“Dissolute e maledette” di Lorenzo Braccesi: combattenti, condottiere e regine
Nella storia dell’Occidente, il potere si declina quasi sempre al maschile; anche il mondo antico ne preclude la gestione alle donne, tranne in rari casi. Queste eccezioni sono presenti soprattutto in Oriente; qui l’istituto monarchico non ha conosciuto tramonto.
Cosa accomuna le donne che esercitano un potere autocratico? Sono tutte vedove di un sovrano; tutte chiamate alla reggenza in nome del futuro erede, di cui sono madri. Oppure, in regimi poligamici, sono ex consorti di rango elevato; designate dal monarca ‒ o designatesi ‒quali reggenti. Comune è la capacità di gestire il governo in autonomia; sciolte dal laccio di consiglieri e ministri, spesso scomodi. Nei secoli dell’età repubblicana a Roma non esistono monarchi; dunque è possibile incontrarle durante il trapasso al principato.
Vestono i panni di signore della guerra o di aspiranti cospiratrici; raramente sono vedove, più spesso ripudiate. Sul loro capo si abbatte una doppia condanna; per l’esercizio di un ruolo politico, per lo status di guerriere. E per la tracotanza: hanno invaso un territorio maschile. Di loro si dice che sono intriganti; ancora più spesso, sono descritte come assetate di sangue, avvezze a ogni lussuria.
Ma è davvero così? Lo storico e saggista Lorenzo Braccesi mostra come queste donne siano state trattate in modo ingeneroso; vituperate dalla storiografia, la tradizione ne ha fatto ricettacoli di turpitudine. In Dissolute e maledette (Salerno Editrice, 2022, pp. 152) Braccesi decostruisce la leggenda nera creata ad arte intorno alle loro figure; gli esempi scelti, incentrati sul mondo antico, costituiscono archetipi ricorrenti nelle età successive. Il saggio distingue le donne per presunte categorie delittuose, quelle proposte dalla tradizione; nel capitolo conclusivo si sofferma su due temi in parte giustapposti.
Combattenti e condottiere, regine e influenti consigliere, alle donne che raggiungono vette del potere nelle società antiche non sono perdonati forza, carattere e talento. Quando una donna esercita funzioni che, per millenni, sono state di esclusivo appannaggio maschile, la macchina della diffamazione la colpisce, perché il successo femminile suscita diffidenza e invidia.
Dotate di fascino, carisma e di prorompente vitalità, queste figure fuori dall’ordinario ci appaiono come protagoniste indiscusse in un mondo che fu loro ostile. Un mondo di cui conquistarono la ribalta, muovendosi impunemente nello spazio pubblico al di là di angusti stereotipi di genere. Ma la condanna della storiografia maschilista fu senza appello: hanno le mani lorde di sangue, praticano l’adulterio e l’incesto, esercitano le arti delle cortigiane o, addirittura, delle professioniste da strada. Diffamate e denigrate, queste donne dell’età antica rappresentano un esempio di coraggio, tenacia e intelligenza dall’immenso valore umano.
Andiamo a conoscere le dissolute e maledette.
Lordate di sangue
Nel Purgatorio Dante incontra Tomiri, la regina dei Massageti; la fonte è Orosio, il quale racconta come ella abbia distrutto l’esercito persiano. Lo storico non risparmia particolari raccapriccianti; Tomiri, o Tamiri, avrebbe infierito sulle spoglie di Ciro. Ne avrebbe immerso la testa, spiccata dal corpo, in un otre colmo di sangue umano; nel compiere la profanazione, la regina avrebbe ululato parole sconvenienti a una donna. “Satia te […] sanguine quem sitisti […]”; espressione disdicevole per due motivi. Perché è segno raccapricciante della barbarica feritas dei pagani; e perché il pagano è una donna. Una regina, per giunta; la natura e la maiestas avrebbero dovuto vietarle il mestiere delle armi. E quell’eloquio da taverna. Perché Dante non la sprofonda nell’Inferno? Perché Tomiri ha posto fine all’arroganza di Ciro; egli intendeva conseguire un impero ecumenico. Empio disegno, il suo; Dio ha assegnato solo ai Romani quel dominio universale. Come si presenta Tomiri nella tradizione classica? Due filoni convivono; l’uno cruento, l’altro asettico. Il primo risale a Erodoto; egli la presenta come una regina vedova, fiera della propria indipendenza. Decisa a non rinunciare alla gestione del potere e alla libertà; ragione per cui rifiuta la proposta nuziale di Ciro. Profferta invero assai interessata. Il Gran Re risponde con le armi, al fine di assoggettare i Massageti; il figlio di Tomiri, consapevole dell’imminente sconfitta, si dà la morte. Se non fosse tornato a lei, avrebbe saziato di sangue il re persiano; questo il giuramento della madre. La quale vi ha tenuto fede, stando a Erodoto; è nelle sue pagine che nasce l’immagine di Tomiri lordata di sangue. Perché lo storico insiste sul truculento? Egli esalta la nemesi che punisce la ὕβρις di Ciro; tale versione è fatta propria da Giustino. Il secondo filone della tradizione annovera Frontino e Polieno; due scrittori di curiosità militari. Entrambi riferiscono della battaglia, interessati solo a un aspetto; l’espediente usato dalla regina per sconfiggere il nemico. Altre versioni non contestano la leggenda nera; ma neppure accennano a vendette cruente. A livello storiografico Tomiri non è propriamente una belva assetata di sangue; è piuttosto uno strumento. La sua mano interrompe il sogno ecumenico di Ciro; e insieme estirpa la superbia che lo gonfiava.
Si diceva che Alessandro Magno fosse figlio di Zeus; fattosi serpente, il dio avrebbe ingravidato la preda. L’artefice della leggenda è proprio la madre del dux; Olimpiade, moglie di Filippo di Macedonia. Seguace di Dioniso, menade sfrenata; e, ripudiata, probabile mandante dell’assassinio del marito. Mentre è certo che l’ultima sposa di Filippo e la loro neonata morirono per mano sua; così testimonia Giustino. Un sentimento protettivo di madre muove Olimpiade; forse già intuisce quale gloria attenda suo figlio. Il trono è rimasto vuoto; e Alessandro è acclamato nuovo re dalla nobiltà macedone. Quella situazione dinastica confusa cela insidie; il giovane sovrano rischia di perdere il potere. I nemici vanno tolti di mezzo; madre e figlio agiscono in sintonia. Gli autori antichi presentano Olimpiade come una furia ultrice; in realtà è ispirata dalla ragione politica, volta ad assicurare la legittima successione ad Alessandro. Da madre ha versato sangue; verserà sangue anche da nonna. Dopo il 323 a.C. si trova a tutelare i diritti successori del nipote; ne consegue una guerra tra regine. Ce ne parla Diodoro. Nel 317 a.C. Olimpiade riporta una vittoria incruenta. Cosa accade in seguito? A questo proposito disponiamo soltanto di una tradizione negativa; Olimpiade sarebbe responsabile di atroci misfatti. Insediatasi a Pella, avrebbe dato inizio a un bagno di sangue; è ancora Diodoro la nostra fonte. Il furore della regina si sarebbe abbattuto sulla fazione avversa; ma forse questa tradizione è stata alimentata dalla propaganda del suo rivale Cassandro. Egli istiga una misera soldataglia; Olimpiade è messa a morte. Ma termina i suoi giorni da regina; senza fuggire. Quella di Olimpiade è una figura plastica; possiede capacità politica, caratura di antagonista e animosità virile. La tradizione storiografica è di stampo maschilista; dunque non può perdonarle questa somma di caratteri. L’ostilità verso di lei affonda in due moventi; radici che si intrecciano. La denigrazione strumentale per fini politici; l’odio di genere.
Teuta, regina illirica, governa un monarcato tribale; la pirateria ne è la principale risorsa economica, insieme alla guerra da corsa. Vedova del re Agrone, ella esercita la reggenza in nome del figlio di lui; in regime poligamico, la madre è Triteuta. Teuta è una regina barbara; non è aliena da forme di sovranità matriarcale. Floro presenta il quadro più cruento delle sue nefandezze; la prospettiva è impietosamente maschilista. “Idque quo indignus foret, mulier imperavit”; lo storico ci va giù pesante. Quelle nefandezze sarebbero state meno disonorevoli, se compiute da un uomo; è contro natura che le donne si comportino alla maniera dell’altro sesso. Quali sono questi orrendi atti? Floro ci riporta al 29 a.C.; è in corso la prima guerra romano-illirica. L’autore insiste sulla contrapposizione tra civiltà e barbarie. Gli ambasciatori romani sono iure agentes; agiscono nel nome del diritto. I barbari sono scelere agentes; autori di delitti, popolazione degenere perché guidata da una donna. Gli ordini di lei sono raccapriccianti; si infierisca sui messi a colpi di scure, si ardano vivi i comandanti delle navi. Floro dice il vero? Egli è compendiatore di Livio; il quale racconta un’altra verità. Un solo ambasciatore sarebbe stato ucciso; così anche Polibio, che offre la narrazione più esauriente della vicenda. I due legati avrebbero protestato per gli atti di pirateria; il più giovane si sarebbe lasciato sfuggire parole incaute. L’offesa alle tradizioni illiriche gli sarebbe costatata la vita; Teuta avrebbe ordinato di ucciderlo. Il messo trucidato sarebbe solo uno; come si è arrivati a due? Lo spiega Appiano; il suo racconto offre preziose verità nascoste, spesso sfuggite agli studiosi. Se la sua versione è giusta, lo stravolgimento dei fatti serve per creare un legittimo casus belli; per rivendicare un bellum iustum contro un popolo finito nella spirale imperialistica di Roma. Teuta è meno sanguinaria di come viene dipinta; forse non è nemmeno responsabile dell’accaduto. Il vero mandante sarebbe Agrone; all’epoca dell’ambasceria era ancora in vita.
Cortigiane di Oriente e adultere di Occidente
Tra i dannati del V canto dell’Inferno, Dante incontra Semiramide; lussuriosa “imperatrice di molte favelle.” Chi è Semiramide? Sarebbe da identificare con la vedova del sovrano di Assiria; dall’809 a.C. all’806 a.C., reggente per il figlio. Orosio non è tenero; Semiramide è “libidine ardens, sanguinem sitiens.” E mancata infanticida; e madre incestuosa di un figlio flagitiose conceptus. Donna, si veste da uomo; chiara espressione della sua natura bisessuale. Esiste un altro filone della tradizione; più benevolo, ne esalta la personalità, la statura di sovrana e di conquistatrice. Anche la poesia augustea esprime giudizi positivi. Properzio la ricorda come promotrice di opere pubbliche; Ovidio ne celebra l’avvenenza e la cura della persona. Due tradizioni opposte e apparentemente inconciliabili; eppure trovano un equilibrio nella vulgata storiografica di Trogo, compendiata da Giustino. Semiramide si finge maschio sì; ma per esercitare in modo autorevole la funzione di reggente. E l’incesto? Si potrebbero avanzare motivazioni di carattere rituale; ragioni dinastiche; o una terza ipotesi. Il figlio, ormai adulto, avrebbe ucciso Semiramide per ascendere al trono; avrebbe motivato il delitto con l’incestuosa brama materna. Natura bisessuale, lussuria; le accuse mosse a Semiramide sono sfociate in una spietata denigrazione, specie tra gli autori cristiani. Tra storia e leggenda è nato un personaggio bifronte; forse la faccia più autentica è quella apprezzata anche da Alessandro: una conquistatrice dell’Asia, dal Nilo all’Indo.
La tempesta infernale del canto V travolge anche l’anima di colei che fu “lussuriosa” e “trista”; così Dante definisce Cleopatra, ultima regina d’Egitto. La prima notazione deriva da Floro; nelle sue pagine leggiamo che Antonio si consumò tra le braccia dell’amante tra “il lusso e la libidine”. Dunque Cleopatra è “trista” perché lo condusse alla perdizione; e perché, ormai vinta, si diede la morte sotto gli occhi di Ottaviano. Orazio e Properzio non le risparmiano ingiurie; la poesia augustea, espressione della propaganda del vincitore, si nutre di veleno verso la Aegyptia coniux. Lussuriosa, femmina da alcova, disonore della stirpe macedone; questi gli epiteti più frequenti. Perché tanto disprezzo? Siamo in una congiuntura cruciale per la storia di Roma e del Mediterraneo; l’odio di genere verso la regina si lega alla polemica politica, alla propaganda di guerra. Plutarco ricorda che Cleopatra ebbe “un’ammirata considerazione della propria bellezza”; la strategia della seduzione è la sua arma in un mondo dominato dagli uomini. A finire soggiogati dal suo fascino esotico, un maturo condottiero baciato dalla gloria; poi un triumviro al culmine del potere. Cesare ha cinquantadue anni quando conosce Cleopatra, ventunenne; legati da interessi politici, certo. Ma nulla esclude che la loro sia una storia di amore reciproco; dalla quale generano un figlio, Cesarione. Cleopatra sarebbe dunque meritevole di riprovazione? E lo sarebbe nel rapporto con Antonio? La regina e il triumviro sono legittimi consorti; dalle loro nozze nascono tre figli. Il coniuge offre a Cleopatra il destro per creare nuovi equilibri politici; ella lo spinge allo scontro con Roma. Ottaviano li sconfigge ad Azio; la coppia si disgrega. Plutarco e Cassio Dione narrano la vicenda successiva; Cleopatra cerca di salvarsi la vita. Come? È probabile che abbia giocato la carta della seduzione; strategia inefficace con Ottaviano, irremovibile nella propria decisione. Cleopatra non rappresenta un pericolo; ma con lei non è saggio applicare il principio parcere subiectis. Ragioni politiche e personali suggeriscono un unico esito; la donna è messa in condizioni di darsi la morte. Cleopatra non può essere una vinta con cui usare clemenza; deve essere una nemica superba da debellare. Il regime ne esaspera la figura di tinte belliche; il trapasso verso questa Cleopatra è compiuto in Orazio. La denigrazione ottavianea e augustea appare dunque abnorme; è vero, Cleopatra si è servita del proprio fascino. Ma lo ha fatto, con Cesare, per prolungare la vita di un regno languente; con Antonio per farlo risorgere.
Chi è Corinna, la donna cantata da Ovidio? Con ogni probabilità è Giulia, la figlia di Augusto; affascinante, amica di poeti, assidua nei salotti intellettuali. Una donna che non disdegna le avventure galanti; malevolo, Seneca la descrive come una insaziabile prostituta. Ma Giulia è davvero così impudica? Personalità disinvolta, ama ostentare trasgressioni, più che commetterle; e raccontare adulteri, più che consumarli. È la prima femminista della storia; rivendica il proprio corpo per se stessa, come strumento di rivalsa coniugale, di fronda politica. Giulia è una accanita contestatrice delle leggi; di quelle stesse emanate dal padre. La contestazione è la sua arma; all’interno dei matrimoni e dei cenacoli letterari. Il salotto più frequentato è quello animato da Iullo Antonio, l’amico di sempre; tra i suoi amanti, esponenti della nobilitas senatoria. La matrona si sente intoccabile; il senso di onnipotenza segna la sua rovina. Augusto si fregia del titolo di pater patriae; un nuovo Romolo in una Res Publica restituta. Siamo nel 2 a.C.; un duplice evento deve celebrare l’era dell’avvenuta pax. L’inaugurazione del nuovo Foro nel tempio di Marte Vendicatore; una naumachia nel trentennale della vittoria di Azio. Niente deve turbare la solennità delle cerimonie; nemmeno le abituali contestazioni di Giulia. Ma quell’anno, la donna non si limita a ostentare posizioni di fronda; arriva a irridere le leggi paterne, forse a progettare una congiura. Cosa accade? Augusto attua una linea dura; accusa la figlia di ripetute violazioni della legge sugli adulteri. Giulia viene condannata alla relegazione in insula; è la prima confinata della storia, sorvegliata a vista nell’isola di Pandataria. Qual è vero motivo della condanna? L’accusa di aver violato la lex Iulia de adulteriis sarebbe un velo; esso celerebbe un grave atto eversivo. Augusto avrebbe scoperto un attentato alle istituzioni; forse una congiura contro la sua persona, con il coinvolgimento di Giulia. Il reato di natura sessuale appaga l’opinione pubblica; ma l’immagine di Giulia verrà alterata per sempre. Non sarà la donna politicamente impegnata; piuttosto l’adultera sfacciata e sfrenata.
Sabina Poppea, la seconda moglie di Nerone; bellezza, eloquio suadente, intelligenza vivace. La donna perfetta? No; ma la tradizione ha insistito molto sulle non honestae artes. Nel 53 d.C. Nerone sposa Ottavia; invaghitosi di Poppea, egli è stretto tra la moglie e la madre. Stando alla datazione consolare, nel 59 compie il delitto da tempo meditato; soppressa Agrippina, resta un ostacolo alle nozze con Poppea. Nel 62 si sbarazza anche di Ottavia; accusata di adulterio, è relegata a Ventotene e assassinata. Nerone sposa Poppea; di famiglia aristocratica, ella è stata moglie di un eques. Dalle nuove nozze nasce una bambina; Augusta muore quattro mesi dopo. Nel 65 anche Poppea viene a mancare; Nerone è folle di dolore. La sua leggenda nera affonda le radici in questa tragedia; e lambisce di tinte fosche anche Poppea, trasformata in prostituta. Tacito la definisce “dissoluta e crudele”; come lui Cassio Dione. Qual è la vera Poppea? A differenza di altre donne, ella non aspira al potere politico; cerca di assicurarsi una posizione prestigiosa. I suoi obiettivi sono gli stessi cui aspira una matrona astuta e disinibita; la sua arma è la bellezza. Con Nerone la usa in modo sapiente; egli cade preda di una irrefrenabile passione. È probabile che Poppea non lo abbia dissuaso dall’intento delittuoso; che lo esortasse a ripudiare la moglie. Ma dei crimini di Nerone non possiamo ritenerla responsabile; la sua dote è il fascino. Anche per pianificare un delitto serve una mentalità politica; e Poppea non la possiede.
Matrone chiacchierate
In una infuocata arringa, Cicerone immagina che Appio Claudio Cieco prenda la parola; sdegnato, costui scaglia strali avvelenati contro il suo stesso sangue. Sangue degenere, Clodia; insensibile al monito dei maiores, complice delle scelleratezze fraterne. Clodio è molto legato alla sorella; nel crepuscolo delle istituzioni repubblicane, ella ne appoggia l’azione eversiva. Fin dall’esordio della carriera politica, Clodio è protagonista di gravi scandali; il più eclatante lo vede travestito da donna in casa di Cesare. Se il fratello è spregiudicato, la sorella non è da meno; la tradizione offre un ritratto di Clodia per niente lusinghiero. Signora aristocratica, ama le provocazioni; non dissimula una condotta scandalosa. Nella villa sul Tevere si circonda di barbati iuvenes alla moda; non disdegna di aprire l’alcova a qualche schiavo. Vedova chiacchierata; si dice che il marito sia morto di veleno. E di veleno avrebbe rischiato di morire lei stessa; pare per mano di un ex amante, difeso da Cicerone. L’orazione In difesa di Marco Celio Rufo è spietata; Cicerone presenta un’immagine vergognosa di Clodia. Tanto scostumata da prostituirsi alla luce del sole; da abbandonarsi al trasporto in mezzo alla folla. Clodia è la prima iscritta al partito del fratello; è per lui l’impegno politico, spesso nell’intimità dell’alcova. Nei casi estremi non esita a ricorrere al veleno; tanto è votata alla causa la “Medea Palatina”. Questa è Clodia nell’invettiva ciceroniana. Ma quanto c’è di vero? E quanto si deve alla strategia difensiva di un avvocato di grido? Possiamo ipotizzare alcune giustificazioni; e ridimensionare la spregiudicatezza. Clodia anticiperebbe la tensione all’emancipazione femminile; forse anche la rivendicazione della parità sessuale con gli uomini. E l’accusa di incesto? Che il rapporto con Clodio fosse malato è vero; che si fosse spinto oltre, non è incredibile. Ma potrebbe essere stato una sorta di patto di sangue; un sigillo per oscure trame. Non dimentichiamo il privato di Cicerone; in altri tempi, anch’egli aveva corteggiato Clodia. Forse la spina pungeva ancora; forse l’amante respinto tuonava per bocca dell’avvocato.
Marziale trascrive un epigramma osceno di Ottaviano; il futuro Augusto è concupito da una matrona insistente. Egli ne rifiuta le profferte; meglio la guerra. La donna è Fulvia, moglie di Marco Antonio; all’epoca dell’epigramma, suocera di Ottaviano. Nel 41 a.C. Marco Antonio è in Oriente; in Italia il fratello e la consorte ne tutelano gli interessi. La loro politica collide con Ottaviano; impegnato in un sistema di confische, egli crea un diffuso malcontento. Fulvia e Lucio si insinuano in questa crepa; si arriva alla guerra. Nell’inverno del 40 a.C. Ottaviano li sconfigge a Perugia; segue una feroce repressione. Fulvia viene esiliata a Sicione; lì morirà logorata dalla malattia. Durante la guerra, ella è stata bersaglio di insulti sconci; incisi sui proiettili lanciati dalla soldataglia. Nemmeno la storiografia le risparmia ingiurie; è una moglie che subordina le scelte politiche alla gelosia; una donna che si pone come dux femina in ridicoli abiti guerrieri; una femmina diabolica che infierisce su cadaveri illustri. Dione Cassio, Plutarco, Appiano; concordi nella denigrazione. Fulvia merita queste accuse? Le sue scelte belliche non sono ispirate dalla passione; se richiama Antonio in Italia, non è per strapparlo a Cleopatra. Ella agisce per calcolo politico. Fulvia tradisce lo statuto matronale e cinge le armi; lo fa per dedizione alla causa del marito. L’immagine di Antonio resta integra; la sua esce macchiata. Fulvia avrebbe sfregiato cadaveri illustri; l’accusa riesuma un τόπος dell’orrore. Favola nera che riduce la donna a strega; come succederà nei secoli a venire. Scomoda, la memoria di Fulvia, avvelenata dal malanimo storiografico; ai suoi tempi nessuno la difese.
Regine dalla duplice fama
Pausania descrive i monumenti presenti nell’agorà di Sparta; tra le figure in marmo bianco c’è anche Artemisia, figlia di Lígdami e regina di Alicarnasso. L’elogio di Pausania rientra in una tradizione celebrativa; ve ne è un’altra di segno opposto. Una versione che denigra la sovrana; la degrada a “prostituta della plebe cittadina”, e “vecchia lupa”. Il primo filone risale a Erodoto. Artemisia è figlia del tiranno di Alicarnasso; nominalmente lo stato è sotto la sovranità persiana. Alla morte del marito, Artemisia assume il potere come reggente del figlio; domina in Caria e sulle isole di Cos, di Nisiro e di Calidro, comunità di stirpe dorica. La regina non ha obbligo alcuno verso il Gran Re; ma fornisce cinque navi alla sua spedizione. Questa notizia è riferita da Erodoto; insieme alla cronaca della seconda guerra persiana. Lo storico attribuisce ad Artemisia un ruolo non marginale; ne elogia il senno strategico, l’audacia marinara, l’abilità diplomatica. Quali sono le ragioni di tale esaltazione? Artemisia è una signora della guerra; milita tra le fila dei Persiani. Il suo valore è innalzato; mentre il loro ardimento è sminuito. E ancora; Erodoto glorifica la sovrana in nome della comune patria. Veniamo alla seconda tradizione. Semiramide, Cleopatra, Artemisia, Zenobia; tutte meretrici, prostitute e lupe. Così sentenzia Ammiano Marcellino; la cui condanna si pone nel solco di una δόξα ampiamente divulgata. Qual è l’origine? Senza dubbio non giova ad Artemisia il mestiere delle armi; esclusiva maschile. Ma c’è dell’altro. La posizione persiana e antiellenica aveva suscitato malumori; le comunità di Cos, Nisiro e Calidno non le perdonavano quella scelta. La tradizione denigratoria potrebbe nascere dai sudditi delusi; di sentimenti filelleni, già si erano ribellati ai Persiani e mal tolleravano la sudditanza ad Alicarnasso. Quale migliore vendetta contro la donna che li aveva umiliati? Oltraggiarla, macchiarne di infamia la memoria.
Zenobia, regina di Palmira, subisce la stessa sorte di Artemisia; anche nel suo caso la tradizione offre una connotazione bifronte. Clarissima regina, governa per cinque anni; prima è reggente, poi autonoma sovrana. L’ascesa al potere risale al 267 d.C., anno in cui è assassinato il marito; morto il corrector totius Orientis, la vedova si discosta dalla sua linea politica. Si avvicina alla potenza persiana; e ingaggia un duello con Roma. La Storia augusta è una fonte ricca di elogi; le attribuisce innato spirito di adattamento alle fatiche belliche. La connota come “la più nobile tra tutte le donne dell’Oriente”; e la più bella. Bellezza non disgiunta dallo sfarzo; ma Zenobia non è dissoluta. Sa contemperare gli opposti; è generosa e parsimoniosa, severa e clemente. Nel protocollo di corte adotta atteggiamenti di stile persiano; presso gli eserciti indossa vesti marziali di foggia romana. Il connubio tra sfarzo e virtus è un instrumentum regni; Zenobia si presenta come mediatrice tra i due mondi. È colta; la sua cultura è inusuale. Sproporzionata per una donna; e per una donna figlia del deserto. Oltre all’aramaico delle oasi conosce tre lingue; il suo maestro è il filosofo neoplatonico Cassio Longino. Studia in modo approfondito il mondo ellenistico; non solo per passione ma per un motivo politico. Zenobia persegue un progetto; lo sforzo incessante di trasformare il dominato di Palmira in un regno ellenistico. Le innumerevoli virtù non le risparmiano accuse infamanti; come quelle che abbiamo appreso da Ammiano Marcellino. Una tradizione minoritaria le attribuisce anche l’uxoricidio. Gli insulti sessisti potrebbero originare dal mondo militare; come già Fulvia, anche Zenobia sarebbe bersaglio della sguaiata soldataglia. Quanto all’accusa di uxoricidio, chiara è la genesi propagandistica; il vero mandante doveva restare nell’ombra. Solo Roma aveva interesse a denigrare la regina; per scagionare il governo centrale.
Stuprate e sante
Quirino, il Marte romano, si invaghisce di una vestale; la violenta brutalmente. La giovane è Rea Silvia; dallo stupro nascono i gemelli Romolo e Remo. L’abuso è sicuro; che l’autore sia il dio è messo in dubbio da alcune fonti antiche. Ma i più concordano; Marte ghermisce Rea Silvia che passa per il bosco sacro. Il mito rispecchia la realtà; la responsabilità della violenza viene riversata tutta sulla donna. La colpa di Rea Silvia è duplice; ha ceduto alle brame del dio, ha commesso un crimine sacrilego: ha perso la verginità, è rimasta incinta. Come viene punita? La risposta è fornita da Dionigi di Alicarnasso; viene uccisa, flagellata da colpi di verghe. Ennio riferisce la versione più attendibile; gettata nel Tevere, “si unisce in nozze con l’Aniene”. Una terza versione la vuole sepolta viva. In età augustea circola un’altra leggenda; Livio scrive che viene incatenata e chiusa in carcere.
Assiso in tribunale, Ponzio Pilato riceve una missiva. Nihil tibi et iusto illi: multa enim passa sum hodie per visum propter eum; così è scritto. Chi è la mittente? La moglie del prefetto della Giudea; la quale ha molto a cuore la sorte di quel giusto, il Messia. Le matrone romane non usano interferire nelle decisioni dei mariti; specialmente mentre essi, da magistrati, esercitano il pubblico ufficio. Cosa sappiamo della moglie di Pilato? Nel vangelo di Matteo, non ha nome; lo acquista nell’apocrifo di Nicodemo. In queste pagine, la donna si chiama Prókla; è conosciuta anche come Proc(u)la, forma latinizzata. Nicodemo la definisce pia e giudaizzante; forse cristiana eretica, santa Procula è venerata nelle chiese orientali. In molti hanno tentato di spiegare il nome; alle forme Prókla-Proc(u)la si è affiancato un secondo elemento onomastico. La moglie di Pilato è chiamata anche Klaudía o Claudia; onde ella diventa Claudia Procula, secondo la testimonianza di san Paolo. Claudia è un tipico nome di liberta; deriva dal gentilizio del padrone che l’ha liberata. Un membro della gens Claudia; e a questa appartiene Tiberio. Di apocrifo in apocrifo, la donna diventa sua prole adottiva; figlia della ex moglie Giulia. L’erronea tradizione nasce dalla confusione tra le due omonime; anche la bambina si chiama Giulia. Nella letteratura apocrifa, la leggenda della moglie di Pilato si arricchisce di dettagli; diventa un romanzo mai concluso. Tre le tappe fondative; gli Atti di Pilato e il Ciclo di Pilato; il Chronicon, un falso già attribuito a Flavio Destro; il manoscritto delle “lettere di Procula”. Questa parabola trasfigura la realtà storica. Tiberio diventa un pio benefattore; la figlia adottiva una santa, a dispetto della dissolutezza materna.
Cosa si richiedeva alla donna nelle culture antiche? Che si vestisse di decus; che rispettasse un pudico silenzio; che obbedisse all’uomo. Qual era il suo ruolo? Che fosse moglie onesta; e madre prolifica. Guai all’infeconda; ripudiata, onta di se stessa e della famiglia. Le donne che abbiamo conosciuto sono a-normali; perché violano la norma decisa da una società maschile. Queste signore si sono smarcate dal controllo degli uomini; si sono sostituite loro. Hanno interpretato il ruolo virile; e lo hanno fatto in modo impeccabile. Hanno osato; hanno avuto ragione. Ma non avrebbero dovuto osare; e non dovevano avere ragione. Ieri come oggi; oggi come ieri.
Cos’è il loro valore se non intollerabile ὕβρις? Cosa sono esse se non usurpatrici? I defraudati non ci stanno; quella colpa va punita. “Il potere sostanzialmente è sempre maschile, e se delle donne, esercitando un potere scoperto e palese, si comportano come è uso comportarsi l’altro sesso, ciò, perché in aperta dissonanza dal costume imperante, urta con la sensibilità diffusa o, addirittura, con il comune senso della morale. Guadagnandosi, senza appello, la condanna della tradizione”. Gli uomini ne ridefiniscono l’identità; ne riscrivono la storia con l’inchiostro velenoso della calunnia. L’immagine reale è coperta da una crosta di fango; essa distorce la nostra percezione. Ciò che fa Braccesi è rimuovere quello strato; o almeno una parte. Non è possibile restituire tutta la verità storica di quelle donne; resteranno sempre delle aporie, delle zone di nebbia. Ma la rilettura critica delle fonti, epurata dal pregiudizio maschile, molto può; sotto lo strato di fango, riluce una gemma. Il valore, l’ingegno, la saggezza; un tesoro tanto invidiato, tanto maltrattato. Ieri come oggi; oggi come ieri.
Written by Tiziana Topa
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