Sparring partners: Cesare Boni e la meditazione di sette minuti al mattino
Cesare Boni, poco prima di lasciare questa vita, istruì Un tipo chiamato me stesso su una forma di meditazione che assurgeva a preghiera, anche se non si sa a chi fosse rivolta.

Gli disse che, con una pratica di appena sette minuti, da svolgersi di prima mattina, anche un tipo instabile come lui avrebbe prima o poi realizzato quell’armonia che sentiva sempre sfuggirgli.
Il primo minuto era destinato alla consapevolezza che il risveglio era avvenuto e che si trattava di un dono, anche se non si individuava il mittente. Nel secondo minuto l’orante rivolgeva a se stesso il proponimento di affrontare la giornata col cuore in mano, in accordo con la natura e, in particolar modo, con il genere più problematico, quello umano. Gli ultimi cinque minuti erano destinati all’ascolto del proprio respiro e a togliere le croste dall’anima.
Ahmmm ahmmm ahmmmm. Haaaaaa haaaaa haaaa.
L’aria entrava nel corpo, attraverso il naso, le narici, la faringe, la laringe, la trachea, i bronchi, i bronchioli, gli alveoli e, solo dopo aver ossigenato i polmoni, veniva in parte espirata. Prima di quel momento, esisteva, anzi, non esisteva un attimo da nulla in cui si poteva percepire la coscienza di sé e delle cose.
L’aria veniva espulsa dalle narici e dalla bocca, portando con sé i pensieri. E Un tipo chiamato me stesso ne aveva sempre avuti tanti, di pensieri, buoni e cattivi. Essenziale era fare tutto ciò alla mattina presto, appena ci si svegliava, in anticipo sui rumori della vita, come ad esempio le amare battute di qualche parente, i clacson delle auto, il ruggire dei motori e il ringhiare eventuale del campanello.
Motivo per cui Un tipo chiamato me stesso, che non si svegliava mai prima di mezzogiorno, non ci aveva mai provato. Era sufficientemente certo dell’insuccesso di qualsiasi tentativo di meditazione, da parte sua. Eppure, caro Un tipo chiamato me stesso, ricordati il motto dei Samurai: “Se cado tre volte, tre volte saprò rialzarmi…”

Lo stesso che capitava ogni mattina a Un tipo chiamato me stesso succede a me dal mese di agosto. Mi alzo, faccio quel che debbo, e poi quel che voglio, tra cui la lettura di “Le ricerche filosofiche” di Ludwig Wittgenstein, due, al massimo quattro (anche se forse una volta sono arrivato fino a sei o addirittura a otto) pagine. Witty è il filosofo delle parole. Era… e non è più. Peccato! Avrei voluto tanto chiedergli cosa ne pensasse di una filosofia senza parole, che forse si chiama mistica del silenzio, del pensiero muto, di quella che Jiddu Krishnamurti definiva: “Libertà dal Conosciuto”, che ti porta dritto dritto in bocca alla “Pienezza della vita”, tramite “La domanda impossibile”, ottenendo “La visione profonda”.
Jiddu ci ha insegnato “La prima e l’ultima libertà”. Ci disse: “Impariamo ad imparare” e ci comunicò “Cosa vi farà cambiare”, attraverso “Verità e realtà”. “Al di là della violenza”, occorre portare “L’uomo ad una svolta”. E questa rappresenta senza dubbio “La sola rivoluzione” possibile. Ma anche Jiddu, che non ho mai inteso perfettamente, non è più tra noi.
Di ambedue i pensatori rimangono gli scritti. Di cui sarò, spero, eternamente grato.
Ho sempre giocato ad immaginare, in un al di là forse non irreale, un Victor Hugo, tricologico e bonapartista, che conversa animatamente con un Lev Tolstoj, altrettanto barbuto, nemico giurato del piccolo caporale italiano.
Così amo immaginare, magari seduti nel medesimo tabarin, Ludwig e Jiddhu, laconici e di sovente ciarlieri amici, tacere e talvolta discorrere su qualsiasi argomento, entrambi, com’erano, taciturni pur nel conversare. Non vorrei però assistere mai alle loro sempiterne schermaglie. O farlo, semmai, il più tardi possibile. Grazie a voi, cari Maestri, che ho ora dileggiato per scherzo.

Penso ancora al mio nume Albert Camus. “Lo straniero” mi stordì con un colpo secco, uno solo, durate poche decine di pagine. “La peste” fu un incontro finito, credo, con un pareggio, al termine del quindicesimo round. Come si disse fece Antuofermo coi pugni di Hagler, che li parò in gran parte di faccia, così io dovetti subire, senza requie, la maggior potenza di Albert. Ricordo benissimo ogni momento di quell’atroce e infinito match, che ancora non mi pare concluso e forse mai lo sarà. Eppure, quell’unico colpo sferrato da Mersault ancora lo benedico, e lo maledico, e senza di lui non potrei più Essere (come prima!). E non mi sono mica più rialzato… Ma chi se ne frega! Anche Mersault se ne sarebbe fregato.
Straniero!
Il tuo piede l’hai posato sul mio cuore innocente.
Tu mi hai tolto tutto.
Tutto mi hai dato.
Mi hai purificato.
Poche settimane fa lessi, no, divorai “Scomparsa” di Joyce Carol Oates. Ora faccio il paio con “Pastorale americana” di Philip Roth. I due libri hanno molte cose in comune. Sono bellissimi. Narrano la storia disgraziata di una famiglia borghese, da cui una figlia, piccola, non bellissima, assai problematica, si allontana, scappa, si dilegua e fa danni enormi, prima con la sua fastidiosa presenza e poi con l’incredibile assenza. Difficilmente ho letto libri più sapidi e densi. Se una particella entrasse nelle loro rispettive pagine, difficilmente la scamperebbe, oppure ne uscirebbe malconcia.
Un esempio soltanto, a pagina 353 (capitolo VII) del libro di Philip: “… e si chiedeva persino, in quelle rare occasioni in cui era arrabbiatissima con lui, se non era stato un errore rivolgersi a una persona che, pur avendo una considerevole autorità sui titolari delle imprese edile del posto – cosa che avrebbe garantito un lavoro di costruzione di prim’ordine – e un’eccellente reputazione professionale, era ‘in sostanza un restauratore d’antichità’.”

Dopo tale definitissima frase, mi alzo dal divano e sento immediatamente il bisogno di ricorrere a un autore che da un po’ rincorrevo, pur senza frenesia, anzi, da in modo pressoché immoto: Juan Rulfo, e il suo “Pedro Paramo”. Ernesto Franco, nell’esauriente prefazione, esordisce così: “Pedro Paramo” è un’opera al meno. È il lavoro della sottrazione continua. Una narrazione senza le astuzie del romanzo. Un brano di Storia senza date e senza eroi. Un tempo immobile. Una metafisica senza mondo. Non solo un libro di poche pagine, ma un libro con meno pagine.” Etc etc… Insomma, la prefazione è sì molto bella, ma un po’ lunghetta.
Aggiungo soltanto un passo del libro, tratto dalla pagina 60: “‘Ho saputo proprio adesso, – intervenni io, – che voi siete fratelli.’ ‘L’ha saputo ora? Io lo so da molto prima di lei. Ma è meglio che non dica altro. Non ci piace che si parli di noi.’ ‘Io lo dissi col proposito di capire. Non per altro.’ ‘E cos’è che capisce?’ Lei si mise accanto a lui, appoggiandosi alla sua spalla e disse: ‘E cos’è che capisce?’ ‘Niente, – dissi – capisco sempre meno.’ – E aggiunsi: … …”
Beh, cose essenziali, ma non necessarie ad alcuno scopo.
E se non capisce lui, che è l’io narrante, come potrà mai il lettore?
Eppure…
Eppure… un viaggio interminabile termina sempre in un modo brusco e inaspettato.
Eppure… un breve giro esistenziale, in genere, è compreso in una lentissima e franca agonia.
A tutti gli autori citati, ma soprattutto a quelli non nominati, né al momento pensati, i miei più immanenti ringraziamenti.
Written by Stefano Pioli
Autori citati

Cesare Boni: Il segreto della vita e della morte
Ludwig Wittegenstein: Ricerche filosofiche
Jiddu Krishnamurti: Opere
Victor Hugo: Opere
Lev Tolstoj: Opere
Albert Camus: Lo straniero
Albert Camus: La peste
Joyce Carol Oates: Scomparsa
Philip Roth: Pastorale americana
Juan Rulfo: Pedro Pàramo
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