“Jane Eyre” di Charlotte Brontë: analogie e divergenze con l’Harry Potter di J. K. Rowling
Leggendo le prime pagine del romanzo, scopro quello che la maggior parte dei lettori e lettrici inglesi conoscono da anni, purché abbiano letto “Jane Eyre”, oppure la “Saga di Harry Potter”: nulla fa benvolere un adolescente, più di quando è orfano, poveretto, alloggiato presso parenti insensibili e ingiusti, convivente con un cugino viziato, prepotente e falso.

Che la Rowling si sia ispirata alla Brontë, quando ha creato la figura dell’odioso cuginastro Dudley, è un fatto tutto da dimostrare e assai arduo da negare.
Il cuginetto John è un terribile insolente, che deride la madre, che invece l’adora, ed è, a sua volta, orfano di padre (fratello della mamma e protettore di Jane), morto quando lui e Jane erano piccolissimi.
Jane si sente fuori posto in quella famiglia, esattamente come si sentirà un secolo e mezzo dopo Harry Potter: “Ero fuori posto a Gateshead Hall; vi abitavo ma era come se non vi esistessi.”
Per il resto, tutto è molto diverso. Jane è un io narrante adulto, che parla di sé come bimbetta di dieci anni che era, che vide e che fece quel che poté, un’anima in pena molto sola, agguerrita, ma senz’arma alcuna, e apparentemente senza prospettive. E che aveva anche due ulteriori cuginette in casa, orribilmente graziose, con una la zia che la odiava, ma che non riusciva sempre a nascondere dei sensi di colpa, mascherandoli con un’acida malevolenza.
Gli zii di Harry, secondo la Rowling, erano invece dei piccoli borghesi rozzi e autosufficienti e la descrizione degli eventi del romanzo è di tipo oggettivo.
Che l’io narrante sia anagraficamente un’altra persona rispetto alla bimbetta, è una mia ipotesi, essendo alle prime battute del libro. Non ho mai visto il film, per fortuna, e quindi ogni possibilità rimane aperta. Nel caso di Harry, prima di leggere il libro, mi ero sciroppato negli anni tutta la saga, per cui, a parte alcune piccole e grandi dimenticanze, nulla mi era del tutto ignoto.
Ma altre cose accomunano Jane ed Harry: procedono dritti nei loro intenti, anche quando stanno quasi morendo di paura (ed è a quel quasi che si abbarbicano) e non sono mai ipocriti. Ammirevole è l’animo che dimostra la bambina quando affronta l’arcigna zia, vincendo l’ultimo asperrimo diverbio, prima di essere relegata in collegio, quando le dice in faccia quello che si merita e senza concederle le attenuanti generiche.
Altre analogie e divergenze: Harry è invitato fortemente a frequentare la scuola di magia, diciamo pure che è costretto, ma chi lo fa lo ama e quasi lo venera, felice di averlo finalmente vicino. A Jane non è stata data alcuna scelta: dovrà andare a Lowood e lì è finito il discorso, così ha deciso chi non la vuole tra i piedi. Harry a fine anno scolastico doveva per forza tornare in famiglia. Jane rimarrà a Loowood. Jane in famiglia a Gateshead ha almeno un’amica, severa ma affezionata, la domestica Bessie. Harry non aveva nessuno.
Nei capitoli che seguono, l’io narrante manifesta le proprie idee sulla filosofia religiosa obiettando su quella che manifesta Helen, una sua compagna di collegio, che viene bistrattata in modo assurdo e sadico da parte di un’insegnante, sopportando il tutto cristianamente. Poiché Jane afferma: “Non posso amare coloro che, per quanti sforzi io faccia per riuscire gradita, continuano a odiarmi.”, Helen risponde: “Leggi il Nuovo Testamento e medita sulle parole di Cristo e sulle sue azioni; quello che dice ti serva di regola e prendi esempio dalla sua condotta.” L’amichevole diatriba finisce con un nulla di fatto: ognuna mantiene la propria posizione.
Un’insegnante dice la sua: “… io servo un padrone il cui regno non è di questo mondo e la mia azione è di mortificare in queste ragazze i desideri della carne…” Motivo per cui ogni suo abuso le appare legittimo, in quanto di origine divina.
Interviene poi il capo del collegio, il signor Brocklehurst a discriminare la piccola Jane: “Chi crederebbe che lo spirito del male ha già trovato in lei una schiava e un agente?” e spiega che: “Tutto questo l’ho appreso dalla sua benefattrice…” La cara zia…
Dopo alterne vicende (qualche amicizia, delle febbri tifoidi, la morte per deperimento dell’ormai quasi consunta e santa Helen e di tanti compagni e compagne), Jane, trascorre otto anni di studio volenteroso, in cui ha tutto il tempo di riscattare la sua reputazione e a imparare tante cose: il francese, a suonare il piano, a dipingere, a ricamare in bianco e nero e a colori; e a diventare maestra.
Un giorno, quasi all’improvviso, decide di lasciare il suo posto di docente del collegio, e si propone come istitutrice privata, mettendo un’inserzione sul giornale: si trova presto un impiego presso una famiglia facoltosa, dove deve accudire una bimbetta di nome Adèle, molto vispa che conosce quasi solo la sua lingua d’origine, il francese.
Jane mi meraviglia a volte con le manifestazioni del suo carattere inquisitivo. Quando la signora Fairfax, che è la bambinaia, non riesce a delineare bene il carattere del suo padrone, Jane pensa che “vi sono persone che sembrano incapaci di definire un carattere, o di osservare e descrivere le particolarità salienti sia degli uomini che delle cose.” E poi continua: “Ella non chiedeva né indagava oltre e si stupiva del mio desiderio di avere idee un po’ più precise sulla personalità del mio padrone.”
Nel capitolo successivo, Jane dimostra una modernità di pensiero che ne fanno una sufragetta ante-litteram. Dapprima si dichiara “una creatura inquieta e insoddisfatta”, fatto inevitabile poiché: “L’inquietudine era parte della mia natura e spesso mi faceva soffrire.” E poi che: “È vano dire che gli esseri umani dovrebbero accontentarsi della quiete; gli uomini hanno bisogno dell’azione e, se non la trovano, la creano.” Inoltre: “Le donne sentono come gli uomini e come loro hanno bisogno di esercitare le loro facoltà, hanno bisogno d’un campo per i loro sforzi.” Infatti: “È stolto condannarle o deriderle, se cercano di fare o di apprendere più di quanto le consuetudini ritengono necessario per il loro sesso.”

Jane e il suo strambo padrone, il signor Edward Rochester, incerto padre di Adèle, hanno una schermaglia che pare non debba aver mai fine: si rispettono, ma non si capisce se e quanto si piacciano. Lui è brusco e la cosa non la disturba, “perché un contegno così scortese e capriccioso non mi imponeva alcun obbligo…”
Poi lei contrattacca: “… non ritengo che lei abbia il diritto di darmi ordini soltanto perché è più anziano di me, o perché conosce meglio il mondo. La sua superiorità dipende dall’uso che lei ha fatto sia del suo tempo che della sua esperienza.”
Lui la pesa e soppesa continuamente: “… lei non è fatta per parlare di sé, ma per ascoltare le confidenze altrui; sentiranno anche che non ascolta con malevolenza o con disprezzo, ma con una specie di simpatia innata, che consola e incoraggia, anche se si manifesta con troppa discrezione.” Aggiunge poi, in una successiva occasione: “Più a lungo potremo conversare insieme, signorina Eyre, e meglio sarà, poiché mentre io non posso contaminarla, lei mi purifica.”
La situazione è questa: lui conosce la vita, ne ha patite, consumate e prodotte tante, lei è invece vergine e ingenua. Lui trova in lei quel candore che gli permette di pulire la sua anima. Lei non inizia ancora a vivere per conto suo, ma rivive la vita altrui, e il quesito che ora il lettore (a cui lei si rivolge ogni tanto) si pone è: fino a quando sarà così?
I disordinati complimenti e le precise critiche che il signor Rochester muove nei suoi confronti eccitano la sua sensibilità e al lettore pare che un po’ si stia innamorando. Tanto che medita, ad un certo punto, per non aggravare il suo sentimento, di recedere dal suo lavoro di istitutrice e di andarsene altrove.
Quando arriva una lettera del signor Rochester, che è assente da alcune settimane, Jane ha un sussulto: “Perché mi tremasse la mano e involontariamente rovesciassi nel piattino metà del contenuto della tazza, non lo volli sapere.”
Esiste una notevole differenza di età fra i due (una ventina d’anni) e di condizione sociale; ma anche una notevole affinità elettiva: tutto ciò crea un guazzabuglio di sentimenti, ma alla fine l’onesta Jane non può che dire: “Devo quindi ammettere che saremo separati per sempre, eppure so che l’amerò finché avrò vita.”
Il discorso vale anche per lui, che la cerca quando non se la vede attorno, ma che finge di non accorgersi di lei quando è al cospetto delle cariatidi femminili e snob sue ospiti. Jane se la squaglia (sono sue parole) e lui la insegue quasi subito, rinfacciandole una troppo prematura uscita di scena. Le dice: “‘Buona notte, mia…’ Si interruppe, mordendosi le labbra, e mi lasciò bruscamente.”
Che dire della pressoché infame Miss Blanche Ingram? Che, come promessa fidanzata (e forse mai sposa) del signor Rochester è così impensabile, per come si atteggia, quando dà dello stupido un po’ a tutti, allorché chiama “insopportabile scimmietta” la piccola Adèle, da come disobbedisce ai genitori, o promette che nel suo ipotetico consorte non vorrà “trovare un rivale, bensì un suddito”: per quanto bella non potrebbe risultare appetibile che a un beota. E il signor Rochester non lo è affatto, un beota.
Mentre assisto alla pantomima della finta chiromante (che non crede alla chiromanzia, ma alla fisognomica), esce dal libro un piccolo lampo, per cui, da un accenno che la maga fa a Miss Pole, mi sovviene un bieco professore di Harry Potter, che rimane una figura ambigua fin quasi alla fine del ciclo della Rowling. Miss Pole è addirittura sospettata da Jane di voler attentare alla morte del signor Rochester. Se son misunderstandings, fioriranno.
Somiglianze ulteriori fra la storia di Jane e quella di Harry. Entrambi i due adolescenti confidano in un superiore anziano, che stravede per loro. Albus Dumbledore e il signor Rochester nascondono qualcosa al loro protetto, che prima o poi si rivelerà (immagino anche nel caso di Jane).

Differenze: i nemici di Jane sono neutralizzati dall’autrice. Sia la zia (che fino all’ultimo nutre del malanimo nei suoi confronti e l’accusa di essere malvagia), che i cugini compiono il loro destino, in qualche caso infame, in altri imprevedibile, a circa metà della narrazione, a quanto racconta l’io narrante. Nel caso di Harry, invece, essi costituiscono l’asse portante della narrazione e solo alla fine pagheranno il fio della loro malvagità.
Un’altra notevole differenza è il carattere dei due protagonisti. Sono entrambi schietti, ma Jane sa meglio nascondere quel che gli sale dal cuore e che le verrebbe da dire. Si autocensura, pur senza negare la verità, ma preferendo a volte tacerla. Harry è incapace di trattenere il suo sentimento e questo gli crea ancora più disagi, nell’arduo e magico mondo che frequenta. Jane sempre pensa (a volte fin troppo) prima di parlare, Harry in genere prima dice la sua e poi medita su cos’era meglio dire. Perché, forse, la passione che anima il ragazzo è di tipo conoscitivo, che è quella che maggiormente emoziona un giovane. Jane, a diciott’anni, ormai sa quanto le abbisogna nella vita, quasi tutto, ma non ancora l’amore. E quel sentimento viene coltivato come una pianticella, con calma e saggezza.
Harry è molto intuitivo ed emotivo, Jane assai deduttiva e grandemente dotata di self-control. I colpi di scena nel libro della Rowling sono mozzafiato e complicatissimi; ben più blandi, ma non meno complessi, quelli della Brontë. La scena forse più memorabile del testo è quella della dichiarazione d’amore fra il padrone e la dipendente. Il primo sembra un gatto che gioca con il topo, ma quest’ultima non ci sta nel ruolo di vittima, e capovolge con un colpo di reni la situazione.
Dapprima il felino si sente costretto a confessare il suo amore e poi ad accettare una sorta di prova psicologica:
“Signor Rochester, si volti verso la luna.”
“Perché?”
“Perché voglio leggerle in viso; si volti!”
E con questo quasi lieto fine potrebbe terminare il romanzo. Invece…
Miss Pole si rivela per quello che è. Non è una pazza tendenzialmente assassina, ma l’infermiera di una pazza tendenzialmente assassina. Non è affatto un Severus Piton e in effetti da lei mi aspettavo di più. Però l’aura di mistero e sospetto che l’avvolgeva può aver suggerito quella che circondava la figura l’ambiguo maestro di Pozioni e poi di Difesa nel romanzo della Rowling. E qualcosa del colpo di scena in cui appare l’unico mostro del romanzo della Brontë pare quasi di stile harrypotteriano.
Jane non può coronare il suo sogno d’amore perché al momento della celebrazione del tanto sospirato matrimonio, qualcuno eccepisce qualcosa, per cui… il signor Rochester non può diventare bigamo.
“Il mio futuro marito stava diventando per me tutto il mio mondo, e di più ancora, quasi la mia speranza nell’eternità. Egli si era frapposto fra me e ogni pensiero religioso, esattamente come un’eclisse che oscura all’uomo la vista del sole. Non sapevo, in quei giorni, vedere Dio nella sua creatura, perché di quella creatura avevo fatto un idolo.”
“Nessun essere umano poteva desiderare d’essere amato più e meglio di come io ero amata; colui, che mi amava tanto io l’adoravo, ma dovevo rinunziare al mio amore e al mio idolo. Una sola parola compendiava il mio intollerabile dovere: partire!”
Sbarca, come una naufraga, in altro luogo, senza un soldo né una risorsa, poi viene accolta cristianamente dalla cristianissima famiglia Rivers.
“Ero sicura che Saint-John Rivers, nonostante la vita pura e lo zelo coscienzioso, non aveva trovato ancora quella pace divina che sorpassa ogni comprensione umana. Non l’aveva trovata più di me che di nascosto mi tormentavo nel rimpianto del mio idolo infranto e del mio paradiso perduto.” (trattasi del signor Rochester).
L’idolo, una volta infranto, non cesserà mai di agire, anzi, intensificherà la sua carica energetica nella mente dell’idolatra.
Spesso, durante la gelida disamina di quest’incandescente libro, mi son chiesto quanto Jane fosse religiosa. Ad un certo punto del 23esimo capitolo, Jane si autodefinisce scherzosamente la “brutta governante quacchera” e di tale religione si fanno altri due tremolanti accenni nel romanzo.
Immagino che per quei figli della luce il divorzio fosse ritenuto peccaminoso, ma Jane non si esprime a riguardo. Del suo grande amore svanito nel nulla, se ne fa infine una ragione: “Sì; ora so di aver agito bene quando ho deciso di rimanere fedele ai principi e alla legge, respingendo i consigli di un’esaltazione momentanea. Iddio mi ha diretto nella scelta: ringrazio la sua provvidenza per avermi guidato!”
Le pagine finali del 32esimo capitolo, farebbero disamare la religione a un cistercense d’osservanza stretta (detto anche frate trappista). Recano un tedio così smisurato che la metà basterebbe, eppure qui si comprende come l’intero romanzo non sia di tipo amoroso, bensì spirituale in senso lato.
Saint-John Rivers censura e disprezza l’entusiasmo casalingo di Jane, e con esso ogni entusiasmo che non sia mirato a Theos, a Dio. La sua presenza ammorba il romanzo al pari di quella febbre tifoide che, a suo tempo, aveva falcidiato la maggior parte degli allievi del collegio di Lowood. La sua è una figura tragica che pare sempre in bilico fra santità e fragilità nervosa. Da vero quacchero è in grado di fremere e di apparire al contempo tetragono, mantenendo in ogni occasione lo sguardo intransigente e inflessibile.
Quando avverte Jane di essere in procinto di partire per l’India, lei gli dice, icasticamente:
“Dio ti protegga; tu lavori per lui.”
Per la seconda volta, Jane ha attirato la mente di un uomo. Saint-John le chiede espressamente, meglio le annuncia e decreta: “Devi venire la moglie di un missionario e lo sarai. Sarai mia: io ti reclamo, non per la mia felicità, ma per servire il mio Signore.”
Le fa anche un panegirico: “Jane, tu sei docile, diligente, disinteressata, leale, costante e coraggiosa, gentile ed eroica.” Ad esso io aggiungo che a lei ben si confà il detto reggiano “pianser fa trii e reder fa trii”, piangere e ridere fanno sempre tre. Raramente lacrima, spesso prende allegramente la vita. Confessa che il suo cuore e il suo pensiero è sempre là, ovunque sia il signor Rochester. Ma questo non le impedisce di vivere in piena serenità, pur con alcuni attimi di quieto dolore.
La capacità attrattiva esercitata dalla singolarità Saint-John, come un buco nero, attira la navicella chiamata Jane Eyre, a cui non rimane che un attimo per la salvifica fuga, prima di cadere nel vortice sito all’interno di quell’orizzonte degli eventi malefico e benefico al contempo: “Fui tentata di rinunciare a lottare contro di lui, di lasciarmi trascinare dal torrente della sua volontà e di sacrificare la mia vita. Mi sentivo dominata da lui, quasi come ero stata dominata altra volta, in un modo diverso, da un’altra persona. Ero pazza tanto allora come ora. Cedere allora sarebbe stato un errore di principio; cedere ora sarebbe stato un errore di giudizio. Me ne rendo conto ora che posso guardare quella crisi con il sereno diaframma del tempo: allora non avevo coscienza della mia follia.”
Questa è la Singolarità: l’Uno del tutto ordinato, privo di entropia e in cui tempo e spazio cessano di esistere, almeno come lo intendiamo noi.
All’improvviso (cosa non accade in simil modo?) una parte del signor Rochester e della sua antica disgrazia si trasforma in energia ed emette un triplice grido: “Jane! Jane! Jane!” Qualcuno, da chissà dove, risponde: “Dove sei?”
Una magica forza attrae irresistibilmente Jane a un’usta e desolata Thronfield Hall e poi a un ermo castello, che svetta, un po’ tetro, nei pressi di Ferndean.
Il colloquio amoroso che avviene miracolosamente fra Jane e il signor Rochester è così leggero che compensa certe pesantezze (mai noiose, però) del libro.
A volte, quando si è rinunciato a qualcosa di caro, tale preziosità riappare dal nulla, come un miracolo. Non a tutti capita. A Jane e a Edward sì.
Due o tre volte le cose accadono, per lo più nella vita; il cuginetto John non la maltrattava “due o tre” volte alla settimana, ma continuamente; gli ospiti terribili del signor Rochester rimarrano in villa per “due o tre” settimane dietro fila; “due o tre” gentiluomini siedono vicino a Rochester; “due o tre” fattorie gli appartengono nei dintorni di Thornfield; vi sono “due o tre” negozi di abbigliamenti all’interno del villaggio, oltre a quattro sedie, un tavolo e un orologio, vi è una credenza con “due o tre” piatti e stoviglie, Ferndean rimase pressoché disabitato, fatta eccezione di “due o tre” stanze messe a disposizione di uno scudiero quando passa da quelle parti.

Charlotte è una delle “due o tre” scrittrici che mi hanno più appassionato in questo periodo.
Se ho ben contato, per 32 volte Charlotte mi chiama in causa con il vocativo generico lettore, altre 7 o 8 in terza persona, una volta mi dà del romantico (“oh romantic reader, forgive me for telling the plane truth!”), un’altra dell’affabile (“gentle reader”). Sento che Charlotte avrà sempre bisogno che qualcuno le sia vicino mentre ci narra la sua straordinaria storia.
A un lettore moderno, quale sono io, cara Charlotte, pare strano (ma vero!) che la piccola Jane non sappia o non voglia accorciare la distanza classista che la separa dal suo amato bene. I due eroi del romanzo si amano disperatamente, ma mentre lui la chiama con mille vezzeggiativi… Lei no: Edward rimarrà fino all’ultimo un Sir (“Well, Sir?”), da obbedire e servire, almeno fino alla celebrazione del matrimonio. E non in eterno, mi auguro… “Well, sir…” è da lei ripetuto almeno sette volte.
Il Sir, dal canto suo, pur essendo molto più confidente, stravede tanto per lei, che si confuse (quando ci vedeva perfettamente) persino sul colore dei di lei occhi (ritenuti bruni, ma verdi in realtà).
Edward: peggio e meglio di così non ti poteva andare.
Jane, senti un po’ quello che dico: tu sei una grande e vera donna.
Non so cosa questo esattamente significhi.
Ma sento che, probabilmente, è così!
“Well, Jane?”
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Jane Eyre, Charlotte Brontë, BUR (Biblioteca Universale Rizzoli), 2003