“Quello che non ho mai detto” di Federico De Rosa: l’autismo e… tutto il resto del mondo
Federico, sto leggendo le tue “memorie”. La differenza fra “memorie” e autobiografia è che le prime presuppongono un autore ormai anziano, che tira i remi in barca.

L’autobiografia, per esempio quella di Malcolm X, è sempre un’auto-bio-grafia, cioè la descrizione ricca di vortici, come per tua sorella Arianna, un voler dire: “Son arrivato fin qui…”, arrivederci alla prossima tappa!
Le tue mi paiono memorie perché sento, ma sono solo a pagina 20, un veder il passato come ad un altro che non rinneghi, ma che non sei più.
Tu ti stai confessando. Io credo nella reciprocità. Imparerai in futuro, se già non sai, che dare troppo se stesso ad un amico o anche alla propria ragazza è pericoloso, non disdicevole.
Potrebbe creare dipendenza.
Lui/lei si abitua alla tua generosità e la dà per scontata, quasi umiliandola. Molte amicizie e qualche approccio amoroso mi ha ferito in tal senso.
Ti restituisco il favore. Anche io sono un tipo particolare. Dal 1977 al 1990, dai 19 ai 32 anni, mi richiusi in me stesso. Non frequentavo amici, ma stavo “da Dio” (chissà perché non si dice mai “vivere da Madonna”, ma si dice “Madonna, che freddo!”).
Lavoravo già dal 1982 e in ufficio la mia vita pubblica era sostenuta senza autismi. Nei primi anni ’80, feci amicizia con Tonino, un estroverso collega che mi portò un po’ fuori, mi istruì sul culturismo, ma che non compì il miracolo di estrarmi del tutto dal mio paradiso dorato, poiché si trasferì a Trapani quasi subito, nel 1985.
Ripiombai in quel paradiso, in cui schivavo gli spassi come il passerotto di Giacomo, e in cui, come quel Sommo, cercavo di curvarmi la schiena con un variopinto sapere.
Tu mi capirai. Ci stavo, davvero, tantissimo bene, fino a che non mi scrutò un giorno quella terribile parolina, che comincia per “a” e che tu ben descrivi a pagina 17. Mi decisi.
Chiamai per telefono il mio amico Onorio, compagno liceale, un normale e paziente “nerd”, che non sentivo da un decennio, che mi introdusse nel giro dei suoi tanti amici. Mia fu la decisione di uscire, sua la collaborazione al mio progetto.
Due anni dopo mi sposai con Maria, che incontrai in vacanza ad Amalfi, e che mi ha dato due figli, uno del 1994 (Michelangelo, strano essere, ciarliero con gli amici, poco più che autistico in casa) e una del 2003 (Anna, strano essere anche lei, ciarliera con chiunque le dia confidenza). Convivo serenamente con questi tre familiari “umani”.
Quando, specie a Pisciotta, Anna e Maria se ne vanno per qualche ora in piazza, io me la godo, ‘sta rinnovata solitudine, come un Buddha, anche se è inverno e non ci sono termosifoni, e i miei pensieri congelano come in Groenlandia capita all’olio dei carri armati.
Ho sei amici carissimi e un arcipelago di conoscenze che frequento talvolta o meno spesso. Sono un essere più o meno “normale”, che ogni tanto guarda cartoni animati con la figlia, come già col maschio, e legge regolarmente Tex e Dylan Dog. Il mio manga preferito è “Death note”.
Mia moglie ce l’ha un po’ (moltissimo) su con me perché posseggo troppi libri, il 30% dei quali stanno al fresco in garage, e per la mia mania di collezionare pupazzetti raffiguranti i miei eroi di carta.
Non sono né felice, né infelice. Attendo l’esito della mia vita.
Ho segnato alcune parole del libro che Carlo Levi definirebbe “pietre”.
Comunicare. Vostra società. Perde centralità. Inquinamento acustico. Rumore. Silenzio. Relazione. Superficie. Profondità. Vorticosa. Solitudine. Solo da bambini. Differenti. Un altro autistico. Angoscia. L’autismo aveva perso e io avevo vinto. Nessuno. Per sempre. Il vostro cervello. Normalità. Scrittura. Riscatto. Volontà. Blocco. Vostro mondo. Ansiogena. Calma. Cognizione. Volontà. Blocco. Nel vostro mondo. Meno ansiogena. Calma. Cognizione. Amici. Esclusa. Integrazione. Senza distinzioni. Rottame in balia delle onde della vita. Al mio autismo. La paura. Il magma informe dell’incomprensibile. Non volevo assolutamente tornare indietro. Risucchiandomi come un vortice verso la prigione del mio passato.
Finito il primo libro. Credo di averti compreso bene. Mi hai aiutato a comprendere me stesso.
Con il tuo aiuto, sono riuscito a capire il significato di quelle paroline così leggere e quasi insignificanti: “grazie”; “prego”; “permesso”…
Mi viene in mente una battuta, quella della signorina molto formale ed educata che si è innamorata di un coltivatore diretto, bello, buono, ma zotico. Gli dice: “stasera andiamo a teatro, cerca di comportarti bene!” Quando la sera si presentano, c’è molta calca. Sono un po’ in ritardo. Fra poco comincia. Devono raggiungere il posto in platea. L’uomo si fa strada fra le persone sedute e dice: “Permesso… scusi… grazie… permesso… scusi… grazie… permesso… scusi… grazie…. Oh?! Non rompo i coglioni, vero?”

La paura che manifesti nel penultimo capitolo, la faccio mia. Mia madre fu una donna molto intelligente. Aveva fatto solo la quinta elementare. Ma fu una scuola per me. Dal 1994 al 2015, anno della sua morte, fu colpita dall’Alzheimer. Perdeva una goccia di coscienza al giorno. Gli ultimi tre anni non parlava. Mi sono sempre chiesto cosa pensasse. Quanti draghi mentali affrontasse nella sua solitudine, nel suo autismo. Mi hai aiutato. Se fossimo su whatsapp, ti strizzerei l’occhio.
Se permetti, commento i tuoi scritti. Io non sono credente, né ateo, né agnostico. Non so se dio esiste. Non so se è possibile saperlo. Non so. Sono ignorante di Dio. Frequentai la messa di padre Aldo Bergamaschi, padre cappuccino, per anni, fino alla sua morte. Fui un suo discepolo silente.
Andai a trovarlo poco prima della sua morte. Ci conoscemmo solo allora. Prova a collegarti con gli amici di padre Bergamaschi (da google) e forse capirai il suo valore intellettuale.
Povertà. Mi insegnò che occorre esser “poveri nello spirito”. Non farsi governare dai soldi. Usarli come si usano gli attrezzi. Non amarli, come non si ama lo sciacquone di una latrina.
Le religioni. Dici: “il fine è la ricerca di dio.” È un mezzo, secondo me. Il fine è trovarlo.
Il mio rapporto con dio. Mi autocito, con un mio scritto giovanile:
“Io sono un ragazzino e scrivo poesie, continuamente poesie, una specie di diario. Oggi ho scritto una frase sibillina. Un poeta non può non credere in Dio. Chissà perché l’ho scritta. Ma ho una poesia che si chiama “Dione”. È un’invocazione, un po’ irrispettosa, di Dio. Me lo immagino grande e grosso, un fratellone da stuzzicare senza paura perché so che mi vuol bene e mi capisce quando scherzo. Non lo ritengo un padre. Già ce l’ho. Ma semplicemente un essere molto più grande di me. È il più grande di tutti i tempi. E io gli assomiglio così tanto, specie nei difetti, scherzo Signor! Tu sei un omaccione dal cuore buono! Quando voglio sapere una cosa difficile o ricordare un episodio i cui particolari mi sfuggono, lo affido a lui. Quando morirò te lo chiederò, poi. Hai capito, Dio? Ricordati di ricordarmelo. Io sono ateo. Non so com’è successo. Non me ne sono accorto. Quando ci penso, non so darmi una spiegazione. Mi interrogo sulle persone che frequento, sulla confusione di pensieri che mi ha preso in questo periodo. Non ci capisco nulla.”
Federico, chiedi a dio perché mi ha abbandonato.
Io a diciannove anni dissi a mia madre: “Ho deciso che non lavorerò nemmeno un giorno in vita mia!” Io a cinquantotto anni: vanto, si fa per dire, 37 anni di contributi. Quando sconterò ‘sta pena!?
Le parole del Credo.
Padre Aldo diceva che Dio è la massima misura delle cose.
È la massima bontà…
La massima grandezza.
La massima giustizia.
Don Giussani diceva che Dio sceglie chi vuole.
Si tratta dello stesso Dio?
Vivere con sapienza.
Ti chiedi come si può riconoscere un uomo sapiente. Sarà lui a riconoscere noi e non noi lui.
La Verità non è nella realtà. La realtà è nella Verità. Non possiamo vedere scorrere una Verità. Ma una realtà, sì, non fa altro che scorrere.
Sarebbe un miracolo se quello che viene definito libero arbitrio non fosse altro che un nostro scorrere, nella realtà delle cose, verso la Verità, che è il nostro anelito, il nostro fine.
Ecco che il nostro minuscolo libero arbitrio e l’Onniscienza della Verità (di “Il” lo definiva T. S. Eliot), coinciderebbe in un improbabile Punto Omega. Non ho fede in dio, ma in quella Verità, in quel Punto Omega ho una smisurata speranza.
Federico, ho finito. Anche a me è simpatica la Madonna, come già scrissi, perché si dice sempre: “Madonna! Che freddo!” “Madonna! Che caldo!” “Madonna! Che orrore!” Mai che si dica: “Madonna! Che fortuna!” Invece si dice: “Stare da dio!” “Vivere da dio!” “Mangiare da dio!” Povero Cristo, che mamma sfortunata che hai. Con papà ti è andata meglio.
Un’ultima domanda, Federico.
Saprò un giorno parlare senza remore a Dio?
O dovrò sempre limitarmi a scrivergli col computer?
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Federico De Rosa, “Quello che non ho mai detto“, Edizioni San Paolo