un vero e proprio significato.
D’altra parte, è quasi impossibile attribuire ai sogni il medesimo senso che hanno nella vita di tutti i giorni!
Ma dopo essermi arrovellata per qualche minuto, inizio a ricordare le visioni le quali hanno accompagnato il mio risveglio che si è aperto sul 1° Ottobre 2013.
In molti sono intorno a me. Risate, pigolii, punzecchianti battute di spirito, allegria diffusa fra la gente presente nella grande sala. L’occasione di tale festosità è un festeggiamento, ma di quale evento si tratti assolutamente non so.
È forse un battesimo, un matrimonio oppure una prima comunione?
Difficile dirlo. Perché anche quest’aspetto del sogno non mi è chiaro.
Ciò che invece ricordo con nitidezza è il fatto di essere stata circondata da una gran moltitudine di bimbi; visi più o meno noti, ma tutti animati da una gioia che solo l’inconsapevolezza dell’infanzia può dare.
Poi, d’improvviso una persona conosciuta. Più conosciuta rispetto agli altri.
Una donna che rappresenta per me l’inevitabile legame con la vita: mia madre.
In mezzo a quella folla variegata ne distinguo chiaramente la presenza.
Dunque, anche lei è qui, presente, per festeggiare quest’evento.
Però mi volge le spalle, e di lei riconosco soprattutto il vestito che indossa: scuro e logoro e dall’aria quanto mai nefasta. La identifico con certezza, e sarei in grado di farlo anche fra milioni di individui. Il suo portamento è fiero, e il suo singolare modo d’incedere mi è noto.
Poi, senza che io me l’aspetti si avvicina e mi guarda apertamente negli occhi.
E io provo un tuffo al cuore forte e struggente, come mai mi è capitato prima di quel momento.
E attendo che sia lei a parlare.
Ma non osa, perché, senza che io ne conosca il motivo, le sue labbra non possono proferire neppure la benché minima parola.
Con insistenza continua a osservarmi, e mi accorgo che il suo viso è inondato di lacrime; una gran quantità di lacrime riempie i suoi occhi, insolitamente piccoli come due capocchie di spillo.
Ma, nonostante la copiosità delle lacrime che scendono giù inzuppando il suo abito scuro, il suo è un pianto silenzioso. A questo punto, sbigottita, non so cosa fare; ma soprattutto non comprendo nè il motivo del suo pianto, intenso e prolungato, e neppure so spiegarmi l’espressione di grande cupezza dipinta sul suo volto.
Completamente smarrita, sempre nel sogno, mi domando perché da una circostanza di gioia festaiola l’atmosfera si è trasformata in un lugubre silenzio che circonda tutto indistintamente: cose e persone. D’improvviso anche la sala è avvolta da un clima di sinistro presagio.
Anche se continuo a essere spaventata, come fossi in una trappola senza via di scampo, inghiotto lo spavento. Vorrei abbracciare la mia mamma, afferrarla, avvicinarmi a lei, ma una forza oscura di cui non ne conosco la ragione mi trattiene.
Infine, con passi piccoli e prudenti mi si fa incontro, e come in un soffio, nel glaciale silenzio, mi sussurra poche e inquietanti parole.
“Povera. Povera Nina…”
A quel punto, al silenzio della sala si sostituisce un singolare brusio, come una nenia d’altri tempi, forse una litania.
E per un attimo rivolgo il mio sguardo altrove. Ma quando torno a cercare mia madre i miei occhi vagano invano.
Con un’occhiata circolare insisto, ma lei non c’è più. È scomparsa.
E io, disorientata, e quasi inebetita, rimango lì, con il vuoto nel cuore e un malumore che mi seguirà fino al mio risveglio. Ma non soltanto fino al mio risveglio, perché l’inquietudine accompagnerà il resto della mia giornata, di quel 1° Ottobre 2013, durante il quale avrò conferma che il male esiste. Esiste per davvero, e non è solo finzione cinematografica.
Infine, a sera, dopo aver avuto notizia della crudele morte di mia suocera, mi sono chiesta: quale era lo scopo della visita di mia madre in sogno? Mi portava un messaggio? Una cattiva notizia? Forse della morte di Giovanna?
Difficile dirlo.
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