“Rayuela – Il gioco del mondo” di Julio Cortázar: una particolare e sperimentale struttura narrativa

La fregatura di quando uno legge è che non riesce al momento a scrivere. E viceversa. Perciò ho tardato tanto a cominciare a farlo: sono soltanto a pagina 161 e sento che faccio ancora in tempo..

Rayuela – Il gioco del mondo di Julio Cortázar
Rayuela – Il gioco del mondo di Julio Cortázar

Già nel pre-esergo de Rayuela ‒ Il gioco del mondo, le avvertenze di Julio Cortázar sono preoccupanti, poiché suggeriscono tre diversi tragitti per giungere al termine dell’opera, ognuna delle quali non è essenziale. Scelgo la prima caso, la solita: dalla prima riga, iniziando da sinistra all’ultima finendo a destra. Poi, quando e se si vivrà, si commenterà.

Qualcuno credeva davvero “che incontrarsi per caso non era un caso nelle nostre vite, e che la gente che si dà appuntamenti precisi è la medesima che ha bisogno del foglio a righe per scriversi o che preme dal basso il tubetto del dentifricio.” – e io, a che tribù appartengo? Risposta cogente: a troppe. Qui si potrebbe chiudere il tomo e andare a fare una vasca (altrove detto sfruscio) in via Emilia e non pensarci più. Oppure, continuare la lettura fino al termine del percorso, così si va in statistica. Scelgo la seconda. La bici è da gonfiare, gli occhi sono pronti subito dopo il caffè.

“… quando pioveva mi entrava l’acqua fin dentro l’anima…”l’anima dell’acqua che incontra d’improvviso le proprie, distinte particelle.

“A quel punto mi ero accorto che cercare l’anima era il mio destino, l’emblema di coloro che escono la notte senza alcuna precisa intenzione, lo scopo degli assassini di bussole.” – chi non ha ammazzato con rabbia una zanzara lanci il primo zampirone.

Il mondo è diviso in due categorie di persone (e quando si dice così in genere s’intende divulgare un’assurdità): quelli che credono nel destino del cosmo e quelli che non credono manco nel proprio. Ci sono poi infinite superstizioni, a ognuna la sua: “… niente può trattenermi quando qualcosa mi cade per terra, e non vale che sia un altro a raccoglierlo perché il maleficio agirebbe ugualmente.” – io lo lascio momentaneamente per terra e poi ci inciampo dopo tre o quattro ore; ma di gesti rituali ne conosco un’infinità e non vale la pena che li enumeri.

“… penso che fare un pupazzetto con la mollica di pane abbia ugual significato che scrivere il romanzo che non scriverò mai o difendere con la vita le idee che redimono i popoli.”tót i cajòun a gh ân la só pasiòun. Ânca mé. Oppure si può cogliere l’attimo, compiendo l’assurdo. Per il protagonista, Horacio Oliveira, è scegliere i propri compagni di (s)ventura, “immetterli nel suo mondo senza mai pretendere di immetterli eppure immettendoli, perché erano persone che non aspettavano altro che di uscire…” – dove non si sa, fuori “… dal solito percorso…”.

Era “… Etienne sicuro di sé come un cane o una cassetta delle lettere…” – fedeli e remissivi, pur sempre pronti a scattare di fronte all’ineluttabile. Non male come duplice similitudine.

“Dato che non l’amava, dato che il desiderio sarebbe finito (perché non l’amava, dato che il desiderio sarebbe finito)…” – poiché tót à fîn, anche la fine stessa.

“A quei tempi leggeva poco…” – oh, mica l’ha ordinato il dottore: se non è una scelta, si deve fare altro, tipo: “osservare gli alberi, i cordini che trovava per terra, le gialle pellicole della cineteca e le donne del quartiere…”.

Poiché: “… un pesce solo nella vaschetta diventa triste e allora basta mettergli uno specchio e il pesce ridiventa contento…” – e noi, si ricordi tutti, che è importante, non siamo altro che quel pesce.

“E il Tempo? Tutto ricomincia, non c’è assoluto.” – c’è, ma Qualcuno l’ha relativizzato. Dicono.

“… in fondo Klee è storia e Mondrian atemporalità…” – ma se Storia non è un’illusione, e il tempo pure, di cosa si sta parlando?

“… si trovava in quel punto della vodka in cui la notte comincia a diventare magnanima, tutto gli giurava fedeltà e sapienza.” – mi son sempre chiesto perché il sangue di Cristo è stato trasformato in un calice di vino, che poi si trasformerà di nuovo in sangue. A che pro tutto questo? Forse perché è bello. Lo stesso accade per il pane (e il companatico).

Non ho ancora compreso se questo romanzo, Rayuela ‒ Il gioco del mondo, sia e quanto sia eventualmente una fiction. Leggo: “… avrebbe girato il piatto di bachelite (ammesso che sia bachelite)…” – ora Julio Cortázar non c’è più, i suoi personaggi ronfano in genere su uno scaffale e, se uno li va a sceta’, che fanno? Recitano la solita manfrina e nulla più. Chi può comprovare, oggi come oggi, se era davvero bachelite?

“… pensò Oliveira guardando la Maga che guardava Gregorovius che guardava in aria…” – e io, chi devo guardare? Chi guarda me?

“La cosità è lo spiacevole sentimento che laddove termina la nostra presunzione comincia il nostro castigo.”a me Julio Cortázar non dispiace perché il suo continuo inventare parole o concetti originali ben si sposa con la mia tendenza ad andare sempre un po’ a casaccio.

“Il progresso dell’arte sono stupidaggini arcisapute…” – meno male che lo sto leggendo, ché finora il concetto m’era sfuggito.

“Prendere per mano la Maga, portarla con sé sotto la…” – e poi: “Tornare a far l’amore con lei ma anche un poco per lei, non già per imparare una disaffezione troppo facile…” – e questo per dire che ci sono amori che si spengono dopo un po’ e altri che s’aggravano dopo un po’, che poi si smorzano anche quelli, ma che poi restano, almeno nella tenera malinconia di un ricordo. Tutti gli oggetti contenenti le tre righe ultime di pagina 88 e le prime due di pagina 89 “divenivano come denti o capelli, qualcosa d’accettabile e fatalmente incorporato, qualcosa che non si vive né si analizza perché è così e ci integra e completa e irrobustisce.”speróm dai!

La Maga dice a Horacio: “So bene che sei stanco, che non mi ami più. Non mi hai mai amato, era un’altra cosa, un modo di sognare…” – sia l’amore che il sogno è un peregrinare verso l’altro, verso l’Altro. Ma soltanto io colgo la lieve contraddizione insita nelle parole di questa donna? Lui poi fa di tutto per andarsene, consapevole che la strada per il ritorno la conosce bene. Ed è così buono che gli scappa detto: “Nessuna mia amica si è suicidata finora, benché il mio orgoglio sanguini quando lo dico.” – bestia mia, come ti compatisco!

“Disse Oliveira” – che poi è sempre Horacio: “Non resta niente.” – solo quelle tre parole? Quindi qualcosa è poi rimasto.

Lucia è la Maga. Dice lui a lei:Non siamo adulti, Lucia. È un merito che si paga caro…” – occhio che la morte si sconta invecchiando. Finché si è giovani solo i pazzi scoprono il suo balbettante mistero.

“… A poco a poco soffrirò sempre meno e ricorderò sempre più…” – a me è capitato, sì – “… ma che cosa è il ricordo se non la lingua dei sentimenti, un dizionario di facce e giorni e profumi…”Julio Cortázar santo subito!

“… a Parigi c’erano troppi stranieri che non conoscevano le norme della circolazione e che portavano via il lavoro ai francesi.” – e poi qualcuno nega che la storia (pure quella dei pregiudizi) si ripete puntualmente ogni tot anni.

Il capitolo 23 narra le vicende di un Horacio Oliveira che ce la mette tutta a compiere una buona azione ma lo squilibrio di una vecchiarda, Berthe Trépat, pianista, glielo impedisce. Per cui, al termine del viaggio di quel suo viaggio notturno, va letto e basta. Gesto schifoso e magnifico al contempo.

Passo al 25: Maga ha la fama di non essere edotta di tutto quanto scorre nel mondo (eufemismo), per cui taluni intellettuali (come Gregorovius, come Horacio) “sospiravano quando lei faceva qualche domanda.” – ma perché? Perché si dice beata ignoranza? Più leggo e meno mi senti beato. Perché non mi decido a smettere?

“Parigi è un’immensa metafora…” – mentre, per Paolo Conte, Genova è un’idea come un’altra. Vedi Napoli e poi muori. Bologna è Dotta ma Grassa. Etc etc. Le città non sono altro che la somma algebrica delle nostre minutezze umane. Ma ora posso riprendere a leggere.

A pagina 169 qualcuno commenta “il Bardo e dice che svolge delle importanti funzioni: “ci restituisce alla vita, alla necessaria di una vita pura, esattamente quando non c’è più via d’uscita e siamo inchiodati al letto con un cancro per cuscino.” – non so, quando lo lessi m’inquietò ma poi mi dissi che, una volta che avessi raggiunto i miei avi, qualora li incontrassi Colà, li saluterei per educazione e poi penserei ai fatti miei.

Dice Gregorovius, sempre così sapido e informato: “In realtà noi siamo come le commedie quando si arriva a teatro al secondo atto. Tutto molto bello, ma non si capisce niente.”

Due antagonisti discutono su cosa significhi il fatto che “tu stia qui alla mia sinistra e io alla tua destra…” – lasciamoli divertire, ma prima o poi litigheranno, lo sento. Mia madre direbbe che quei due lì hanno studiato troppo per sapersi decidere cosa fare dei loro limiti. Dice ancora Oliveira: “L’assurdo è che non sembri un assurdo…”assurdo è che se ne parli come di un assurdo.

Julio Cortázar, posso farti un appunto? Sembri proprio voler confondere il lettore altalenando “Oliveira” con “Horacio”, “Maga” con “Lucia” e “Ossip” con “Gregorovius”. Tutti gli autori talvolta lo fanno, ma tu mi pare che ex-ageri. È un tuo diritto sacrosanto. Ma perché lo fai? La mia è un’ingenua curiosità. Di fatto Rayuela è uno dei tomacci più ex-agerati che ho conosciuto.

Il rapporto che c’è fra Horacio e Ossip è antagonistico. Il “Club” è l’insieme degli amici che si ritrovano a parlare (anzi, a discettare) sul mondo (Horacio arriva però a dire: “Nous ne sommes pas au monde”). Non sono pazzi, ma intellettuali da strapazzo. Forse lo è di più il lettore che si affanna a capirci qualcosa in questo marasma di idee, frasi mozzate, affermazioni perentorie, tesi, antitesi, con rarissima e penosa sintesi. Finché, risolto il problema di Rocamadour, il bambino dalla salute precaria di cui ho fatto di tutto per sottacerne la memoria, dapprima la Maga, addolorata madre, scrive una penosa lettera a quel bambino mal nato, e poi Horacio la legge e se ne schifa un po’, finché arriva, ormai insperato, il capitolo 34 che, come dice la nota 40, è “scritto a righe alterne” – in cui quelle dispari sono di un romanzo mal letto e mal capito da Horacio, come questo di Julio Cortázar lo è da me, e quelle pari sono i commenti, per lo più a sproposito, di Horacio stesso. Sarebbe interessante alternare questa duplice narrazione, dopo averla sapidamente unificata, con alcune righe della mia reazione. Come disse quel celebre comico, ma variandone la battuta, mal che vada sarà un suc-cesso.

Fra i miei sogni ci sarebbe di leggere Finnegan’s wake di James Joyce, ma per fortuna sono riuscito a rinvenire solo un volume (ne mancano un altro o due, mi pare). Mi chiedo che ne avrebbe scritto in un’ipotetica recensione Julio Cortázar. Se un giorno mi recassi di nuovo a Trieste non dubito che mi toglierei lo sfizio di chiedere alla statua peripatetica di James Joyce quale sia la sua fluida opinione sul Rayuela. Il mondo, per Jacques Monod, è in bilico fra apparente caso e apparente necessità, ma essendo più piccolo di quanto riusciamo a immaginarci, si può dire che è un cogente casino. Ognuno di noi (tutti, anche ‘sti soci del “Club”) è convinto di avere una voce che tende a un’idea, mentre è esattamente il contrario: è un’idea che tende a una voce, col risultato di contribuire al rumore di fondo che giungerà sicuramente ai nostri posteri, non diverso da quello che è giunto a noi. Le ultime 7 righe del suddetto capitolo sono sequenziali, in quanto l’altra parte ha cessato di esistere. Che riposi in pace, poveretta!

“Il gioco del mondo si fa con una pietruzza che si deve spingere con la punta del piede. Ingredienti: un marciapiedi, una pietruzza che si deve spingere con la punta del piede. A poco a poco però, si acquista l’abilità necessaria per conquistare…” simile al gioco della settimana, in cui zompettavo da criatura. Noi però la pietruzza la tenevamo anche sospesa sulla fronte ripiegata e su una spalla. Ognuno ha il gioco del mondo che in fondo si merita.

Nel frattempo la madre orfana del proprio figlio (come mi dispiace e come poco la capisco!), si è recata Altrove. A pagina 228 cessa la prima sezione del romanzo, ambientata a Parigi, che era intitolata Dall’altra parte. Commento a freddo, anzi, a gelido: più leggo il romanzo e meno lo arguisco, e più mi cinicizzo (anch’io come Julio Cortázar invento termini orrendi). Ergo, meno lo sento incomprensibile. Quello che è, oltre l’apparenza, resta un non bel mistero.

A volte, nella vita, ci si sposta Da questa parte: titolo della seconda sezione del romanzo. Di cui ammiro e approvo l’esergo di Apollinaire (che non voglio condividere qui, quanto nella vita). Cambia l’antagonista, che non è più un europeo dell’est ma un “portegno”, di nome “Traveler”, mentre la donna in palio si chiama “Talita”. Li lascio questionare (quistiunêr, in arşân, è discutere fino al punto di litigare) per alcuni capitoli.

L’autore, che ogni tanto va citato al fine di capirci qualcosa, che nel caso in parola è Julio Cortázar, ama espressioni delicate e leggere, del tipo: “… (tutti sanno quanto sia pericoloso raddrizzare un chiodo a martellate, c’è un momento in cui il chiodo è quasi diritto, ma appena gli si dà un’altra martellata fa mezzo giro e pizzica violentemente le dita che lo sorreggono; è una cosa di una perversità fulminante), con il martello tenacemente su una mattonella (tutti sanno quanto sia) tenacemente su una mattonella (tutti sanno) tenacemente.” – al che il mio pensiero e ringraziamento corre a chi l’ha tradotto: Giulia Zavagna e Jaime Riera Rhren; a cui, quando sarà sarà, vorrei rivolgere un quesito o due. Nel frattempo, pur tanto ammirandoli, li compiango un po’

Tralascio il “gioco cimiteriale”, tra l’altro raddoppiato, di pagina 249, di parole che acquisiscono un nuovo senso accoppiandosi ad altre simili (“cliente”, “cleruchia”; “porchetta”, “porcino”) che però rimarranno per l’eternità relegate a quella pagina.

Oliveira discetta e filosofeggia che è un piacere: “Un centro illusorio quanto la pretesa dell’ubiquità. Non esiste centro, esiste una specie di confluenza continua, di ondulazione della materia. Durante tutta la notte io sono un copro immobile…” – io no, perché mi giro continuamente. Lasciamoli (autore + personaggio) pure alle loro cabale misteriche.

“Talita ammirava la forza di Oliveira quasi quanto l’astuzia e le invenzioni di Traveler…” – e poi li definisce “due gliptodonti” – le donne servono anche a far sì che l’uomo cerchi, dove può, il meglio e il peggio di sé. La competizione tra i due combattenti, come già occorse a Parigi, tra Oliveira e Osip, sta entrando nel vivo.

A pagina 262, dopo aver letto la domanda di Oliveira:Perché piangi?” – e l’immediata risposta di Malita, che nega e che dice che sta solo “sudando”, mi pare di vivere un sogno a cui non partecipo se non come osservatore esterno.

“Che bellezza, – disse Oliveira abbagliato. – È semplicemente fantastico.” Ancora un attacco di Oliveira a chi non sa accettare di buon grado di fargli da sparring partner: “Non sono ragionamenti, sono dimostrazioni squisitamente oggettive. Tu tendi a muoverti di continuo, come dicono i fisici, mentre io sono estremamente sensibile alla discontinuità vertiginosa dell’esistenza.” – ed è come dire: uno di noi due è un bosone (io), l’altro è un fermione (tu).

Il più docente dei due spara una sentenza:E queste cose non mi par proprio che tu le capisca sufficientemente.”

Ho appena deciso che vado a letto, così, dormendo, continuo a interpretare il presente tomone.

“… tutti e tre amavano, ciascuno a modo suo, la lettura commentata, le polemiche per il gusto tutto ispanoargentino di voler convincere e di non accettare mai l’opinione contraria…” – avrei scritto latino-americano. Non per far polemica, ma anche in Italia c’è ‘sto vizio…

Dice Talia: “… non ne posso più, voi due state giocando con me, è come una partita di tennis, mi date colpi da tutte le parti, non è giusto…” – una pallina e nulla più.

“Quando gli amici s’intendono perfettamente fra loro, quando gli amanti s’intendono perfettamente fra loro, quando le famiglie s’intendono perfettamente fra loro, allora ci crediamo in armonia.”una sorte di religione dell’intesa? e chi poteva dirlo, senza troppo professarlo, se non lui, “Oliveira”.

“La spiegazione è un errore ben vestito.” – e chi poteva dirlo, tanto per dire, se non lui, “Oliveira”.

“… lo inquietava una vaga soddisfazione all’altezza dello stomaco, quella risposta felina di contentezza data dal corpo, quando ride delle hinquietudini dello espirito.” – e anche del culo, intuisco; ma queste h che spuntano all’improvviso, che sono? aulenti peti?

Poi qualcuno fronteggia il suo fraterno personaggio: “Te lo dico perché ho vissuto molto io. Io che ho viaggiato. Quando io ero ragazzo. Sono tutte uguali, te lo dico io. Ti parlo per esperienza, figlio mio. Tu non sai ancora cosa sia la vita.” – basta scriverla, che poi la sappiamo tutti, no?

Si chiede quel misterico signore: “Continuava a suonare il piano Berthe Trépat?” – se non lo sai tu, vecchio mio! Ma tieniti per te la risposta.

Anche a pagina 319 si parla di quel penoso e allegro gioco infantile ed esistenziale.

“Perché in realtà lui non poteva raccontare niente a Traveler. Se cominciava a dipanare la matassa ne sarebbe uscito un filo di lana, metri di lana, lanacaprina, lanagnosis, lanaturner, lannapurna, lanatomia, lanaiade, lanatalità, lanazionalità, lanaturalità, la lana fino a lanausea, ma mai la matassa.”e lasciatemi divertire, direbbe Aldo Palazzeschi. E soffrire, scrivendo, e scrivere, soffrendo. Non è chiarissimo il signor Cortázar, in questo smilzo capitoletto 52, lungo poco più di una paginetta. Però dà l’idea dell’angoscia che colpisce questo straniero ovunque lui si rechi.

Contemporaneamente a questo sconclusionato romanzo (mancano ancora meno di duecento pagine), sto altrove leggendo Sostiene Pereira di Antonio Tabucchi, i cui capitoli terminano regolarmente con un’affermazione da parte dell’autore che riporta un’affermazione del protagonista, Pereira. Ieri ho concluso la lettura di Che cos’è un testo letterario di Loredana Chines e Carlo Varotti, in cui, fra le altre cose, si dice che il Racconto è un dare ordine alla Storia: “È questo un aspetto fondamentale del problema del trattamento del tempo nel Racconto: l’ordine.” – il Kósmos, che dall’Alba del Tempo combatte contro il secondo principio della termodinamica: Śiva vs Visnù. Finora il risultato è fissato sullo zero a zero: E = mc2. Ergo è E – mc2 = 0. I fisici ci hanno insegnato che si tratta di due tendenze opposte (e un po’ zoppe). Recentemente s’è scoperto che quei due claudicanti attori convivono litigando, come due anziani coniugi. E ogni tanto collaborano. E a volte giocano insieme, come dùie criatùre, come due bambini, al gioco della settimana, o del mondo, come dice Cortázar: Rayuela. Dimenticavo: è grazie a quei due accademici che ho scoperto d’essere un Lettore reale che ambisce a diventare un Lettore implicito, uno dei 25 a cui Alessandro Manzoni talvolta si rivolgeva. È per questo che ogni tanto tendo a maltrattare l’autore. Per vedere come reagisce alla mia reazione.

Ognuno ha le sue manie. La principale, in Horacio, è seguire le tracce della Maga. Ogni tanto, raramente, ne trova alcune che assomigliano a quelle, che l’aiutano a sopportare il lutto, sempre che ce ne sia bisogno: “Crede che sia morta, Manú, eppure la sente vicina e stanotte io sono stata lei. Mi ha detto anche di averla vista sulla nave, e sotto il ponte del corso San Martin… Non ne parla come se si riferisse a un’allucinazione, e non pretende neppure di essere creduto…” – anche quei bimbi che ogni tanto scorgono nella selva collinare la Madonna non credono di aver frainteso immagini, suoni, avvisi dei cinque sensi, né pretendono di essere creduti: a loro basta credere in se stessi (e in Lei).

“… ha cominciato a guardarmi ed era l’altra che guardava. Io non sono lo zombie di nessuno, Manú, non voglio essere lo zombie di nessuno.”

Il capitolo 56 è complesso e va letto e basta, limitando al massimo i commenti, sennò non si finisce più, non perché non ne valga la pena, perché è una roba da manicomio! È zeppo dei termini “cordino”, “cordini”, catinella acquosa”, a volte solo “catinelle” o “catinella”, “fili” talora “colorati”, “gioco del mondo”, confronti fra “le ore del sonno e della veglia” che “non si erano ancora fuse in unità”, di “non potersi fare un’idea neppure pallida di quell’unità che in altre occasioni aveva definito centro”, di “kibbutz”, “voglia di dormire, paura di dormire”, “la veglia contro il sonno”, “rullomano”, “rullomani”, “Heftpistole”, “ore del sonno e della veglia”, non “fuse ancora in un’unità”, “zona Traveler”, detto anche “Manú”, “Maga o Talita”, che “si somigliavano talmente e ancor più di notte e dal secondo piano”, “sputacchiere”, “doppelgänger”, “Da troppo tempo siamo il medesimo cane che gira e rigira su se stesso per mordersi la coda”, “sei come disincarnato”, dal nulla spunta una “Pola”, che era l’amante di Horacio quando era l’uomo della Maga, “Guardala là, tutta composta vicino al gioco del mondo… Meglio non aprire, Manú, stiamo tanto bene così”, “mozziconi” lanciati “senza riuscire ad imbroccare altro che la casella otto”, “sei i cinquemila anni di uomostipati in un metro e settanta, che guardano questo pagliaccio che vuole uscire dalla sua casella. Ho detto.”, “Lo so che è Talita, ma un momento fa era la Maga”, tipico caso di transustanzazione (o di consustanzazione?), E = mc2? , “anche se non poteva durare oltre quell’attimo terribilmente dolce in cui meglio sarebbe stato, e senza alcun dubbio, sporgersi leggermente più in fuori e lasciarsi andare”, ancora E = mc2?

Tutto è quasi finito – e ora quasi comincia Da altre parti (Capitoli dei quali si può fare a meno)”. Visto che ho le mani bagnate, intendo leggerli. L’ultimo della seconda parte era targato (-135), il primo di questa accidentale e non essenziale sezione è (-70). Si tratta di monconi amputati delle prime due parti. C’è un nuovo personaggio: “Morelli”, il quale “pensò un libro che non andò oltre a delle annotazioni sciolte.” – traduco: non fintamente ordinate in senso cosmico.

In 67 (oppure: (-83) leggo:Sono costretto a tollerare che il sole spunti ogni giorno. È mostruoso. È disumano.” Il successivo, anche: (-9) “è un esempio del ‘giglico’, linguaggio immaginario che si pone come beffa del linguaggio razionale.” – così avverte la nota 62 a pagina 585. Quello che segue, che è anche (-52) “è intraducibile”, per cui (per assurdo gioco!) viene tradotto “letteralmente”, cioè “senza intervenire nell’ortografia…”.

Una frase mi emoziona in quello che sopraggiunge, che è 70, ma anche (-147): “… supplichiamo Dio che ci liberi di Dio” – che può diventare un Grazie a Dio non c’è Dio. Pare che ben “peggio” di “un incubo orwelliano o huxleyano” ci sarà, dietro l’angolo, “un mondo delizioso, su misura dei suoi abitanti” – il che mi fa venire in mente un alveare o un formicaio, pazientemente osservato da Edward O. Wilson, dove le divisioni sociali sono puntellate col DNA: “un mondo soddisfacente per gente ragionevole”. Il casino che vive in noi (tanto per sintetizzare il problema), “quante volte mi domando se questo non sia altro che scrittura, in un tempo in cui corriamo verso l’inganno fra infallibili equazioni e macchine di conformismi.”

Si narra il caso di quel “napoletano” e della sua amata “vite”, che non voglio spoilerare: vale l’intero romanzo, I suppose.

Devo ricordarmi però di quelle strane h (annoto, non si sa mai, la pagina, una fra le tante: 407), e di quei misterici í, così disseminati nel territorio.

Vi sono varie ipotesi di lettore, quella che mi appassiona di più è di farne “un complice, un compagno di viaggio.” Sempre la turbinosa, E = mc2: “… entra nel gioco il ritmo e lo scrivo entro quel ritmo, scrivo tramite esso, mosso da esso e non da ciò che è detto il pensiero e che crea la prosa, letteraria o altro.”

Un mio cruccio di sempre: “se leggo Joyce sto sacrificando automaticamente un altro libro e viceversa, eccetera…” – per cui leggere è essere complice di un ladro, e di tradire un collega.

A volte mi chiedo se non avesse ragione un’omonima di mia figlia che diceva: a me non piacciono i film in cui, uscendo, uno si chiede Chissà cosa avrà voluto dire il regista! – certo che ha ragione, la sua. Io perseguo il mio torto, che è suo consanguineo. Io tendo ad amare i torti dello scrittore immaginandoli come ragioni insindacabili. L’unico scrittore buono è quello che ha scritto. L’unico libro buono è quello comperato, o ricevuto in regalo, o trafugato di nascosto in libreria, e poi, necessariamente, letto.

“Quelli del Club, eccetto due, sostenevano che era più facile capire Morelli dai passi che lui citava che attraverso i suoi meandri personali.”tipo i ready-made di Duchamp. Mi sono sempre chiesto perché lo sfacelo, che non è una brutta parola, derivando dal greco sphákelos, che vuol dire cancrena, che ha onorato l’arte figurativa non abbia granché intaccato quella letteraria. Poco o nulla di letterariamente notevole (è un mio punto di vista) somiglia alle opere di Burri, Kline, Manzoni… Stranezze (che è anche il titolo di una raccolta di poesie di Sandro Penna) sono dunque: “hunità”, “hego”, “haltro” e numerose altre haccezioni: – e poi c’è la spiegazione: “Usava le acca come altri la penicillina”. Altra singolarità, priva di black hole: tutte le finali accentate con i e u sono brevi: í e ú, che fa molto spanishMa non è proprio così… – come diceva un amico che obiettava su tutto.

Scoprirò poi (non per caso, ma perché ho cercato di capire) che l’Editore Einaudi, già da vati decenni, ha deciso di adottare una norma redazionale aderente alla fonetica, quindi le i e le u sono sempre accentate con l’accento acuto perché per loro natura sono foneticamente sempre chiuse.

Il giorno in cui si scopre un lato della vita, semplice ma misteriosamente occulto, è un giorno fortunato. Poi, poiché sto leggendo L’avventura del Metodo di Edgar Morin, sento come mio umano dovere andare a controllare uno degli ultimi Einaudi che ho letto, Lezioni di Ian McEwan: confermo perciò il dato. La domanda seguente non può che essere: perché non me n’ero accorto? Perché, così, anzi: cosí, su due piedi, ho ipotizzato un inesistente ispanismo?

“Misurando le cose da un punto temporale e da uno assoluto sentiva che sbagliava nel primo caso ed aveva ragione nel secondo.” – mah… e chi non crede nell’assoluto, che si fa, nel frattempo, un atarassico onanismo?

A pagina 435 leggo: “Solo il piacere nel suo palpito ultimo è il medesimo; prima o dopo il mondo è andato in pezzi e bisogna nuovamente darhli nome, dito per dito, labbro per labbro, buio per buio.” – insomma, per sparare una piolata, è una situazione assai pen-osa.

A pagina 440 mi sorge un’idea banale: Horacio, Morelli e Cortázar sono tre corpi e un’anima sola.

“Una prosa può corrompersi come una bistecca di maiale” – sì, è così. Forse anche cosí.

“La mia prosa imputridisce sintatticamente e avanza – con grande fatica – verso la semplicità.” – in bocca al lupo!

“… il vero e unico personaggio che mi interessa è il lettore, nella misura in cui può contribuire a mutarlo, a dislocarlo, a stupirlo, ad alienarlo.” – grazie, eccomi, caro!

“… quel rullio felice che ipnotizza il lettore dopo aver fatto la propria vittima nello scrittore medesimo.”uno scambio di messaggi telepatici?

Julio Cortázar
Julio Cortázar

“… gli fa schifo il romanzo polpettone. Il libro che si legge dal principio alla fine come un bravo bambino.”io lo leggo, anche se a volte m’inquieta l’esofago.

“… lo scrittore deve dar fuoco al linguaggio, finirla con le forme coagulate e procedere oltre, mettere in dubbio la…” – e poi continua la manfrina da par suo. Incendiare per fondere le due anime? Allora sì, accetto, sia pure con riserva.

Il capitolo 104 (che è anche un numero invalidante) dà un’imperfetta e magica definizione della “vita”, che non riporto per evitare spoiler.

“… i loro Sade, i loro Miller…” – Henry, I hope… Oppure Arthur?

“… che lui chiamava lettore-femmina…”e non aggiungo altro. Credo che non c’entri tanto il sesso, ma non ne sono sicuro.

A pagina 483 si dice che “il libro doveva essere come quei disegni proposti dagli psicologi della Gestalt…” – dovremmo forse parlarne con Mauro di Lorenzo e Laura Paroli, autori di Il Rorschach nel ciclo della vita.

“… un racconto che vorrei il meno letterario possibile…” – ha mai pensato seriamente a cambiare mestiere? Sei troppo preso dal “disseccamento” di quello e di quell’altro. Secondo me ti stai guastando la vita per poco.

“Non posso spiegarmi meglio…” – allora significa che hai ancora una speranza.

“Il romanzo che m’interessa non è quello che colloca via via i personaggi nella situazione, ma quello che insedia la situazione nei personaggi.”forse non te ne sei avveduto, mio triplice amico, ma mi sono alzato in piedi e ho iniziato ad applaudire. Dopo di cui ho deciso che è ora che vada a letto. Riprendo, dopo il caffè. Leggendo le parole “coalescenza” e “deliquescente” ho capito l’ennesima piccolezza: ai tre autori piace… no, non c’entra il loro gusto, è che non possono fare a meno di cercare una definizione a tutto.

Avverto i genitori dell’importanza del capitolo che occupa la pagina 523 e che tratta dei “Pericoli della chiusura lampo”. A Reggio Emilia la chiusura delle braghe a bottoni è detta fèsa. Una volta, ad Amalfi, dissi a una specie di playboy che si era dimenticato di abbottonarsi dopo una rapida minzione: hai la fessa aperta. E quello mi guardò malissimo. Gli spiegai. La chiuse.

Il capitolo 133, nonché denominato (-140) è un peana che santifica quello che in Italia si appella al dettato della Legge n. 638/1983 e al conseguente art. 1 della Legge n. 389/1989: viva i CCNL!

“… Oh, lo sai, Horacio combina dei guai e poi li guarda con l’aria del cucciolo che dopo aver fatto la cacca, rimane lí, stupito a guardarla.” – secondo me qualcosa di simile l’ho già letto.

“Io non sono lo zombie di nessuno, Manú, non voglio essere lo zombie di nessuno.” – questo capitolone ricalca il 55, che però non riporta alcun rimando a diversa numerazione.

“Poverina, capiva benissimo un mucchio di cose che noi ignoriamo a froza di saperle.” – tanti asini sapienti! Fine. Ma anche le varie appendici abbondano di í e di ú.

Leggendo sia l’intervista Rayuela: l’invenzione sfrenata, fatta all’autore da Omar Prego (a cui mi sento di rivolgere un necessario Grazie), che le varie lettere inviate da Cortázar a un tot di amici, in genere grandi ma a volte scarsi estimatori, mi domando cosa penserebbe il mio caro Julio della presente reazione. Secondo me abbozzerebbe un mezzo sorriso, perdonandomi le eventuali stupidaggini. Il fatto che queste appendici non mi sono risultate fastidiose ma addirittura paicevoli, la dice lunga sulla capacità di divertire di quest’anomalo scrittore. Egli afferma, forse mentendo: “Ho scritto Rayuela senza pensare a un lettore.” – in fondo è credibile, quando si scrive si pensa soprattutto a esprimersi, anche se il nostro Doppio è da un po’ che sta covando le sue uova sotto la cenere della nostra Psiche, nell’Anima intendo.

“… quel che faccio è quel che sono…” – un po’ è vero, anzi, è proprio così e anche cosí.

Rimbaud, Cortazár e il sottoscritto sono consanguinei, e ognuno dice di sé: Je est un autre.

Caro Julio, non sopporti tanto Aristotele, eppure, talvolta, anche lo stagirita serve, prova a chiedere al tuo stimato Jacques Derrida. James Joyce, nel suo Ulisse, un minimo sindacale l’ha rispettato (nell’unità di tempo, quanto meno). Leggendoti e reagendoti, a volte mi confondevo: cosa sto leggendo e a cosa sto reagendo, a Rayuela, al saggio della Chines e di Varotti o al romanzo di Tabucchi. Oggi ho ultimato la lettura delle due fiction, mentre il saggio lo conclusi un paio di giorni fa. Eppure tutti e tre si stanno agitando dentro di me. Domani comincerò a reagire per iscritto anche a Sostiene Pereira. Meno male che sono in quiescenza e ho raggiunto una specie di socialismo reale. Una volta ero tenuto a dormire, nutrirmi, ma solo dopo aver faticato quanto ero condannato a fare, e m’era consentita un’oretta d’aria per respirare. Sic (anche síc) transit gloria mundi.

Di tutte le tre le opere ho cercato di comportarmi tipo un parassita simbiotico, ma sono consapevole di aver ricevuto più di quanto ho dato. Grazie a tutti voi ho cominciato a non ignorare parte di quello che so. Anche se, mentre vi leggevo, un po’ mi distraevo, anche perché stavo spesso scrivendo mentalmente.

Purtroppo, presto, forse già da domani, vi oblierò. Questo mi succede ogni volta che inizio dapprima a sberleccare e poi ad azzannare un altro libro. Ogni lasciata è persa, dicono. Focalizzare un nuovo punto è annebbiare la vista rispetto al precedente. Leggere e scrivere per me è un’esperienza che richiede solitudine, simile però a una seduta spiritica. Non voglio consanguinei e solidali fra i cabasisi. Tu sei uno scrittore limitato, come pochi che ho letto. È questo che sancisce il tuo immenso valore. Un ultimo complimento? Sì, leggerti è stato come estrarre dalla pancia un polipo da un chilo e mezzo, simile a quelli che si formano nel naso. Ma era grande come una triplice piovra. Bravo!

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Julio Cortázar, Rayuela ‒ Il gioco del mondo, Einaudi, 2015

 

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